€uro & UE: alto rischio di disintegrazione

Fonte: http://www.net1news.org/%E2%82%ACuro-ue-alto-rischio-di-disintegrazione.html

Uno dei maggiori esperti in materia di integrazione latino-americana, ha rinnovato i timori per l’Europa. “Il rischio della dissoluzione dell’euro e dell’Unione Europea esiste. Non si tratta di un’ipotesi fantasiosa”, questo è il parere dell’ex presidente della Banca Interamericana di Sviluppo, Enrique Iglesias.

Durante una conferenza in Uruguay, uno dei massimi esperti in materia finanziaria, ha definito come “rara e molto profonda” la crisi che ha “crocifisso” l’Europa. A suo parere, “nessuno conosce” in Europa la “via d’uscita, non c’è una consapevolezza chiara né di quando, né di come”. Allo stesso tempo, “sembra essere accordo sul fatto che la strada è una nuova economia guidata dalla tecnologia e dalla scienza”. La crisi attuale non dovrebbe essere definita come globale, perché “l’economia mondiale cresce del 3,5% l’anno”. Il problema è che l‘Unione Europea “in quanto tale, non funziona“, “non esiste il mercato finanziario europeo”, e quindi paesi come la Francia, l’Italia o il Portogallo “non trovano finanziamenti”. Il risanamento dei conti pubblici intrapreso dalla Spagna, è qualificato da Iglesias come il più violento che conosce. Ciò nonostante “si continua a correre dietro i problemi senza risolverli“, perchè vige un’assenza di stabilità finanziaria. Dal momento che il tema della conferenza era: “la realtà economica e sociale del mondo di oggi”, l’oratore ha parlato anche della situazione in America Latina. A suo avviso, la regione sta subendo un’evoluzione spettacolare “con il Brasile in testa”. L’economia dell’America Latina si “gestisce meglio” rispetto agli anni passati ed ha ricevuto una spinta dei prezzi internazionali delle materie prime che, ha avvertito, “continuerà a crescere.”

Bevande “diet”: in dieci anni raddoppia il consumo da parte dei bambini statunitensi. Sconosciuti però i rischi

Fonte: http://www.ilfattoalimentare.it/bambini-dolcificanti-vos.html
Scritto da: Agnese Codignola

Rispetto a una decina di anni fa, i bambini statunitensi bevono il doppio di bevande diet(quelle con edulcoranti e ipocaloriche), e la cosa inizia a destare preoccupazione. Non si sa infatti se un’assunzione massiccia di alcune delle sostanze impiegate come dolcificanti possa avere effetti sulla salute di un organismo in crescita e, in caso sia così, di che tipo esse possano essere. I dati sugli animali hanno spesso mostrato effetti negativi tra i quali aumento di peso e diabete. Per quanto riguarda gli uomini, i risultati sono sempre stati controversi, mentre in particolare sui bambini non esistono studi specifici.

Per questo, e soprattutto prima che a qualcuno venga in mente di raccomandare bevande diet a tutti i piccoli obesi, sarebbe meglio quantomeno avviare studi di lunga durata che possano fornire indicazioni certe, e analizzare i dati già presenti in letteratura. Questa la raccomandazione di Miriam Vos, nutrizionista della Emory University di Atlanta e autrice di uno studio appena pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutriton.

La Vos e i suoi collaboratori hanno verificato i dati contenuti in un sondaggio federale che viene effettuato con cadenze regolari, e durante il quale viene chiesto ai partecipanti di riferire nel dettaglio che cosa hanno consumato nelle 24 ore precedenti. Anche se la rilevazione su un solo giorno costituisce un indubbio limite, poiché non permette di monitorare le abitudini e di definire effetti eventuali di consumi regolari, può lo stesso essere utile per evidenziare una tendenza, soprattutto quando – come in questo caso – il raffronto viene fatto sullo stesso set di dati relativo, però, a una decina di anni fa.

 All’appello hanno risposto oltre 42.000 persone di tutte le età, e grazie alle loro indicazioni si è visto che il consumo di bevande diet tra i bambini è passato da poco più del 6% di dieci anni fa all’attuale 12,5%, mentre tra gli adulti è salito dal 19 a circa il 25%.

  Se il dato relativo agli adulti era atteso, quello dei bambini ha destato sorpresa, perché non esistono raccomandazioni specifiche e – come ha sottolineato la Vos – nessuno ha mai dimostrato che questo tipo di bibite possa effettivamente aiutare a perdere peso.

Al contrario, vi sono ormai non poche indicazioni del fatto che un uso eccessivo di dolcificanti sia collegato a un aumento di peso, allo sviluppo della resistenza all’insulina (prima tappa verso il diabete), a malattie cardiovascolari e ictus, e vi sono dubbi specifici su alcuni tra i dolcificanti più usati, compresa la stevia, che in questo momento sta avendo una grande popolarità.

