Rose accusa la NATO: addestrava e armava musulmani e croati in Bosnia

Fonte: http://osservatorioitaliano.org/read.php?id=87492

Washington/Sarajevo – La NATO, sotto il controllo degli Stati Uniti, ha distrutto gli sforzi di pace dell’ONU nella guerra in Bosnia. Lo ha dichiarato il Generale Michael Rose, comandante della missione ONU in BIH nel 1994, accusando la NATO di aver addestrato e armato i croati e i musulmani. Il Generale Rose ha affermato per il “Financial Times” che la stessa NATO sia è resa colpevole della tragedia di Srebrenica, così come l’UE. “Se la NATO avesse distribuito le truppe come voleva l’allora Presidente della BIH, Alija Izetbegovic, per prevenire l’espansione della guerra dalla Croazia, il massacro di Srebrenica non sarebbe mai successo. L’ONU aveva solo compiti umanitari, mentre la NATO distruggeva gli sforzi di pace dell’ONU, perché addestrava e armava i croati e i musulmani”, ha detto il generale Rose, il quale ha reagito così all’articolo i “Tulipani di Srebrenica” di Simon Cooper, giornalista del noto giornale britannico. Il giornalista ha criticato l’esercito olandese in relazione ai tragici eventi di Srebrenica, ma Michael Rose ha tenuto a precisare che il contesto era molto più ampio. “L’essere stato armato ha dato all’esercito musulmano false speranze, che credeva di potersi riprendere il proprio territorio con la forza, ma questa speranza è andata distrutta con l’accordo di Dayton. Siccome la credibilità della missione ONU era stata distrutta agli occhi dei guerriglieri, la missione ONU non poteva aver successo, perciò la NATO e gli Stati Uniti si sono trovati nella situazione di non poter influenzare gli eventi sul campo. La missione ONU non ha avuto successo nel 1995, il che ha in parte incoraggiato il generale Mladic ad attaccare Srebrenica”. Il generale Rose afferma inoltre che la missione ONU non aveva il compito di proteggere o difendere, mentre la risoluzione delle Nazioni Unite relativa alle 5 zone protette, evitava con attenzione questa terminologia. “I membri della missione di pace dei 16 paesi non avevano nessun mandato, non erano stati preparati alla guerra. Mentre la NATO, purtroppo, ha limitato la sua azione ai bombardamenti”, ha aggiunto Rose.

Da osservare che la stessa notizia è stata trasmessa dai media di Sarajevo affermando che “la NATO ha fomentato il genocidio di Srebrenica commesso da Mladic”, disinformando e stravolgendo del tutto le parole del Generale, che in realtà cerca di spiegare come gli accordi sul dislocamento delle eclavi siano stati violati e traditi. Allo stesso tempo, l’intervento del Generale Rose, nonostante sia stato duro ed incisivo, è giunto sulla stampa internazionale eccessivamente in ritardo. L’aver scritto un libro ( Fighting for Peace: Bosnia in 1994 ) non lo esime dalla responsabilità di aver taciuto e di non aver fatto pressioni all’interno dei vertici NATO per impedire che la macchina della disinformazione gettasse fango sulla verità sulla guerra in Bosnia e sulla tragedia di Srebrenica. La stessa condanna ‘palliativa’ dell’esercito olandese che deteneva il comando della missione delle Nazioni Unite, per aver ‘consegnato i soldati musulmani’ al cosiddetto “nemico”, è stato un modo per esorcizzare la grande colpa dell’Olanda per aver permesso lo scontro frontale tra le bande armate bosniache e l’esercito di Mladic, per non aver saputo gestire l’emergenza umanitaria della enclave e per aver taciuto poi sulla verità, nonostante i soldati olandesi fossero stati testimoni.

Una responsabilità che è stata poi ancor più occultata con la diretta sponsorizzazione del Tribunale Penale dei crimini della ex Jugoslavia, con il finanziamento di ogni tipo di iniziativa o progetto sul ‘Massacro di Srebrenica’, nonchè di ogni organizzazione ed ogni associazione per i diritti delle vittime bosniache, sino alla recente rete della Rekom. Restare in silenzio per oltre 16 anni è anch’esso un crimine, come lo è continuare ad accreditare un Tribunale Internazionale fondato sulla ‘disinformazione’ e sul grande conflitto di interesse di Olanda, USA e UE nei confronti della guerra in Bosnia. Per cui, se davvero i vertici militari sono interessati a far luce sugli eventi della ex Jugoslavia si attivino per sciogliere L’Aja e costituire un nuovo Tribunale, a cui possano partecipare anche i Paesi dei Balcani e i loro giudici, i vertici militari coinvolti e gli stessi funzionari delle Nazioni Unite e dell’Alleanza Atlantica che gestirono le operazioni. Quando vi sarà un passo in tal senso, si potrà dire che esiste una reale volontà politica a mettere fine alle speculazioni sulla guerra dei Balcani. Prima di allora, sono solo parole che si aggiungono alla montagna di carta straccia che ha inondato i media in questi anni, disinformando e creando il caos balcanico che oggi conosciamo.

Il trionfo dell’obsolescenza programmata.

