Che cos’è il guerrilla gardening?

crotto da: Nicoletta
Fonte: http://www.soloecologia.it/28112011/che-cose-il-guerrilla-gardening/

Il guerrilla gardening è un movimento internazionale nato a New York e poi diffusosi nel resto del mondo. Opera anche in Italia (questo il sito ufficiale: http://www.guerrillagardening.it/); è costituito da comuni cittadini che, per amore dell’ambiente, si organizzano al fine di contrastare il degrado urbano mediante atti di giardinaggio dimostrativi che si chiamano “attacchi verdi”. L’azione più tipica dei guerrilla gardener è il “flower bombing”, un gesto dimostrativo che inizia con la preparazione di piccole “bombe” costituite da un mix di terriccio, fertilizzante e semi di fiori o erba avvolti in carta da cucina. Le bombe vengono lanciate in maniera più o meno segreta (a volte col favore delle tenebre) in aree ritenute troppo “grigie”, in modo che vadano a creare dei ciuffi verdi nel momento in cui l’acqua piovana scioglierà la carta. Le bombe possono essere lanciate su un tetto, in un cantiere abbandonato, in aiuole dove non cresce più nulla. L’importante è cercare di utilizzare specie autoctone, che possano attecchire e sopravvivere facilmente.

Oltre alle bombe di semi, i guerrilla gardener creano anche aiuole, piantano fiori, arbusti e piante, recuperano spazi di verde residuale nelle città che paiono abbandonati ma con poche attenzioni potrebbero rivivere. Ci sono gruppi che – anche con il supporto di vivai e associazioni cittadine – curano zone incolte del verde urbano oppure si occupano della manutenzione e della potatura di cespugli, aiuole e piante già esistenti ma trascurate.

Il movimento dei “guerriglieri del verde” è aperto a tutti, non ci sono limiti di alcun tipo: include infatti mamme con bambini, liceali, universitari, lavoratori, casalinghe, pensionati – insomma qualsiasi figura. Esistono gruppi in tutte le più importanti città d’Italia, che di solito assumono un nome simpatico ed evocativo: per esempio a Napoli il gruppo si chiama “Friarielli ribelli”, a Bari ci sono gli “Ortocircuito, a Busto Arsizio i “Falce e rastrello”, mentre a Reggio Calabria si chiamano con un altro bel gioco di parole “Piantagrano”.

Per chi volesse seguire il loro esempio e far sbocciare fiori in zone troppo degradate, il consiglio è di scegliere per il “bombardamento” una zona vicino a casa, in maniera da poter seguire l’andamento della semina e godere appieno la soddisfazione di vedere il cambiamento che essa apporta. Meglio trovare un gruppo di amici nel quartiere che abbiano a cuore l’aspetto verde; ottima l’idea di coinvolgere qualche pensionato o persona disponibile che viva vicino all’aiuola seminata, in modo che possa tenerla costantemente sott’occhio.

Cina, arriva la recessione e cominciano i guai

Scritto da: debora Billi
Fonte: http://crisis.blogosfere.it/2011/11/cina-arriva-la-recessione-e-cominciano-i-guai.html

Pessime notizie dalla produzione industriale cinese. Tira aria di recessione e diminuiscono gli ordinativi, tra scioperi, delocalizzazioni e persino l’avvento di un esercito di robot.

Siamo ormai abituati a considerare la Cina come il mostro industriale che produce per conto dell’intero pianeta. Non esiste quasi oggetto che non sia “made in China”, e il lavoro cinese è diventato parametro: “stipendi cinesi”, “ci vogliono tutti cinesi”.

E invece, qualcosa sta cambiando anche là. D’altronde, la crisi non ha preferenze. Riporta un’analisi Reuters:

Il settore industriale cinese ha avuto una contrazione record nel mese di novembre, la peggiore in 32 mesi, in conseguenza a segni di debolezza economica interna. La Cina potrebbe stare scivolando verso un duro atterraggio, che alimenta le paure per una recessione globale.

L’immediata conseguenza sono gli scioperi. Si stanno diffondendo per tutto il Guagdong, il principale distretto industriale cinese. La contrazione degli ordinativi ha condotto ad un ridimensionamento ulteriore dei salari, e gli operai non ci stanno. Non solo: sembra che molte aziende stiano meditando di delocalizzare, ovvero spostare la produzione in regioni cinesi depresse dove si può praticare una politica salariale ancora più estrema. Chi l’avrebbe mai detto, che anche i cinesi avrebbero affrontato la delocalizzazione.

E c’è persino di peggio. Ricordate la Foxconn, l’azienda che occupa quasi un milione di persone e dove l’anno scorso si era verificata un’ondata di suicidi a causa delle disumane condizioni di lavoro? Ebbene, la Foxconn è stufa di tutte le noie che arrecano gli operai in carne ed ossa, con le loro pretese di essere pagati, fare pipì, suicidarsi eccetera, e ha pensato di sostituire i lavoratori con un milione di robot.

Ma probabilmente riuscirà a sfruttare anch’essi talmente a sangue, che dovrà assumere un esercito di Susan Calvin.

Foto – iphoneitalia

Fukushima: bando al riso di 4322 fattorie. Ricoverato il direttore dell’impianto

Fonte:http://www.asianews.it/notizie-it/Fukushima:-bando-al-riso-di-4322-fattorie.-Ricoverato-il-direttore-dell%E2%80%99impianto-23301.html

La prefettura di Fukushima ieri ha proibito la commercializzazione del riso di 2381 fattorie, oltre a quelle già colpite. Il direttore della centrale è ricoverato in ospedale, e sarà sostituito.

Tokyo (AsiaNews/Agenzie) – La prefettura di Fukushima ha deciso il bando dal commercio del riso proveniente da 2.381 fattorie di Nihonmatsu e Motomiya quale misura collaterale a seguito dei livelli elevati di cesio radioattivo (oltre i 500 becquerel/kg) trovati nel raccolto delle vicine città di Date e Fukushima. Il provvedimento, ultimo effetto della crisi nucleare della centrale danneggiata dal sisma/tsunami dell’11 marzo scorso, amplia così il blocco già disposto nei giorni scorsi e porta a quota 4.322 il numero di fattorie totali coinvolte.