«È necessario – commenta ancora la Vos – che vengano avviati studi che seguano i bambini e i ragazzi che consumano i dolcificanti durante la crescita, per rilevare gli eventuali effetti di queste sostanze. Nel frattempo, il consiglio è sempre lo stesso: il modo migliore per aiutare i bambini a perdere peso non è quello di mantenere le loro abitudini sostituendo le bevande zuccherate con quelle dolcificate. L’unico strumento efficace è educare i bambini ad accompagnare pasti e spuntini con acqua o latte, che fornisce loro sali e proteine di cui hanno bisogno nella crescita, e assegnare alle bevande gassate e zuccherate un ruolo del tutto marginale e occasionale».

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Manipolare il clima: ecco la super-bomba del futuro

Fonte: http://www.libreidee.org/2012/08/manipolare-il-clima-ecco-la-super-bomba-del-futuro/

Estati torride di terra secca e assetata, primavere scosse da nubifragi e alluvioni. Che il clima stia cambiando sotto ai nostri occhi è ormai accettato da tutti. E’ solo frutto del nostro stile di vita o dipende anche da altri fattori, che non siamo in grado di controllare? Ovvero: quanto influiscono sul meteo i sempre più numerosi esperimenti di manipolazione climatica? E a che scopo vengono effettuati? Per combattere il surriscaldamento globale oppure per accelerarlo? L’allarme è rilanciato dagli ambientalisti, concentrati sulla riduzione delle emissioni nocive, ma anche dai “complottisti”, convinti dell’esistenza di un vero e proprio “crimine climatico”, una manipolazione planetaria per colpire a comando la popolazione e l’economia di svariate aree del pianeta: molti esperimenti studiano come modificare artificiosamente il clima, causare pioggia o siccità, innescare tornado e nubifragi. Tempo fa, racconta Andrea Degl’Innocenti sul “Cambiamento”, è stato lo stesso “Guardian” a pubblicare una mappa mondiale della geoingegneria prodotta dall’Etc Group, un’organizzazione internazionale che si batte per la sostenibilità e i diritti umani. Geoingegneria: tecniche artificiali di intervento umano sull’ambiente fisico, dall’atmosfera agli oceani, dalle acque alle rocce. Sempre il quotidiano inglese mostra anche un elenco di istituzioni, enti e multinazionali coinvolte negli esperimenti sul clima. Secondo il dossier, i primi test risalgono addirittura agli anni ’40, quando la United Fruit Company, oggi Chiquita, tentò di condizionare il clima dell’Honduras. In tutto 115 pagine piene di dati certificati, che attestano un proliferare di esperimenti su come modificare il clima terrestre, per vari scopi. I più frequenti sono quelli riguardanti l’aumento o la diminuzione delle piogge; solo l’Italiane conta ben 7, dagli anni Settanta fino ai giorni nostri. Gli ultimi sono quelli del progetto “Climagri”, con test per la riduzione della pioggia.

«Il documento – scrive “Il Cambiamento” – dimostra in maniera inequivocabile che sono in corso, da ormai più di sessant’anni, studi ed esperimenti su come manipolare il clima terrestre, condotti dai governi di tutto il mondo con il contributo di imprese private, istituti, multinazionali». Ma fin dove si può spingere la manipolazione climatica, e per quali obiettivi? Qui non ci sono ancora certezze vere e proprie, ammette Degl’Innocenti, per una serie di motivi: «Mancanza di documentazioni, reticenza da parte dei media e della classe politica ad affrontare apertamente queste tematiche, oscurantismo e tentativi di nascondere i veri scopi delle operazioni in questione». Restano solo le ipotesi, suffragate dalle più disparate teorie. Per la scienza ufficiale, la capacità umana di influire sul clima è minima. Esperimenti a porte chiuse, protetti dai servizi di intelligence? «Alcuni dati – sostiene “Il Cambiamento” – sembrano dimostrare che la capacità di manipolazione climatica va molto oltre la posizione ufficiale della comunità scientifica».

Un recente articolo del “Daily Mail” svela il lavoro di un’équipe di scienziati assoldati segretamente dal presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan. Missione compiuta: quei ricercatori sono stati in grado di generare 50 potenti temporali ad Abu Dhabi. Poi la Cina: già nel 2007, il governo di Pechino ha annunciato di aver provocato la prima nevicata artificiale sulla città di Nagqu. Inoltre, «è dimostrato che si possono generare artificialmente tornado anche di grandi dimensioni, di cui si sta persino provando a trarre energia pulita». Spettacolari le dimostrazioni di un pioniere italiano, il professor Pierluigi Ighina, esibitosi anche davanti alle (esterrefatte) telecamere di “Report”: già allievo di Guglielmo Marconi, Ighina mostrava come addensare o disperdere le nuvole tramite uno strumento da lui realizzato, un’elica coperta di polvere di alluminio che – a seconda del senso di rotazione – si caricava positivamente o negativamente, con effetti opposti sulle nubi: le poteva attirarle fino scatenare un temporale o, al contrario, disperderle al punto da far tornare il sereno.