Fonte: http://www.pocacola.com/2006/06/08/il-trionfo-dellobsolescenza-programmata/

“…L’industria consumistica vive e prospera sull’Obsolescenza Programmata, questo ormai lo sanno tutti. Quando si immette sul mercato un prodotto, già si sa quando esso sarà da buttare via. In caso contrario, non lo si mette sul mercato. Ogni utensile è quindi progettato per rompersi o per smettere ben presto di servire a qualcosa, perché altrimenti nessuno dopo un po’ comprerebbe più niente.

Quando inventarono le lampadine alogene, per parecchio tempo non le misero sul mercato dato che esse avevano un difetto inaccettabile: erano eterne, non si bruciavano mai. Tempo e soldi investiti nella ricerca “scientifica” ovviarono infine a questo problema, e oggi le lampade allogene dopo un po’ si fulminano, per la soddisfazione di chi intende continuare a vendercene altre.

L’industria automobilistica strombazza circa le virtù delle nuove carrozzerie delle vetture, garantite contro la ruggine per ics anni; in realtà, esse sono garantite per la ruggine esattamente dopo ics anni. Così come i motori sono programmati per rompersi dopo tot anni, le marmitte a bucarsi, i carburatori ad intasarsi, le centraline elettroniche a inchiodarsi, eccetera eccetera. Ci fu se non erro una volta un tale che produsse una macchina garantita per mille anni, ovvero progettata per non rompersi. Fallì miseramente.

Chi per caso si ritrova in casa un vecchio frigorifero degli anni cinquanta, comprende quali passi da gigante abbia nel frattempo compiuto l’industria. Il frigo degli anni cinquanta infatti non si romperà mai – un clamoroso errore di progettazione! I bellissimi frigoriferi moderni invece, riescono ad unire ad un aspetto sano, funzionale ed indistruttibile, l’invisibile garanzia di una data di autodistruzione prefissata…..”
(Liberamente tratto da un’ articolo di Roberto Quaglia per Delos)

Da qui sorge spontaneo un’ altro pensiero che avevo letto chissà dove: ” Nel mondo dell’ informatica non ci sono magazzini”.
Una cosa nota a molti forse, ma sulla quale non sempre ci si sofferma. Il segno evidente della voracità di un mercato.
Uno standard hardware non resta sul mercato per più di un anno e mezzo, dopo qualche mese è praticamente impossibile trovare pezzi di ricambio. La macchina muore. Si passa al nuovo. Il magazzino non serve.

Ragazzi, dove sono finiti i vecchi riparatori che nei loro “laboratori-cantina” riuscivano a resuscitare il mangiadischi che i tuoi ti avevano regalato dopo mesi di preghiere da monaco stilita; oppure la vecchia radiolina con cui sentivi all’ orecchio l’ Hit Parade di Luttazzi (non Daniele….) o il Menelao Strarompi di “Gran Varietà” la Domenica mattina?
Spero che in campo medico le proporzioni temporali non siano le stesse, altrimenti dopo 43 anni, chi trovo che mi sappia riparare un Roby qualunque “modello ’63” ????
C’ è il rischio che mia moglie approfitti di qualche incentivo e mi rottami per portarsi a casa un modello d’ occasione di “soli” 20 anni !!!!!

Washington rende obbligatorio l’impianto di un microchip RFID per tutti gli americani

Fonte: http://www.alterinfo.net/Washington-rend-obligatoire-l-implantation-d-une-puce-RFID-pour-tous-les-americains_a60324.html
Tradotto da: http://astronews.myblog.it/archive/2011/06/27/un-microchip-rfid-a-tutti-gli-americani-dal-2013.html

E’ confermato, il Progetto di Legge sulla Salute di Obama renderà obbligatorio l’impianto di un microchip RFID per tutti i cittadini americani.

L’obiettivo è di creare un registro nazionale di identificazione che permetterà di “seguire meglio i pazienti avendo a disposizione tutte le informazioni relative alla loro salute”.

Il nuovo progetto relativo alla salute (HR 3200) è stato adottato recentemente dal Congresso e alla pagina 1001, contiene l’indispensabile necessità per tutti i cittadini che usufruiscono del sistema sanitario di essere identificati con un microchip sottocutaneo.

In un documento ufficiale, vi è la prova che questi dispositivi fossero già previsti nel 2004. Questo documento della FDA (Food and Drug Administration), datato 10 Dicembre 2004 è intitolato Class II Special Guidance Document : Implantable Radiofrequency Transponder System for Patient identification and Health information ( Documento di orientamento  speciale di classe II : Sistema di transponder impiantabile a Radiofrequenze per l’identificazione dei Pazienti e le informazioni relative alla salute).

L’impianto di un microchip per i pazienti che contenga le informazioni sulla loro salute era quindi già allo studio nel 2004. Nel Progetto di Legge intitolato America’s Affordable Health Choices Act of 2009 (Legge del 2009 sulle scelte di salute finanziariamente abbordabili  dell’America), si può leggere nel paragrafo Subtitle C – National Medical Device Registre ( Sottotitolo C – Registro nazionale dei Dispositivi Médici), che è prevista una scheda per ogni persona che ha o sarà munita di un dispositivo sottocutaneo: Il ” Secretary ” stabilirà  un ” registro nazionale dei dispositivi medici ” (in quel paragrafo sono chiamati “registro”) per facilitare l’analisi della loro sicurezza dopo la commercializzazione, con i dati di ogni dispositivo che è o è stato utilizzato su un paziente…”

Quindi tutte le persone che avranno ricevuto il microchip saranno schedati in un nuovo registro che ancora non esiste.