Nel frattempo si discute molto sul ricovero ospedaliero annunciato ieri di Masao Yoshida, (nella foto) direttore della centrale di Fukushima. Il ricovero non ”è dovuto all’ipotesi di esposizione alle radiazioni” ha assicurato il ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria, Yukio Edano, in una conferenza stampa. Se maturasse la possibilità di legare la malattia alla crisi nucleare, ha aggiunto, ”tutte le informazioni sarebbero rese note immediatamente”. Tepco, il gestore dell’impianto, non ha rivelato la natura del malore, e neanche i valori relativi alla sua esposizione alle radiazioni per motivi di privacy.

”E’ importante non dare segnali negativi all’opinione pubblica su questo avvicendamento del personale” alla guida del disastrato impianto, ha voluto poi precisare Edano, in relazione all’annuncio della Tepco, maturato un po’ a sorpresa. Yoshida, 56 anni, sarà infatti sostituito dal primo dicembre da Takeshi Takahashi, 54 anni, altro funzionario della utility specializzato nella gestione del nucleare.

Morta Svetlana, la figlia di Stalin, esule negli USA dal 1967

Fonte: http://www.agoravox.it/Morta-Svetlana-la-figlia-di-Stalin.html

Svetlana Iosifovna Stalina, poi Lana Peters, era l’ultima figlia del dittatore e politico bolscevico Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto come Stalin. Negli anni sessanta la sua decisione di rifugiarsi negli Stati Uniti fece scalpore. Divenuta scrittrice, pubblicò due autobiografie di grande successo. E’ morta lo scorso 22 novembre nel Wisconsin, ma la notizia è stata resa nota solo oggi. La biografia di una donna che ha vissuto tutte le tragedie del secolo breve, “prigioniera politica del nome di suo padre”.

Nata nel 1926 dal matrimonio con Nadežda Allilueva, la seconda moglie di Stalin (figlia del rivoluzionario Sergei Alliluyev, poi segretaria personale di Lenin), Svetlana rimase presto orfana della madre. Nadežda, che aveva solo 31 anni, fu trovata morta nella sua stanza dopo un litigio col marito. Accanto al suo corpo, a quanto pare, un revolver scarico. Ma nessuno accertò mai se si fosse trattato di suicidio o omicidio.

Quel che è certo è che quell’unione forzata si fece sentire nell’infanzia della piccola Svetlana. Cresciuta, insieme al fratello Vasily Iosifovich (morto in carcere nel 1962 per complicazioni dovute all’alcolismo) con domestiche e levatrici, la bambina vide raramente suo padre. A 16 anni, ancora ragazzina, si innamorò di un regista russo di 46 anni, Aleksei Kapler, ma il padre si oppose fermamente alla loro unione. Qualche anno più tardi Kapler venne condannato a scontare dieci anni di esilio in Siberia.

Sposatasi a 17 anni con uno studente di Mosca, Grigory Morozov, ebbe il suo primo figlio nel 1945. Fu battezzato Iosif, come Stalin. Lei e Morozov divorziarono nel 1947, mentre nel 1949 fu “promessa” a Yuri Zhdanov, figlio del braccio destro di suo padre, Andrei Zhdanov. L’anno seguente nacque la sua seconda figlia, Yekaterina, ma anche il secondo matrimonio non ebbe fortuna.

Stalin morì il 5 marzo 1953 a 74 anni, dopo tre lunghissimi giorni di agonia dovuti ad un colpo apoplettico che lo paralizzò a letto. Fu proprio Svetlana, anni dopo, a raccontare nei particolari le ultime ore del dittatore sovietico nel suo libro autobiografico: “Venti lettere ad un’amica”. Colpito da emorragia celebrale, Stalin era ormai in preda al delirio. Dal letto di morte maledisse i generali sovietici venuti a rendergli omaggio, accusandoli di averlo tradito.

Dopo la morte del padre, Svetlana rimase diversi anni a Mosca, occupandosi della crescita dei suoi due figli. Parlava fluentemente tedesco, inglese e francese, e si mantenne da vivere lavorando come traduttrice. Nel 1963 si innamorò di Brajes Singh, un comunista indiano in visita nell’URSS. Ma la burocrazia del regime che suo padre aveva contribuito a creare impedì ai due di sposarsi. Singh morì pochi anni dopo, nel 1966, e solo a quel punto a Svetlana venne concesso un viaggio in India. Come scrisse in seguito, benché lei e Singh non si fossero mai sposati, fu il suo viaggio di nozze.

Proprio in quell’occasione venne avvicinata dall’ambasciatore americano a New Delhi. Le venne offerta protezione, insieme all’asilo politico negli Stati Uniti. Per gli USA si trattò di un’operazione di propaganda irripetibile. Partita dall’India alla volta di Roma, poi in Svizzera, Svetlana raggiunse New York nell’aprile 1967. I suoi figli, ormai adulti, scelsero di rimanere in Unione Sovietica.

Nel 1970 conobbe e sposò William Peters, un architetto americano allievo prediletto di Frank Lloyd Wright. Da lui ebbe la sua terza figlia: Olga. Svetlana, diventata ormai Lana Peters, visse tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, esorcizzando con la scrittura i fantasmi del suo passato.

Ritornò in URSS, ormai prossima alla dissoluzione, solo nel 1984. Passò due anni in Georgia, a Tbilisi, non lontano dalla città natale di quel padre che fu all’origine di tutte le sue tragedie. “Non puoi rammaricarti per il tuo destino”, ha scritto, “ma io mi rammarico del fatto che mia madre non abbia sposato un falegname”.

E’ morta lo scorso 22 novembre, a 85 anni, in un ospedale del Wisconsin. I parenti non hanno voluto confermare la notizia, annunciata dalle autorità locali dopo giorni di voci non-ufficiali. Un estremo atto di affetto nei confronti di una donna cui è toccato in sorte di soffrire le tragedie più grandi del novecento.

Donner Party: Cannibalismo per sopravvivenza

Fonte: http://news.discovery.com/history/donner-party-cannibalism-remains-111010.html
Tradotto da: http://www.ditadifulmine.com/2011/11/donner-partycannibalismo-per.html

Durante l’inverno del 1846, nella Sierra Nevada californiana si verificò uno degli episodi più truculenti della storia americana. Quella che venne definita “Donner Party” era una carovana di emigranti partita per un viaggio di circa 4-6 mesi, ma gli 87 membri del gruppo rimasero intrappolati tra le montagne durante un rigido inverno, con poche provviste e quasi nessuna esperienza nella sopravvivenza in ambienti selvaggi.