Con il pretesto di assicurare meglio l’assistenza sanitaria e preservare la salute dei cittadini, tutta la popolazione sarà marchiata con un microchip elettronico e schedata. L’inizio della marcatura obbligatoria per tutti è previsto a partire dal 2013.

Alla pagina 1006 del progetto, è fatta una precisazione sulla data di entrata in vigore del dispositivo: “ENTRATA IN VIGORE. Il Ministro della Salute e dei Servizi Sociali,  metterà in opera il registro in virtù dell’articolo 519 (g) della Legge Federale sul cibo, i farmaci e i prodotti cosmetici come da aggiunta nel paragrafo, non più tardi di 36 mesi dalla promulgazione della presente Legge, senza preoccuparsi se le regolamentazioni definitive per stabilire e utilizzare il Registro siano state promulgate o meno in quella data”.

Quindi 36 mesi a partire dalla data di entrata in vigore della Legge! Questo ci dà 3 anni. Il 2013 è l’anno in cui la marcatura obbligatoria dovrebbe incominciare. Da notare che entrerà in vigore anche se non sarà stata adottata nessuna regolamentazione sul suo utilizzo e che sia presente o meno un inquadramento ben definito sull’utilizzo del “registro”.

Altre pazzie da “Helicopter Ben” mentre la Federal Reserve rifinanzia le banche europee

Fonte: http://www.movisol.org/11news128.htm

29 luglio 2011  – I primi due round dei salvataggi della Federal Reserve (i cosiddetti QE, Quantitative Easing 1 e 2) non hanno fatto che peggiorare la crisi, eppure questo non ha impedito al governatore della Fed Ben Bernanke di minacciarne un terzo. Infatti, parlando alla Commissione Finanze del Congresso il 13 luglio, ha annunciato che la Fed sta preparando un QE3, con l’ulteriore espansione del proprio bilancio, se non verrà aumentato il tetto del debito pubblico. Ha ripetuto il messaggio il giorno dopo.

Quello stesso giorno, il 14 luglio, Lyndon LaRouche ha dichiarato inequivocabilmente, nel corso di un’intervista a LPAC-TV, che il tentativo del Presidente Obama di procedere con un iperinflazionistico QE3 scatenerà una reazione a catena a livello globale, ma soprattutto nella regione transatlantica. Tutti gli elementi di questa serie di QE equivalgono a una rapina, ha detto. Visto che tutte le forme dell’economia produttiva vengono chiuse, “tutto quello che si fa è creare iperinflazione, passo dopo passo” creando del debito che non ha assolutamente alcun valore.

Molti commentatori negli Stati Uniti hanno fatto notare che Bernanke sta cercando di salvare l’Euro, una missione impossibile che induce la Fed ad accettare sempre più titoli tossici come collaterale. In effetti, il 29 giugno, mentre annaspava l’Eurozona, la Federal Reserve ha allungato i termini di scadenza della linea di currency swap illimitata alla Banca Centrale Europea, così come alle banche centrali svizzera, britannica, canadese e giapponese.

La BCE viene descritta ampiamente come una “bad bank europea” nella crisi attuale del debito, perché ha abbassato gli standard per i titoli collaterali che acquista dalle banche al di sotto del livello junk ed acquista da equity funds privati, hedge funds e banche d’affari. Ci si chiede se la Federal Reserve non finirà con l’acquistare direttamente il debito sovrano europeo, o i titoli bancari europei, a sostegno della BCE nei guai.

In questo contesto, un rapporto che apre gli occhi è stato postato sul sito di analisi finanziaria Zero Hedge in giugno. Utilizzando le tabelle della Federal Reserve sul flusso di fondi e le riserve bancarie, lo studio mostra che i 600 miliardi di dollari stampati per il cosiddetto QE2 sono andati offshore alle banche europee e al gruppo Inter-Alpha. I titoli del Tesoro USA acquistati dalla Fed con le riserve appena stampate dal novembre 2010 al 30 giugno 2011 erano principalmente provenienti da BNP Paribas, RBS, Barclays, Credit Suisse, Deutsche Bank, HSBC e UBS. L’analista di Zero Hedge conclude: “Gli unici beneficiari delle riserve generate sono state le filiali americane delle banche stranieri (che a loro volta hanno rispedito il contante alle loro filiali nazionali)”.

Ci sono alcune iniziative al Congresso USA per tagliare i fondi governativi al Fondo Monetario Internazionale, fondi che vengono usati per rifinanziare le banche straniere. La parlamentare Cathy McMorris Rodgers, vicepresidente del gruppo repubblicano alla Camera, ha dichiarato in un’intervista del 27 giugno alla rivista conservatrice Human Events: “Non ha alcun senso aiutare il FMI a salvare i paesi europei insolventi quando i nostri stati americani che hanno deficit immensi fanno i tagli necessari alla spesa. E l’UE e il FMI non possono rifinanziare la California e il New Jersey”.

 

Portorico, criminalità all’attacco

Scrotto da: Alessandro Grandi
Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo/29626/Portorico%2C+criminalit%26agrave%3B+all%27attacco

Troppi omicidi stanno trasformando il Paese in uno Stato dove vige la legge del più forte

Il problema della violenza sta attanagliando l’isola di Portorico. Non ci sono più dubbi ormai: qualcosa sta cambiando nei rapporti e nei comportamenti della malavita locale. Troppi omicidi, troppe stragi di ragazzi e uomini, quasi sempre con precedenti penali legati al mondo della droga, stanno trasformando la capitale San Juan, ma in generale tutto il Paese, in un’area dove piano piano andrà in vigore la legge del più forte. E sono in molti quelli che pensano possa avvenire una ‘messicanizzazione‘ del Paese.

Dubbi ce ne sono pochi: oggi Portorico non è l’isola incantata che conoscevamo anni fa. Il grande dispiegamento di forze dell’ordine nelle diverse aree del Paese non ha prodotto risultati apprezzabili nel contenimento delle attività criminali.

E per queste ragioni da inizio anno sono state ben 630 le morti violente sull’isola. Sembra che le forze di polizia non siano in grado di arginare un fenomeno che negli ultimi anni è aumentato in maniera dilagante.

Lo spiega bene anche il report emesso dalle Nazioni Unite, settore Estadisticas de Crimen y Justicia Criminal. Portorico è l‘ottavo Paese al mondo con il più alto rapporto pro capite fra popolazione e polizia. Si parla di numeri importanti: poco meno di 600 agenti ogni 100mila abitanti.

In quest’ottica si deve leggere anche l’abbandono dell’incarico da parte del sopraintendente della polizia José Figueroa, avvenuto ufficialmente per questioni legate al suo stato di salute, ma che tutti considerano come un addio dovuto al fallimento della politica della sicurezza attuata nel Paese.

La situazione intanto sembra andare sempre più a picco e dalle analisi dei dati in possesso delle autorità dell’isola si percepisce come il 2011 potrebbe ben presto trasformarsi nell’anno peggiore sotto il punto di vista della violenza. Nel 2010 furono 955 gli omicidi. Oggi siamo già a 630 vittime. Il timore è che quest’anno possa segnare il record degli omicidi.

Nell’ultimo fine settimana 14 persone sono state uccise in diverse zone dell’isola. Tutte, secondo la polizia, avevano una qualche relazione con il crimine organizzato e il traffico di stupefacenti.

Un brutta faccenda che potrebbe trascinare il Paese, che è Stato Libero ma Associato agli Usa, in una polveriera.

E da più parti si fa sempre più largo il pensiero che la colpa di cotanta violenza debba essere ricercata all’interno delle nuove strategie che le grandi organizzazioni criminali sudamericane e dedite al traffico di droga, stanno studiando.

La grande pressione che gli Usa stanno attuando contro i trafficanti di droga, soprattutto per quanto riguarda la zona di confine con il Messico, costringe i cartelli a trovare nuove vie per il trasporto di droga. E cosa c’è di meglio che un’isola dei caraibi che è già territorio statunitense?

I dubbi e le considerazioni restano. Di fatto, oggi, siamo qui a contare centinaia di vittime di una guerra fra bande che porterà solo all’ulteriore impoverimento di un Paese e, probabilmente, alla perdita di molti suoi altri figli.

 

Renato Vallanzasca

Fonte: http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=787&biografia=Renato+Vallanzasca

C’è chi nasce sbirro, io sono nato ladro“.
Parola dell’ex boss della Comasina famoso per aver seminato il terrore a Milano e dintorni durante gli infuocati anni ’70. Parola di Renato Vallanzasca, personaggio complesso e contraddittorio di indiscutibile fascino. Un fascino torbido e respingente, ma testimoniato anche dalle centinaia di lettere che il “bel Renè”, com’è stato soprannominato, riceve tuttora in carcere.

Nato nel capoluogo lombardo il giorno di San Valentino, 14 febbraio del 1950, a metà anni ’60 è già un capetto rispettato della Comasina. In breve tempo grazie a rapine e furti è pieno di soldi tanto da permettersi un alto tenore di vita e una casa prestigiosa in piena Milano, che condivide con la sua compagna.
Da qui, avvalendosi di un carisma da tutti riconosciuto, guida la sua banda che già dalla fine degli anni ’60 aveva procurato guai e commesso omicidi in tutta la Lombardia.

All’epoca Vallanzasca era un ventenne di piacevole aspetto che aveva già avuto a che fare precocemente con la legge. Già a otto anni infatti si rese protagonista di un episodio poco piacevole, avendo liberato per dispetto gli animali di un circo, procurando un grave rischio per la comunità.
In seguito le sue bravate gli costano il carcere minorile (il famigerato “Beccaria”), primo contatto con quella che sarà la sua futura dimora.

Il sipario su di lui comincia lentamente a calare il 14 febbraio 1972 quando viene arrestato solo una decina di giorni dopo una rapina ad un supermercato. Resta in carcere per quattro anni e mezzo (intanto la sua compagna, a piede libero, partorisce un figlio), ma non si può certo dire che sia un detenuto modello.
Partecipa a numerose rivolte, ma ovviamente la sua ossessione è l’evasione.
Non trovando altri mezzi si procura un’epatite attraverso una cura massiccia di uova marce e iniezioni di urina (si dice anche di sangue infetto), così da essere ricoverato in ospedale.
Il 28 luglio 1976 grazie fra l’altro alla complicità di un poliziotto Renato Vallanzasca è uccel di bosco.