Solo in 48 riuscirono a sopravvivere, tra atti di cannibalismo, animali domestici per cena, e prove di resistenza continue sotto l’implacabile clima della Sierra Nevada.
A distanza di oltre 160 anni, una ricerca di Kelly Dixon, professore del Dipartimento di Antropologia dell’Università del Montana, è riuscita a mostrarci di cosa si nutrirono i membri del Donner Party per sopravvivere all’inverno e all’assenza di cibo.
Il Donner Party era un gruppo di pionieri (come molti altri ce ne furono in quel periodo) diretto ad ovest su quella che veniva definita “Rotta dell’Oregon”, che partiva da Independence in Missouri per finire in California. Il percorso richiedeva generalmente da 4 a 6 mesi per essere completato ad un ritmo di circa 24 km al giorno.
La parte più difficile del viaggio era rappresentata dagli ultimi 160 km: oltre 500 picchi alti fino a 3.700 metri dovevano essere superati per poter raggiungere la meta, e il tempisto era d’obbligo: durante l’inverno, infatti, la Sierra Nevada era del tutto impraticabile da un carro.
I membri della carovana era quasi tutti impreparati alla natura selvaggia: sebbene vennero definiti pionieri, molti erano membri di famiglie benestanti privi di ogni nozione di sopravvivenza e incapaci di gestire i pericoli del territorio, al contrario di alcune tribù particolarmente bellicose di nativi americani.
A capo della carovana c’era George Donner, ricco agricoltore di 62 anni che assieme al fratello Jacob e alle loro famiglie decise di spostarsi verso ovest e raggiungere la California. Uno degli altri membri della carovana, James Frazier Reed, era noto per viaggiare a bordo di un carro talmente decorato e imponente da richiedere otto buoi per essere trainato.
Su consiglio Lansford W. Hastings, esperto delle vie percorribili californiane, il Donner Party imboccò una via apparentemente migliore rispetto a quella seguita fino ad allora dagli emigranti. Una rotta che non solo avrebbe fatto risparmiare tempo prezioso prima dell’inverno, ma che avrebbe anche evitati spiacevoli incontri con nativi e messicani.
La scorciatoia di Hastings, tuttavia, si rivelò più ostica del previsto: i 60-80 carri furono costretti ad marciare al ritmo di circa 2 km al giorno, e gli uomini più forti costretti di continuo ad abbattere alberi e a ripulire la pista dalle rocce che ostacolavano l’avanzata del gruppo.
Dopo qualche settimana di viaggio, i viveri iniziarono a scarseggiare. Era ormai settembre, e il Donner Party era in ritardo di oltre un mese sulla tabella di marcia, ma il peggio doveva ancora venire. Superate le Wasatch Mountains, i pionieri si trovarono nel Great Salt Lake Desert, uno dei luoghi più inospitali del pianeta.

Il Great Salt Lake Desert è una distesa salata di 10.000 km quadrati che riceve solo 20 centimetri di pioggia all’anno. Potete bquindi immaginare quali fu il destino dei membri del Donner Party: miraggi, rottura dei carri, disidratazione e animali da soma morti di stenti furono solo alcune delle fatiche sperimentate dai viaggiatori durante i sei giorni di attraversamento del deserto.

Era chiaro a tutti che la scorciatoria di Hastings non era altro che una condanna a morte. Ma non c’era altra scelta: era l’unica strada da seguire, ed era ormai fine settembre.
Il Donner Party finì per ritrovarsi in ottobre inoltrato nel bel mezzo delle montagne innevate della Sierra Nevada. Fino alla metà di novembre non ci sarebbe stata possibilità di valicare l’unico passo percorribile, e i pionieri furono costretti ad accamparsi nei pressi di Truckee Lake, luogo in cui si consumò la tragedia che ha reso famoso il Donner Party.
In realtà, all’arrivo a Truckee Lake erano già morte almeno cinque persone, e le cause del decesso furono principalmente il freddo, la malnutrizione e l’affaticamento eccessivo. Tra il dicembre del 1846 e l’aprile del 1847 morirono altri 25 uomini e 9 donne, e per placare la fame i sopravvissuti volsero la loro attenzione verso i cadaveri dei compagni, l’unica fonte di proteine facilmente accessibile per un corpo indebolito dalla fatica, al limite dell’immobilità.
Secondo i resoconti di alcuni dei sopravvissuti, e grazie ai diari redatti ai soccorritori, sappiamo che i membri del Donner Party, trovatisi in assenza di cibo, iniziarono a nutrirsi dei loro animali domestici, inclusi i cani di famiglia e i topi che soggiornavano tra le riserve di grano esaurite.
Uno dei cani, Cash, apparteneva a Virginia Reed Murphy, che affermò: “Mangiammo la testa e le zampe, anche la pelle, mangiammo tutto di quel cane”. Uno, il cane di Patrick Breen, pare abbia fatto la stessa fine con il pretesto di aver mangiato la scarpa di un bambino.
“Quando la carne finì, gli emigranti si precipitarono sulle pelli degli animali uccisi. Se lavorate, tagliate a strisce e bollite, formano una densa colla” spiega Kristin Johnson, che ha studiato la vicenda del Donner Party per due decadi. “Scoprirono anche che le ossa, se bollite abbastanza a lungo o arrostite, potevano essere mangiate”.
Prima di arrivare agli animali domestici, tuttavia, i membri del Donner Party provarono di tutto: pigne, resina e rami di pino, una veste di pelle di bufalo, animali selvatici, e qualunque altra pianta riuscisse a sopravvivere al gelo dell’inverno.
La situazione era destinata a degenerare velocemente dopo aver ucciso anche i migliori amici dell’uomo. Reed, che tentò di organizzare diverse spedizioni di salvataggio dopo il suo esilio dal gruppo nel precedente settembre, una volta arrivato a Truckee Lake con i soccorsi raccontò di essersi trovato di fronte a capelli, ossa, crani e pezzi di arti semi-consumati, ammucchiati di fronte al fuoco.
Dal corpo di Donner erano stati rimossi cuore e fegato, e braccia e gambe amputate brutalmente. I bimbi avevano i volti ricoperti di sangue, e tentavano disperatamente di addentare la carne dei cadaveri.
L’analisi di oltre 16.000 frammenti di ossa trovati a Truckee Lake indicherebbe che i membri del Donner Party si nutrirono di topi, cani, cervi, conigli, cavalli e bestiame, ma nessuno scheletro umano è stato ritrovato intatto.
“Se le famiglie del Donner Party avessero davvero consumato solo carne e organi interni, come ci si aspetterebbe dal confronto con altri casi di cannibalismo di sopravvivenza, solo i tessuti molli sarebbero stati cotti sul fuoco o bolliti in una pentola” spiega Dixon.
“Stiamo ponendo enfasi sul fatto che le fonti storiche e archeologiche presentano una storia complicata che parla di esseri umani che hanno fatto quanto possibile, incluso mangiare pelle e corde oltre che consumare i loro cani, prima di prendere la decisione disperata di cannibalizzare i cadaveri. Quindi, i resti ossei presenti nel sito indicano la volontà di evitare il cannibalismo…ma non necessariamente l’assenza di questa pratica”.