Di nuovo libero torna alla vecchia vita. Con la banda raccogliticcia che ha saputo ricostruirsi fugge al sud in cerca di riparo.
La scia di sangue che si porta dietro è impressionante: prima l’omicidio di un poliziotto ad un posto di blocco di Montecatini: nessuno l’ha visto ma l’esecuzione porta inequivocabilmente la sua firma. Poi cadono un impiegato di banca (Andria, 13 novembre), un medico, un vigile e tre poliziotti.

Stanco delle rapine Vallanzasca pensa in grande, è alla ricerca del pingue introito che lo sistemi per sempre. Si dà alla vigliacca pratica dei sequestri. Il 13 dicembre 1976 cade nella rete Emanuela Trapani (poi fortunatamente liberata il 22 gennaio 1977 dietro pagamento di un miliardo di lire), mentre, inseguito dalle forze di polizia, lascia sul terreno due agenti ad un posto di blocco di Dalmine.
Stanco e ferito all’anca, finalmente lo pescano nel suo covo il 15 febbraio.

Questa volta è in prigione e ci resta.
Il suo nome è ormai non solo simbolo di criminalità, ma anche di vita eroica e spericolata, di avventure al ben oltre il limite della legalità, così come piace alla fantasia popolare colorare le vicende banditesche.
Era inevitabile dunque che il nome di Renato Vallanzasca finisse nel titolo di qualche film italiano, cosa puntualmente avvenuta con “La banda Vallanzasca” (1977), pellicola che porta la firma del regista Mario Bianchi.

Il 14 luglio 1979, nel carcere milanese di San Vittore, sposa Giuliana Brusa, premessa “sentimentale” alla sua seconda e mancata evasione avvenuta il 28 aprile 1980.
La dinamica della tentata fuga è a dire poco rocambolesca. Pare che durante l’ora d’aria siano comparse tre pistole che consentirono ai detenuti di prendere in ostaggio un brigadiere. Portatisi fino al cancello d’ingresso, diedero il via ad una furibonda sparatoria, proseguita anche nelle strade e nel tunnel della metropolitana. Vallanzasca, ferito, e altri nove vengono riacciuffati subito, altri detenuti riusciranno a darsi alla macchia.
Non si è mai saputo chi fornì le pistole ai banditi.

Il 20 marzo 1981 mentre è rinchiuso a Novara, Renato Vallanzasca è autore di un atto che per la sua gratuita efferatezza sconvolge nuovamente l’opinione pubblica: durante una rivolta taglia la testa ad un ragazzo e ci gioca a pallone. Per lui si aprono le porte del carcere duro.
L’ex boss della Comasina è un uomo pieno di risorse e il 18 luglio 1987 riesce a scappare attraverso un oblò dal traghetto Flaminia che, sotto scorta, lo sta portando all’Asinara: i cinque carabinieri che lo accompagnavano gli avevano assegnato una cabina sbagliata.
Si reca a piedi da Genova a Milano dove concede un’intervista a “Radio Popolare” e sparisce.

Nel frattempo si taglia i baffi, schiarisce i capelli e si concede una breve vacanza a Grado, alla pensione Uliana, dove di lui si parla come di una persona affabile e divertente.
Il 7 agosto è fermato ad un posto di blocco mentre sta cercando di raggiungere Trieste. È armato, ma non oppone resistenza.
Una volta tornato in gattabuia divorzia dalla moglie Giuliana, ma il suo spirito non è ancora domo. Il suo chiodo fisso è la libertà. E’ disposto a qualunque cosa pur di evadere.

Il 31 dicembre 1995 ci prova un’altra volta dal carcere di Nuoro ma la cosa non gli riesce, sembra per una soffiata.
Nel frattempo colleziona ammiratrici, e non solo quelle che leggono le sue gesta sui giornali popolari: una sua “tutrice”, forse innamorata di lui, viene accusata di falsa testimonianza mentre la sua avvocatessa con la quale riesce a stringere un rapporto molto profondo, sospettata, è accusata di averlo aiutato nel tentativo di fuga nuorese.

In totale ha collezionato quattro ergastoli e 260 anni di galera, è accusato di sette omicidi di cui quattro attribuiti direttamente alla sua mano.

Nel 1999 è uscita una sua biografia scritta in collaborazione con il giornalista Carlo Bonini.

Dal 2003 Renato Vallanzasca è recluso nel carcere speciale di Voghera come vigilato speciale.

All’inizio del mese di maggio 2005, dopo aver usufruito di un permesso speciale di tre ore per incontrare l’anziana madre 88enne, residente a Milano, Renato Vallanzasca ha formalizzato la richiesta di grazia, inviando una lettera al ministro di Grazia e Giustizia e al magistrato di sorveglianza di Pavia.

Aggiunta della redazione: Ora invece l’ex bandito che spopolava fra le donne timbrerà tutte le mattine alle 7 per andare a lavorare in una pelletteria gestita da una cooperativa sociale…

La polizia sapeva il nome del killer da prima dell’arresto.