L’ex capitano di polizia Ray Lewis, arrestato a Zuccotti Park insieme ai manifestanti, è diventato uno dei simboli del movimento Occupy Wall Street

Scritto da: Michele Primi,da New York
Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo/31751/Capitan+America

L’ex capitano di polizia Ray Lewis, arrestato a Zuccotti Park insieme ai manifestanti, è diventato uno dei simboli del movimento Occupy Wall Street

“Zuccotti is dead, the virus has spread”. Qual è il futuro di Occupy Wall Street? I manifestanti che da oltre due mesi protestano contro lo strapotere della finanza e le ingiustizie del sistema americano sono convinti che questo sia solo l’inizio. La protesta ha lasciato il luogo in cui è nata, Zuccotti Park, e si è diffusa come un virus nella società civile.

Come gli ‘indignados’ spagnoli, i sostenitori di OWS si stanno trasformando in una specie di supereroe collettivo, pronto ad apparire all’improvviso dove c’è bisogno. Per esempio davanti alla casa del sindaco Michael Bloomberg, all’angolo tra la 79th street e Fifth Avenue. Domenica scrosa, per tutta la giornata, centinaia di persone armate di tamburi hanno cantato e suonato sotto le sue finestre, con l’intenzione di non far dormire sonni tranquilli al primo cittadino miliardario di New York. La polizia è arrivata alle otto di sera e ha giudicato la manifestazione “inappropriata,” disperdendola rapidamente.

Gli arresti ormai non si contano più. Anzi, considerando le regole secondo cui viene gestito l’ordine pubblico in America (si può venire arrestati per un’infinità di reati, tra cui rifiutarsi di salire sul marciapiede se un poliziotto lo ordina) gli arresti stessi sono diventati una forma di protesta. E proprio da un arresto, il movimento ha trovato il suo eroe.

E’ il capitano della polizia in pensione Ray Lewis, fermato il 17 novembre nei pressi di Zuccotti Park mentre manifestava innalzando un cartello: “Polizia di New York: non diventate i mercenari di Wall Street.” L’immagine di Ray Lewis ammanettato, e vestito in alta uniforme, ha fatto il giro del mondo ed è diventata un simbolo del movimento. “I poliziotti lavorano per l’1 %, e non si rendono nemmeno contro di essere sfruttati” ha detto Ray Lewis, in servizio fino al 2004 presso il Philadelphia Police Department.

Alle due di notte dello stesso giorno, subito dopo il suo rilascio, Ray Lewis è comparso davanti alle telecamere dei canali televisivi indipendenti di OWS e ha cominciato a parlare. Le sue parole sono state tra le più radicali sentite finora. Dopo aver criticato il metodo in cui la polizia ha affrontato la protesta, rifiutandosi di dialogare con i manifestanti, Ray Lewis ha raccontato le ragioni che lo hanno spinto ad andare a Zuccotti Park.

“Ero nella mia sicura e tranquilla casa nella provincia di Philadelphia, e ho visto in televisione la repressione di un movimento che secondo me si batte per la giustizia. Mi è sembrato inaccettabile e sono venuto a New York. Non avevo intenzione di fare alcuna azione di protesta, volevo solo testimoniare con la mia presenza e la mia uniforme che non ero d’accordo con quello che i miei colleghi stavano facendo. Ma quando ho visto gli agenti portare via ragazzi che stavano esercitando pacificamente un loro diritto, ho deciso di farmi arrestare”.
Il capitamo Lewis si è poi rivolto ai giovani di OWS: “Ho avuto una vita felice, ma quando mi sono trovato ammanettato insieme a voi è stato uno dei momenti più belli della mia vita”.

Le autorità e gli stessi media indipendenti sono rimasti spiazzati dalle sue posizioni, che per qualche giorno lo hanno trasformato in un autorevole portavoce del movimento: “Bisogna rifondare da zero l’intero sistema americano: il capitalismo rinforza l’avidità e l’ingiustizia, le multinazionali distruggono l’economia del Paese, i sistemi di controllo su Wall Street, notevolmente ridotti durante la presidenza di George W. Bush sono una farsa. Bisogna fermare il potere della finanza, e se queste persone commettono dei reati devono andare in prigione come tutti gli altri. I broker finanziari giocano a Monopoli sulle spalle dei cittadini, ma non è un gioco per tutte quelle persone povere ed affamate che riempiono le strade delle nostre città”.

Anche le mosse del sindaco Bloomberg sono state giudicate in modo molto duro dal capitano Lewis: “L’uso arbitrario della forza durante gli sgomberi di Zuccotti Park è uno scandalo. Bloomberg ha detto che il parco era sporco e insicuro. Come può preoccuparsi della pulizia quando i suoi cittadini hanno fame e dormono nella metropolitana perché hanno perso la casa? Il sindaco si è comportato in modo arrogante, ignorante e disgustoso”.

Dopo aver detto che tornerà a manifestare in favore di OWS, Ray Lewis ha difeso la categoria dei poliziotti, evitando di accusare direttamente gli agenti che lo hanno ammanettato, ma non ha potuto fare a meno di dare alla NYPD un consiglio da esperto: “Il lavoro di poliziotto deve essere svolto con integrità. Protestare fa parte della libertà di parola, e l’uso della forza è un errore. Anche continuare a proteggere questo sistema è semplicemente sbagliato. Bisogna dare ascolto alle voci che vengono dal basso, e che chiedono dei cambiamenti nella società. E’ questa la forza che porterà avanti il movimento. Io tornerò in piazza, e se vorranno farmi tacere dovranno arrestarmi ancora”.