Scritto da :di Paul Joseph Watson Fonte:http://www.prisonplanet.com/
Traduzione: Megachip a cura di Elena Tattaboi.

Un giornalista britannico chiede come mai le autorità fossero a conoscenza dell’identità di Breivik in anticipo. Nonostante dai media sia considerata inetta a causa del troppo tempo che le è occorso per raggiungere l’isola di Utøya, è ora emerso che la polizia conosceva il nome del killer Anders Behring Breivik prima ancora che lo arrestasse, un’ammissione sorprendente che ha spinto uno dei principali anchormen del giornalismo televisivo britannico a chiedersi come mai le autorità fossero a conoscenza dell’identità del killer in anticipo.

Durante la sua trasmissione Channel 4 News trasmessa venerdì sera, il conduttore Jon Snow ha chiesto «perché la polizia conosceva il nome del killer nel momento in cui era arrivata sull’isola?», ha riferito il live blog del Telegraph.

«Si è arreso al momento in cui la polizia ha chiamato il suo nome tre minuti dopo essere arrivata. Quel che non sappiamo è come la polizia conoscesse il nome del terrorista, prima che lo arrestasse», ha detto Snow, che è riconosciuto come uno dei più attendibili giornalisti televisivi della Gran Bretagna, e non può essere liquidato come un “teorico della cospirazione”.

Snow ha posto la domanda anche sulla sua pagina ufficiale di Twitter.

Come facessero le autorità a conoscere l’identità del killer prima della sua strage dei giovani norvegesi sull’isola di Utøya, addirittura prima che essa fosse giunta al termine, e mentre la congettura stravincente era ancora incentrata sui terroristi islamici, rimane un mistero, così come la questione del perché la polizia non abbia sparato immediatamente a Breivik.

È anche nettamente in contrasto con il punto di vista dell’«incompetenza» su cui hanno fortissimamente calcato il tasto i media del potere per spiegare perché ci siano voluti oltre 90 minuti per la polizia per raggiungere l’isola, un lasso di tempo che ha contribuito in modo significativo a far sì che Breivik arrivasse al punto di poter rivendicare un numero così elevato di vittime .

Alcuni hanno ipotizzato che Breivik possa avere avuto dei complici, e anche se la polizia ha ignorato la presenza di più sparatori nell’isola, durante la testimonianza sul suo caso in tribunale oggi, Breivik ha ammesso che lui era solo una parte di un’organizzazione che includeva almeno altre due “cellule” che stavano progettando futuri attentati.

«Credo che ci fossero due persone che stavano sparando», ha riferito il sopravvissuto Alexander Stavdal al giornale norvegese VG, mentre altri testimoni oculari hanno riferito di aver sentito colpi di pistola da «due posti diversi sull’isola, contemporaneamente.»

Iran: parte la borsa petrolifera di Kish, nuovi interrogativi sul dollaro

Scritto da: Federico Dal Cortivo
Fonte:http://europeanphoenix.com/

A dare l’annuncio storico è stato il Ministro del petrolio iraniano a interim Alì Abadì, che ha definito la cosa “una seconda nazionalizzazione del petrolio iraniano”.

In effetti creare una borsa petrolifera e del gas alternativa e in concorrenza con New York e Londra, che detengono dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il monopolio delle contrattazioni petrolifere, è quanto mai rivoluzionario, ma al tempo stesso lo è fortemente destabilizzante in chiave anglosassone.

La Repubblica Islamica dell’Iran è oggi il secondo possessore di riserve petrolifere  e il quarto produttore a livello mondiale, il che ne fa una potenza in chiave energetica di primo piano. Introdurre un nuovo “marker petrolifero”, che è lo strumento attraverso il quale  si definisce il prezzo del petrolio, in alternativa al West Texas Intermedie Crude, United Arab Emirates Dubai Crude e al Norvay Brent Crude, rappresenta una sfida anche contro la moneta sovrana delle transazioni petrolifere, il dollaro.

Non è un mistero che un’eventuale futura sostituzione totale della moneta americana, ad esempio con l’euro, innescherebbe una serie di reazioni a catena che in breve potrebbero portare all’adozione della moneta europea da parte di altri grandi produttori di petrolio, gas e vari consumatori.

La Russia, la Cina, l’India ma anche il Venezuela e altre nazioni dell’America Latina, non hanno mai nascosto la loro insofferenza di fronte al monopolio Usa e alla sua moneta, che sarebbe carta straccia  a causa dell’imponente deficit statunitense, ma ancor oggi ancora capace di condizionare il mondo proprio grazie a questa sua prerogativa di moneta di scambio per l’oro nero.

La domanda da porsi oggi è: quale sarà la reazione degli Stati Uniti all’iniziativa iraniana?

Ancora oggi gran parte del loro potere, oltre che militare, è dato dall’aver imposto al mondo la propria moneta. L’attacco di questi mesi all’Europa, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, è un attacco al ventre molle dell’euro, e l’obiettivo è proprio la valuta europea, contro cui la speculazione finanziaria anglosassone con le proprie agenzie di rating si è scatenata, ne è la prova più chiara.