 

La Fiat 500

Scritto da: Emiliano Boschello
Fonte: http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=275

Piccola, non bellissima, poco rifinita e con un motore fiacco.
Eppure è diventata una vera diva, la compagna di una vita, una vera nave scuola per due o tre generazioni di italiani, l’unica alternativa allo scooter prima e terza o quarta auto di famiglia poi.
C’è chi ne colleziona una decina, chi ne conserva gelosamente l’esemplare del babbo sul quale faceva le gite da bambino, chi la elabora in modo sconsiderato con improbabili spoiler, chi la usa per gimcane caserecce alla fiera del paese e chi, tout court, la usa oggi come vent’anni fa come city car d’eccellenza…
Stiamo parlando di quel piccolo fenomeno siglato Fiat 500… anzi, cerchiamo di mettere i puntini sulle “i”: la Nuova 500. La precedente 500, la prima, venne chiamata “Topolino” e tale rimase, ma non è mai stato il nome ufficiale del modello, bensì un nomignolo affibbiatole dal regime autarchico del Ventennio che preferiva i nomi alle aride cifre .
Quindi Nuova 500: assoluta novità per il 1957 di casa Fiat, l’auto finalmente per tutti gli italiani che non potevano permettersi la 600. Ma pochi sanno del disastroso esordio che ebbe quel modello, pochi sospettano che fu accolta tiepidamente per un po’ di tempo, prima di diventare parte del panorama classico dell’Italia per interi decenni

“Fiat 500: l’auto sempre più per tutti” a lire 490.000 Franco Filiali Italia, 5 ruote gommate e accessori d’uso”: così recita lo slogan pubblicitario che accompagna il lancio della nuova utilitaria nel 1957. Fa sicuramente sorridere quel “5 ruote gommate” generosamente comprese nel prezzo, ma, sinceramente, bisogna dire che non c’era molto di più: agli inizi la minima della casa torinese appare addirittura come una “inspiegabile” regressione rispetto al resto della gamma e di questo problema se ne occupa ampiamente la rivista Quattroruote, che nel numero di Agosto del 1957 esce con un articolo pregno di critiche intitolato “Nessuno torna indietro”.
Ma quali erano le colpe della nostra beniamina?!?
Beh, in pratica, si faceva notare che la gente, abituata alle dimensioni più generose ed alle superiori prestazioni della 600, non avrebbe rivolto la propria attenzione alla neonata bicilindrica, considerandola un passo indietro che pochi avrebbero voluto fare.
Bisogna tenere conto che a quei tempi l’auto era una per famiglia e questa doveva avere spazio per tutto: le più vendute erano la Fiat 600 e la Fiat 1100, particolarmente apprezzate per il rapporto qualità-prezzo e per la versatilità d’uso. La 500 si presentava, invece, come una due posti più due di fortuna, cosa poco consona al ruolo di prima auto di famiglia che sicuramente avrebbe dovuto svolgere… si legge nell’articolo che gli unici clienti sarebbero venuti da chi possedeva una vetusta Topolino o lo scooter, ma il prezzo troppo elevato e troppo vicino a quello della sorella maggiore, sicuramente avrebbe fatto preferire quest’ultima, anche alla luce del fatto che le prime 500 consegnate erano rifinite davvero male.
I primi esemplari presentavano infatti gravi difetti quali ruggine, infiltrazioni d’acqua, lamiere mal accoppiate ed errori di progettazione grossolani quali il deflettore del vetro che ostacola il volante.
Con il senno di poi, bisogna dire che per fortuna, alla Fiat si mossero con rapidità: solo qualche mese più tardi, al Salone di Torino la Nuova 500 viene già ritoccata presentandola ora in due diversi allestimenti: “Normale” ed “Economica” entrambe con motore potenziato (da 13 a 15cv).
La “Normale”, oltre all’aggiunta di profili e cromature; presenta numerose migliorie atte a sopperire alle evidenti magagne della precedente versione, che comunque rimane in listino con il nome di “Economica” con il prezzo opportunamente riposizionato in basso di 25.000 lire. Cifra che fu rimborsata a chi aveva già acquistato uno dei primi esemplari.
Questa fortunata contromossa fece sì che la Nuova 500 diventasse più appetibile, dato che ora costava 175 mila lire in meno della 600: il resto lo fece il boom economico degli anni sessanta che diede alla piccola vettura il suo habitat naturale come seconda macchina di famiglia per le mogli dei “cumenda” (che avevano già in garage la Flaminia) oppure come soluzione ideale per gli squattrinati stufi di prendere acqua con lo scooter: che potevano fare il gran salto di qualità grazie alla magia delle rate, il modo di acquistare che in questo periodo fa la parte del leone per motorizzare l’Italia.
Quindi, pace fatta tra la 500 e gli italiani?
Beh, quasi… alla piccoletta manca ancora un po’ di pepe!
Le “nuove” versioni 1957 corrette, dotate di un bicilindrico raffreddato ad aria di 479cc per 15cv che consentono 85 chilometri all’ora; non danno risultati entusiasmanti neanche per il periodo, ma a questo pone rimedio, nel 1958, la Nuova 500 Sport, una versione più performante disponibile nei gusti berlina e berlina trasformabile, il cui motore da 499,5 cc per 21,5 cavalli garantisce prestazioni più dignitose.
Ma, ovviamente, per qualcuno ancora non basta: attorno alla 500, oltre alla consueta selva di carrozzieri e accessoristi; fiorisce anche una florida generazione di preparatori. Impossibile non ricordare qui le mitiche elaborazioni di Carlo Abarth o di Giannini, i quali, partendo dalle marmitte, arrivarono a stravolgere il concetto utilitario della vettura estrapolando da essa vere e proprie belve da pista. E` chiaro che non si può liquidare questo importante paragrafo della storia con due parole e in un futuro di sicuro tratteremo meglio l’ampio orizzonte delle derivate; ma per il momento parleremo delle versioni di serie, le quali, nella successiva evoluzione, adottarono il motore della Sport anche nelle versioni normali.
Infatti, nel 1960, lo stesso 499,5cc depotenziato però a circa 17 cavalli, equipaggia la nuova 500 D, una versione nella quale le finiture e le prestazioni fanno un piccolo ulteriore passo avanti contribuendo non poco alla diffusione del modello, ora anche esteticamente più gradevole grazie alle leggere ma indovinate modifiche introdotte. Nello stesso anno, viene introdotta anche la versione 500 Giardiniera (successivamente commercializzata come Autobianchi); che monta un motore a sogliola sempre da 499,5cc posto al retrotreno sotto al piano di carico.
Passano così alcuni anni senza modifiche di rilievo.
Nel 1965 è la volta dell’esordio della 500 F, la quale principale caratteristica è quella di avere le portiere finalmente controventate, cosa che finalmente garantisce discese aggraziate alle guidatrici in gonna corta: prima, colpevole anche la ridotta altezza da terra, si esponevano agli sguardi “ammirati” dei vitelloni di turno. Oltre a questo, solo modifiche di dettaglio ad una vettura ormai sicuramente vincente, le cui posizioni ai vertici delle vendite verranno confermate dal modello 500 Lusso presentato nel 1968, nel quale si nota una maggiore cura nei dettagli della finitura e l’introduzione di un tubo di acciaio cromato di rinforzo ai paraurti come elemento distintivo esterno.