Nel recente passato a farne le spese, per avere osato mettere in dubbio il predominio del petrodollaro, fu l’Iraq di Saddam, quando nel 2000 decise di staccare l’economia irachena dalla moneta Usa, convertendo in euro il “Fondo Iracheno presso le Nazioni”, che faceva parte del programma “Oil For Food”. In pratica i ricavati dalla vendita del petrolio  iracheno erano fatturati in dollari in un fondo della banca francese Bnp Paribas, e il denaro era diviso in parti, sia per riparare i danni di guerra, sia per il governo iracheno: si parla di circa 65 miliardi di dollari. In seguito l’Iraq aprì un conto in euro presso la stessa banca francese ,e successivamente tutti i proventi della vendita del petrolio iracheno finirono nel Fondo delle NU e poi depositati in Bnp Paribas in euro, come rilevava William R.Clark (Hopkins University School of Medicine- con ricerche sull’esaurimento del petrolio, problemi valutari e geostrategia degli Stati Uniti) autore di ”Petrodollar Warfare”, in cui l’autore arriva alla conclusione che “i veri motivi dell’attacco all’Iraq non siano state le mai trovate Armi Distruttive di Massa, né la lotta al terrorismo, ma sia stato più che il petrolio stesso “il mezzo finanziario per il controllo del suo prezzo a livello mondiale”. I petroeuro di Saddam furono individuati come il pericolo maggiore per gli Usa, anche in vista di una probabile adesione dei Paesi dell’Opec,  e quindi  la successiva reazione militare fu devastante. Poi la normalizzazione, con tutti i conti petroliferi iracheni riconvertiti in dollari.

La bella addormentata esiste davvero

Scritto da  Annalisa Di Branco
Fonte:http://www.nextme.it/lo-sapevi-che/2340-la-bella-addormentata-esiste-davvero

Il caso di Louisa Ball ha già scatenato sul web giochi di parole tra favola e realtà, al punto che oggi è più nota come ‘la bella addormentata‘ piuttosto che con il suo nome di battesimo, e tutto per via dei suoi lunghi e improvvisi letarghi.

Ma c’è poco da scherzare: questa ragazza di soli 17 anni vive una vita tutt’altro che facile, in balia di una malattia rarissima che può lasciarla addormentata anche 15 giorni di fila.

Per essere precisi, si tratta della cosiddetta sindrome di Kleine-Levin, un disturbo del sonno che ha colpito Louisa circa 3 anni fa a seguito di un banale ricovero ospedaliero dovuto ad una classica influenza, e già in quell’occasione, dopo essersi addormentata, sono occorsi più di 10 giorni perché si risvegliasse.

Dal 2008, lo stato di sonno prolungato si verifica per lei all’improvviso, e tutta la sua vita si ferma: niente scuola, niente palestra, niente vita sociale. I suoi genitori sono costretti a sorvegliarla continuamente per soddisfare quantomeno i suoi bisogni primari: la svegliano per mangiare e andare in bagno, ma sistematicamente Louisa crolla fra le lenzuola.

Resta prigioniera del sonno per lunghi periodi, alle volte anche due settimane consecutive.

Ciò che sconvolge maggiormente è l’assenza di cure mirate e risolutive per la sindrome di Kleine-Levin; la medicina si limita infatti alla somministrazione di farmaci stimolanti del sistema nervoso che possono quindi contribuire a tenere i pazienti svegli, ma con risultati non proprio ottimali.

E intanto Louisa vive questa adolescenza fuori dall’ordinario fin troppo serenamente, in attesa di una risposta scientifica che, almeno per adesso, non promette soluzioni a breve termine.

Armi alla Libia, confermato lo scoop di Globalist

Scritto da: Ennio Remondino
Fonte: http://www.globalist.ch/4DCGI/Detail_News_Display?ID=1353&typeb=0&session=UAAAJTSAQX.

L’inchiesta della magistratura sarda sul mistero dei missili e delle armi scomparse dalla Maddalena su cui il governo ha apposto il segreto di Stato, rappresenta la conferma dello scoop di Globalist sulle spedizioni di materiale bellico che il governo italiano ha fatto ai ribelli libici fin da inizio marzo. Infatti la scomparsa di quel materiale riguarda proprio la Libia e non altro.
Oggi siamo in grado di rivelare il retroscena politico che ha portato a questa operazione: nell’ultima parte del mese di febbraio, quando la posizione del governo Berlusconi (in questo appoggiato dalla Lega) di continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata insostenibile, il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta, sono riusciti a organizzare una operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, che nel frattempo aveva annunciato di aver abbandonato Gheddafi per schierarsi con gli insorti.
Gaddur si è fatto garante di un accordo con Mustafa Abdel Jalil, ex ministro della giustizia di Gheddafi diventato presidente del Consiglio Nazionale di Transizione libico.
Il “prezzo” da pagare per dimostrare il vero cambio di campo da parte del governo Berlusconi erano diversi aiuti. Tra cui una sostanziosa fornitura di armi di cui gli insorti avevano grandi necessità.
Nel “pacchetto” ci sarebbero state anche garanzie personali ed economiche a favore di alcuni alti papaveri degli insorti. Ma di questo, semmai, se ne parlerà un’altra volta.
Fatto sta che a inizio marzo un primo carico di armi è arivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare. Ma le consegne sono state diverse. Su una di queste è stata aperta l’inchiesta della magistratura che ha consentito di confermare quello che già era stato scritto.