E finalmente arrivano gli anni settanta!
Della piccola torinese si torna a parlare nel 1972, in occasione della presentazione della 126, nuova minima bicilindrica destinata a raccoglierne il testimone. Debutta infatti l’ultima versione della 500, la R, dotata del medesimo 594cc (depotenziato a 18cv) della nuova sorellina.
Le due vetture convivono fino al 1975, anno nel quale, dopo circa 3.678.000 esemplari (fonte web), il mito 500 abbandona le linee di produzione. Ma di sicuro non abbandona il cuore degli italiani!
Da qui in poi, la 500 vive di … rendita!
Negli anni settanta oserei dire che è protagonista assoluta delle strade italiane, quasi quanto nel decennio precedente. Con un ruolo diverso! Ora, come detto, la 500 si gode la pensione come seconda o terza macchina di famiglia, non di rado preda di aggressivi neopatentati contestatori che ne spremono fino in fondo ogni prestazione possibile.
Successivamente, negli anni 80, la 500 diviene ambita anche all’estero, specie in Giappone e la ritroviamo addirittura in cima alle preferenze nelle classifiche dei modelli più rubati, segno che il modello è una specie di fenomeno immortale delle nostre strade.
Negli anni 90 viene addirittura proposta una replica prodotta dalla Giannini, la 590 GT Replica; mentre, nel nuovo millennio, periodo di grande nostalgia per le linee retrò, non si contano più le proposte per rimetterla in produzione con carrozzeria più o meno modificata, segno che nessuno dimentica quella scatoletta di latta che ha rischiato all’inizio di essere quasi un fiasco.
E faccio notare come, ancora oggi, ovunque ci si giri, se ne vede ancora una, dopo quasi 30 anni dall’uscita di produzione! Questo per diversi motivi… chi ha una 500 difficilmente la rivende, ma la tiene perché costa poco e può sempre servire… e chi l’ ha avuta negli anni settanta e poi l’ ha venduta; molto spesso la cerca ancora, la desidera e fa di tutto per mettersi in garage un esemplare di questa indistruttibile icona a testimonianza di un periodo d’oro del motorismo italiano.
E della propria gioventù.

Le 500 di serie

1957 … Nuova 500
1957-1960 … Nuova 500 Economica
1957-1960 … Nuova 500 Normale
1958-1960 … Nuova 500 Sport
1958-1960 … Nuova 500 Sport trasformabile
1960-1965 … 500 D
1960-1966 … Giardiniera 500
1965-1972 … 500 F
1968-1972 … 500 Lusso
1972-1975 … 500 R

Traffico degli organi

Fonte: http://www.laogai.it/?page_id=14108

Se incutere paura al popolo è il primo scopo delle esecuzioni, il secondo è l’espianto di organi freschi a scopo di vendita, spesso senza il consenso delle vittime o dei parenti. Migliaia di fegati, reni e cornee cinesi sono immessi nel mercato internazionale del traffico di organi, anche via internet. Secondo le organizzazioni umanitarie internazionali, il 95% viene dai corpi dei condannati a morte. Il governo cinese ha sempre negato queste accuse. Solo nel novembre del 2006 un altissimo funzionario del Ministero per la Salute, Huang Jefu, ha riconosciuto, durante una conferenza di chirurghi a Guangzhou, che “ a parte un piccolo numero di vittime di incidenti di traffico, la gran parte di organi espiantati viene da prigionieri uccisi “

Proprio per questo la Cina è accusata dell’enorme traffico di organi

Ma c’è anche un mondo in cui per tanti giovani l’unica via di fuga dalla miseria sembra quella di vendere una parte del proprio corpo. ogni tanto se ne parla, ma vederla in un reportage tutto italiano è decisamente uno shock. Il dvd è intitolato “Pezzi di ricambio” ed è edito dalla Feltrinelli

Gli organi vengono espiantati subito dopo l’esecuzione e trasportati in apposite ambulanze. Vi sono oggi almeno 600 ospedali specializzati in questo traffico ed i relativi profitti sono altissimi, se si considera il prezzo di vendita degli organi che spesso arriva a decine di migliaia di dollari.

Il traffico degli organi umani è una realtà perfino in Europa, nonostante l’esistenza di norme legali e misure di controllo considerate efficaci.

Recentemente il governo cinese ha approvato alcune leggi atte a regolarizzare il “mercato nero” degli organi umani. Secondo queste normative, la precedenza nella distribuzione degli organi andrebbe ai cittadini cinesi, i chirurghi cinesi non potrebbero viaggiare all’estero per effettuare espianti e, soprattutto, il  consenso del prigioniero per la donazione dei propri organi dopo la morte dovrebbe essere obbligatorio. Tuttavia, come denuncia Human Rights Watch in un reportage della CNN dell’11 febbraio 2007, “…parliamo di condannati a morte che possono essere soggetti a qualunque pressione, e quindi il loro non può essere un gesto volontario”. Soprattutto in Cina dove, spesso, le confessioni sono ottenute mediante la tortura.

Addirittura la Galleria St Louis sta preparando un’esibizione di cadaveri plastinati dei condannati a morte cinesi (dal 2.10.2010 al 31.1.2011). Pratica denunciata nel Congresso USA.

Ricordiamo inoltre che la cultura tradizionale cinese è contraria a qualunque manomissione del corpo, e quindi all’espianto, perché la salma del defunto deve essere  integra e intatta, per il rispetto dovuto  agli antenati.
Ancora più spietata appare perciò la persecuzione contro i Falun Gong o Falun Dafa. E’ questo un movimento religioso non violento, basato sulla tolleranza, la ricerca della verità e la compassione. Riunisce aspetti del Confucianesimo, del Buddhismo e del Taoismo, e insegna metodi di meditazione attuati attraverso esercizi ginnici, che hanno lo scopo di migliorare il benessere fisico e spirituale dei praticanti, preservandone la salute. Alla fine degli anni Novanta in Cina vi erano quasi 100 milioni di praticanti del Falung Gong, inclusi numerosi gerarchi del partito. Il Partito Comunista, però, non poteva accettare il fatto che, dopo 40 anni di martellante indottrinamento marxista, ancora tante persone ricercassero altrove una guida morale e spirituale. Jang Zemin, perciò, iniziò dal 20 luglio del 1999 una persecuzione efferata contro i praticanti del Falun Gong. Da allora i Falung Gong vengono arrestati, imprigionati nei campi di lavoro forzato, i laogai,  uccisi, e i loro organi espiantati e venduti sul mercato internazionale degli organi.  Successivamente spesso i loro corpi vengono cremati per cancellare la prova del crimine commesso. Dal 1999 il movimento denuncia le migliaia di esecuzioni capitali ed espianti di organi alla comunità internazionale. David Kilgour, ex membro del Parlamento Canadese ed ex segretario di stato dello stesso governo canadese, con David Matas, avvocato, ha pubblicato nel luglio del 2006 un rapporto sulla “Conferma di espianti di organi a praticanti del Falun Gong”. Questo rapporto è stato rivisto ed aggiornato nel gennaio 2007.  Nel documento si elencano le prove degli arresti di massa, delle repressioni, delle uccisioni, si documentano le salme private di organi e i corpi cremati dopo l’esecuzione, si intervistano le vittime e si forniscono i prezzi di vendita degli stessi organi. Poiché, ricordiamolo, nella Cina capital-marxista oggi il nuovo Dio è il Denaro. Gli autori concludono il rapporto confermando che, sulla base della loro investigazione, le accuse sono vere e il governo cinese dal 1999 ha fatto uccidere innumerevoli praticanti del Falun Gong, facendo espiantare, contro la volontà dei proprietari, i loro organi vitali, inclusi il cuore, i reni, il fegato e le cornee, per poi metterli in vendita ad alti prezzi sul mercato degli organi. Tale pratica satanica continua tuttora.

Le esecuzioni capitali, con la relativa vendita degli organi, sono uno dei principali fenomeni che derivano dal mancato rispetto dei diritti umani in Cina. Evidenziano la precarietà e la corruzione del sistema giudiziario cinese e la mancanza di garanzie per chi è arrestato; mettono in luce la violazione dei principi etici e morali insita nell’’espianto degli organi senza il consenso del condannato. Il 17 aprile 2006 ventotto membri del Congresso Statunitense hanno scritto una lettera al Presidente Cinese Hu Jintao per denunciare questa pratica orrenda e chiederne la cessazione. Lo stesso Congresso USA ha dedicato un’audizione del Comitato per le Relazioni Internazionali a questo argomento il 29 settembre 2006. Alla seduta hanno partecipato come testimoni anche  Harry Wu, Presidente della Laogai Research Foundation di Washington, Thomas Diflo, sanitario del Centro Medico dell’Università di New York, e Wang Guoqi, ex medico di un ospedale militare cinese.

La ricerca del profitto a tutti i costi conduce anche a pratiche mediche molto rischiose. Infatti l’agenzia di stampa AFP informa, in un comunicato del 14 marzo 2006, che il Ministro della Salute giapponese ha ordinato un’inchiesta sulla fornitura di organi a pazienti giapponesi, dopo che almeno sette di questi sono morti in seguito a trapianti effettuati in Cina.

Il traffico forzato di organi ottenuti senza l’assenso dei donatori ha provocato la pubblica riprovazione e la condanna di numerose organizzazioni mediche. Il prof. Francis Demonico, della Canadian Transplantation Society, si è opposto recisamente all’uso di organi dei condannati a morte per gli espianti poiché “la crescente richiesta di organi sembra causare una crescente domanda di esecuzioni capitali”. Anche il prof. Stephen Wigmore,  della British Transplantation Society, durante un’intervista con la BBC nell’aprile del 2006, ha affermato: “…una montagna di  testimonianze e prove suggerisce che gli organi dei condannati a morte sono espiantati senza il loro consenso; la velocità con cui si possono trovare gli organi adatti ai pazienti sembra anche confermare che i prigionieri sono selezionati prima dell’esecuzione a seconda del  tipo di sangue e di organo da trapiantare”. Attualmente due ospedali del Queensland in Australia hanno deciso di cessare l’addestramento di chirurghi cinesi per non favorire questo macabro traffico a scopo di profitto.

La CBS, stazione televisiva americana, ha denunciato nell’aprile del 2007 la tragedia di  Meng Zhaoping, contadina cinese,  il cui figlio venne ucciso nel gennaio del 2005 senza che le fosse possibile rivederlo né prima né dopo l’esecuzione. Meng Zhaoping si è recata numerose volte sia al tribunale provinciale che a Pechino per chiedere informazioni sull’uccisione del figlio e sul luogo della sepoltura.  Dopo due anni di tentativi falliti e di silenzio delle autorità, Meng Zhaoping ha dedotto  che gli organi del figlio devono essere stati espiantati. Ha confermato  inoltre che nel suo testamento questi non menzionava la donazione degli organi. “Tutto quello che volevo era vederlo un’ultima volta. Era mio figlio, perché non mi hanno permesso di dirgli una sola parola?” conclude Meng  Zhaoping.

Questo è il vero volto della Cina che nessuna iniziativa diplomatica, interesse economico-finanziario  e/o di circostanza, può riuscire a nascondere.  Eppure l’occidente ha detto “sì” alle Olimpiadi di Pechino, profanando l’antica celebrazione dei giochi in onore di Zeus Olimpio, che interrompevano la guerra e, attraverso i secoli, sono giunti fino a noi,  reinterpretati come simbolo di pace, giustizia, solidarietà, amicizia tra i popoli, oltre che di impegno nell’educazione del proprio corpo allo sport e alla vittoria.

La stampa internazionale, Amnesty International, Human Rights Watch, la Laogai Research Foundation e numerosi politici e deputati di vari paesi non si stancano di condannare le esecuzioni capitali e la vendita degli organi dei condannati a morte.