di Ennio Remondino

Lo “Scoop” a scoppio ritardato. La solita scoperta che l’acqua calda brucia e l’effetto diventa titolo sui giornali dell’ovvio. Gli “aiuti” italiani ai ribelli libici di Bengasi, nuovi amici da conquistare agli interessi nazionali e petroliferi italiani, erano anche armi. Soprattutto armi. Dovevamo mandare forse latte liofilizzato e pannolini per neonati? Neanche le imbarazzanti piroette politico-dialettiche del ministro degli esteri Franco Frattini erano arrivate a tanto. Prima la difesa fuori tempo massimo di Gheddafi, poi la rincorsa a cancellare le tracce delle imbarazzanti ruffianate e mettere a frutto, con i probabili futuri nuovi padroni della Libia, il nostro capitale di rapporti interni, certamente privilegiato. Vuoi sul fronte diplomatico, vuoi imprenditoriale, vuoi di “intelligence”, che poi traduci in spie. Per non lasciare campo a francesi ed inglesi, che la democrazia in Libia la pesano a barili di petrolio.

Quando il Segreto è legittimo? Né potevamo pretendere che lo stesso ex magistrato Frattini venisse a raccontarci che, per fornire quelle armi sottobanco a dei “ribelli”, si doveva “forzare” qualche legge. Quelle che valgono per i comuni mortali. Salvo eccezioni, nell’interesse dello Stato, da tutelare appunto col “Segreto di Stato”. Globalist aveva lanciato il sasso, volutamente ignorato da alcune agenzie di stampa nostrane su “consiglio” della Farnesina. Armi che ufficialmente non esistevano in Italia e che quindi potevano tranquillamente viaggiare e cambiare destinatario e utilizzo. Noi sapevamo, con dettagli, del vecchio arsenale ex Gladio uscito da Capo Marrargiu e sbarcato a Bengasi. Oggi, grazie all’intervento di una Procura della Repubblica, veniamo a sapere di un’altra spedizione della stessa partita. Altro materiale non inventariato, quindi “inesistente” e spendibile.

Due spedizioni e il resto. Sempre dalla Sardegna, questa volta i sotterranei dell’ex base navale Usa della Maddalena. Merce militarmente più pregiata per i “consumatori finali”, come direbbe Ghedini. Armamento ex URSS finito nelle guerre balcaniche e sequestrato dalla Nato nel 1994. Un cargo fermato al largo di Otranto mentre navigava verso la Croazia. L’armamento, un bel po’ di arnesi destinati alla “reconquista” delle krajne serbe, finisce in “custodia” dentro un magazzino delle forze armate italiane. Non inventariato ufficialmente, esattamente come le armi più obsolete e di marca occidentale dei vecchi “Nasco” della Stay Behind italiana. Il meglio per i combattenti libici che il servizio militare lo hanno fatto usando gli AK-47, gli ormai inflazionati Kalashnikov, e non certo le bifilari Beretta ormai adottate come arma di ordinanza persino dagli ex Cow Boy della Colt.

Segreto buono, segreto sporco. Due spedizioni clandestine d’armi verso la Libia, quelle svelate sino ad oggi. Una non nega l’altra ma, anzi, la conferma. Con due dettagli da sottolineare. Il primo riguarda il modello informativo italiano: non quello di Aisi o Aise, ma quello dei giornali. Certe notizie, se non obbligate da evidenze ufficiali, non trovano l’attenzione e l’impegno di verifica per la diffusione “alta”. Salvo chiedere alla Farnesina se è vero che Frattini ha detto una bugia e gli “aiuti umanitari italiani” ai ribelli libici prevedevano qualcosa in più di alimenti e medicinali. Come chiedere a Riina se esiste la mafia. Due: la stessa magistratura ordinaria insegue oggi le armi ex balcaniche per un eventuale trasporto occulto su navi “civili”, con rischio per i passeggeri. Più o meno come valutare la punizione per guida senza patente all’autore di una strage.

“Deviato” sarà Lei! Per essere seri e realisti occorre innanzitutto prendere atto che esiste il “Segreto di Stato” garantito ad operazioni di intelligence legate alla sicurezza: attive, passive, preventive. Poi uno può porsi il problema se quelle operazioni erano realmente nell’interesse della Stato, se l’input era istituzionale, corretto, preveggente o sbagliato. Responsabilità politiche, insomma. Sempre. Dove, a grattare sino in fondo, rischi di scoprire che una intera generazione di giornalismo pistaiolo, a caccia dei rami “deviati dei Servizi”, ha sbagliato semplicemente albero. Sempre e soltanto quello dell’indirizzo politico, salvo non lievi intromissioni di “suggeritori politici” ufficialmente non autorizzati. Ufficialmente, ripeto, e non certo per fare un favore ai “Fratelli” delle varie “P” diversamente numerate che lo Stato avevano infiltrato. Semplice presa d’atto, analisi senza moralismi di una realtà planetaria diffusa. La politica, sempre, soltanto e soprattutto. Se poi la politica non è mirata all’interesse collettivo ma di una parte, non è colpa né del cronista né dello “spedizioniere” di armi verso la Libia.