Oltre al Congresso USA, i giornali e le riviste menzionati in questo capitolo, anche la Commissione Europea ha espresso dubbi sulle recenti regole introdotte dal governo cinese sull’espianto degli organi, poiché non tengono conto dell’assenso del donatore, soprattutto nel caso di persone morte in carcere o giustiziate. Il Parlamento Irlandese, un senatore belga, che ha condotto un’ inchiesta a carattere personale fingendosi in cerca di un rene, e numerosi parlamentari e membri del governo australiano confermano la loro condanna per questo traffico raccapricciante, che utilizza il corpo umano come fonte di alti profitti per i membri del governo, le autorità e gli ospedali  cinesi. Una direttiva europea contro sulle donazioni di organi dovrebbe essere adottata entro giugno 2010 dall’Europarlamento, consentendo all’Europa di avviarsi sulla strada di una migliore regolamentazione in questo campo.

La Cina ha tentato di contrastare la notizia degli organi prelevati senza consenso ai morituri, che ha fatto il giro del mondo. Ha prodotto un film di propaganda intitolato “Voci dal buio”. Nella pellicola, girata in un’oscura prigione, dove i detenuti attendono la conferma o la proroga dell’esecuzione, una bella giovane nell’ultima lettera ai suoi parenti detta allo scrivano ufficiale una frase. “Ho agito male nella mia vita, ma riparo donando ora gli organi perchè la parte più utile di me sopravviva e sia di vantaggio agli altri”. Il film, di cui non possiamo riportare nè il nome del regista nè quello del produttore, è stato proiettato un solo giorno, il 4 settembre 2008, al cinema Nuovo Sacher di Roma. Il pubblico era perplesso ed ha accolto con interesse l’opinione della Laogai Foundation al riguardo.

La scoperta dell’espianto di organi, in funzione punitiva e ai danni di una comunista colpevole, è narrata nel romanzo di Yiyun Li “I girovaghi” (titolo originale The vagants), Einaudi, Torino 2010.

Evidentemente la verità si fa strada e scavalca il segreto di stato.

Per un aggiornamento sulla situazione attuale in Cina leggi l’articolo Il silenzio sulle libertà fondamentali in Cina

Per saperne di più, acquista il nostro libro: Cina, Traffici di morte


Il Teatro Olimpico

Scritto da: Ottavio Cabiati
Fonte: http://www.teatrolimpicovicenza.it/it/il-teatro/presentazione.html

Il Teatro Olimpico è una delle meraviglie artistiche di Vicenza. Si trova all’interno del cosiddetto Palazzo del Territorio, che prospetta su piazza Matteotti, all’estremità orientale di corso Palladio, principale direttrice del centro storico. Nel Rinascimento infatti un teatro non è un edificio a se stante – come diventerà di prassi in seguito – ma consiste nell’allestimento temporaneo di spazi all’aperto o di volumi preesistenti; nel caso di Vicenza, cortili di palazzo o il salone del Palazzo della Ragione.
Nel 1580 il Palladio ha 72 anni quando riceve l’incarico dall’Accademia Olimpica, il consesso culturale di cui egli stesso fa parte, di approntare una sede teatrale stabile. Il progetto si ispira dichiaratamente ai teatri romani descritti da Vitruvio: una cavea gradinata ellittica, cinta da un colonnato, con statue sul fregio, fronteggiante un palcoscenico rettangolare e un maestoso proscenio su due ordini architettonici, aperto da tre arcate e ritmato da semicolonne, all’interno delle quali si trovano edicole e nicchie con statue e riquadri con bassorilievi.
La critica definisce l’opera ‘manierista’ per l’intenso chiaroscuro, accentuato tra l’altro da una serie di espedienti ottici dettati dalla grande esperienza dell’architetto: Il progressivo arretramento delle fronti con l’altezza, compensato visivamente dalle statue sporgenti; il gioco di aggetti e nicchie che aumentano l’illusione di profondità. Il Palladio appronta il disegno pochi mesi prima della sua morte e non lo vedrà realizzato; sarà il figlio Silla a curarne l’esecuzione consegnando il teatro alla città nel 1583.

La prima rappresentazione, in occasione del Carnevale del 1585, è memorabile: la scelta ricade su una tragedia greca, l’Edipo Re di Sofocle, e la scenografia riproduce le sette vie di Tebe che si intravedono nelle cinque aperture del proscenio con un raffinato gioco prospettico. L’artefice di questa piccola meraviglia nella meraviglia è Vincenzo Scamozzi, erede spirituale del Palladio. L’effetto è così ben riuscito che queste sovrastrutture lignee diventeranno parte integrante stabile del teatro. Sempre allo Scamozzi viene affidata anche la realizzazione degli ambienti accessori: l’Odeo, ovvero la sala dove avevano luogo le riunioni dell’Accademia, e l’Antiodeo, decorati nel Seicento con riquadri monocromi del valente pittore vicentino Francesco Maffei.

La fama del nuovo teatro si sparge prima a Venezia e poi in tutta Italia suscitando l’ammirazione di quanti vi vedevano materializzato il sogno umanistico di far rivivere l’arte classica. Poi, nonostante un avvio così esaltante, l’attività dell’Olimpico venne interrotta dalla censura antiteatrale imposta dalla Controriforma e il teatro si riduce a semplice luogo di rappresentanza: vi viene accolto papa Pio VI nel 1782, l’imperatore Francesco I d’Austria nel 1816 e il suo erede Ferdinando I nel 1838. Con la metà dell’Ottocento riprendono saltuariamente le rappresentazioni classiche, ma si dovrà attendere l’ultimo dopoguerra, scampato il pericolo dei bombardamenti aerei, per tornare seriamente a fare spettacolo in un teatro che non ha uguali al mondo.

COSA SONO I LAOGAI?

Fonte: http://www.laogai.it/?page_id=36

I campi di concentramento del terzo millennio

I Laogai sono i campi di concentramento in Cina istituiti da Mao Zedong nel 1950 seguendo l’esempio  dell’URSS dove erano in piena funzione i Gulag. Furono degli esperti sovietici ad aiutare Mao Zedong ad organizzare i Laogai in Cina. Mentre i LAGER nazisti furono chiusi nel 1945 ed i GU-LAG sovietici sono in disuso dagli anni ’90, i LAOGAI cinesi sono tuttora operanti, oggi, nel terzo millennio.

Nei Laogai, piu’ di mille oggi in Cina, milioni di persone, uomini, donne e bambini sono attualmente
costretti al lavoro forzato in condizioni disumane a vantaggio economico del Governo Cinese e di
numerose multinazionali che producono o investono in Cina.

I LAOGAI sono tuttora strettamente  funzionali allo stato totalitario cinese per un doppio scopo:

a.
perpetuare la macchina dell’intimidazione e del terrore, con il lavaggio del cervello per gli oppositori politici;

b. fornire un’inesauribile forza lavoro a costo zero.