Ighina, le cui teorie non sono mai state riconosciute dalla comunità scientifica, sosteneva anche di aver inventato un macchinario capace evitare i terremoti: una sorta di grande valvola attraverso la quale trova sfogo l’energia racchiusa nel sottosuolo. «In fatto di condizionamento atmosferico – continua “Il Cambiamento” – Ighina non è certo l’unico esempio di scienziato fuori dal coro: ancor prima di lui furono in molti a studiare i comportamenti dell’energia e della sua trasmissione». Nikola Tesla, nell’ultimo periodo della sua vita, stava lavorando ad un metodo di trasmissione dell’energia senza fili detto “teleforce”, ribattezzato dai media statunitensi “raggio della pace” o “raggio della morte” per via delle sue potenzialità distruttrici. Scomparso Tesla, molti dei suoi documenti furono sequestrati dalle autorità governative statunitensi e bollate come “top secret”.

Riprendendo gli studi di Tesla, negli anni Ottanta il fisico texano Bernard Eastlund, del Mit di Boston, registrò una serie di brevetti, di cui il primo chiamato “Metodo ed attrezzatura per modificare una regione dell’atmosfera, magnetosfera e ionosfera terrestre”. Anche i suoi brevetti furono “secretati” e infine utilizzati per lo sviluppo del progetto Haarp, “High Frequency Active Auroral Research Program”. Scopo dichiarato di Haarp: studiare l’effetto delle onde elettromagnetiche sulle comunicazioni. Molti però i sospetti: Haarp potrebbe servire per testare interventi di manipolazione climatica. Non lo affermano solo i “complottisti” ma anche la Duma, il Parlamento russo: «Sotto il programma Haarp, gli Stati Uniti stanno creando nuove armi geofisiche integrali, che possono influenzare gli elementi naturali con onde radio ad alta frequenza». Secondo Mosca, «il significato di questo salto è comparabile al passaggio dall’arma bianca alle armi da fuoco, o dalle armi convenzionali a quelle nucleari».

E’ verosimile che lo sviluppo della tecnica sia giunto al punto di poter condizionare in maniera sensibile il clima, fino a poter provocare catastrofi a comando? Le notizie ufficiali restano frammentarie. Nel gennaio 2002, Roma e Washington firmarono un accordo chiamato “Cooperazione Italia-Usa su scienza e tecnologia dei cambiamenti climatici”. Obiettivo dichiarato: sviluppare tecnologie per le energie rinnovabili. Ma già all’interno del rapporto, rileva Andrea Degli’Innocenti, si leggeva che fra gli scopi vi era la “esecuzione di attività di ricerca eco-fisiologica su diversi siti sperimentali italiani dove vengono modificate artificialmente le condizioni ambientali a cui è esposta la vegetazione”. Tra gli obiettivi della cooperazione italo-americana, anche la “progettazione di tecnologie per la manipolazione delle condizioni ambientali con particolare riferimento al controllo della temperatura e della concentrazione atmosferica di CO2”. Più di recente, due ingegneri dell’università di Harvard hanno annunciato l’intenzione di immettere solfati nell’atmosfera attraverso palloni aerostatici: una sorta di spray, che sarebbe in grado di riflettere parte dei raggi solari, diminuendo così la temperatura del pianeta. «L’esperimento si svolgerebbe per adesso soltanto su aree ristrette, ma i due non negano l’ipotesi di un futuro uso più esteso del metodo», precisa “Il Cambiamento”. D’altronde c’è chi sostiene che sostanze in grado di modificare il clima vengano già comunemente immesse nell’atmosfera: «Secondo una teoria molto diffusa in rete, miliardi di nanoparticelle verrebbero quotidianamente diffuse attraverso le cosiddette “scie chimiche”, scie di pulviscoli bianche e persistenti rilasciate in cielo da aerei non segnalati». Una recente scoperta, proveniente ancora da Harvard, sembrerebbe confermare alcune intuizioni dei teorici delle “chemtrails”.

Secondo il “Daily Mail”, l’atmosfera sarebbe cosparsa in quantità diversa di «particelle atmosferiche della dimensione di una frazione di capello umano», che «potrebbero influire sul cambiamento climatico». E da dove provengono, queste particelle? Gas di scarico delle auto? Inceneritori? «Non si può escludere l’eventualità che siano state rilasciate appositamente nell’atmosfera per manipolare artificialmente il clima». A quale scopo? Fondazioni, multinazionali e governi che investono nella ricerca sulla manipolazione del clima sostengono che l’obiettivo è uno solo: combattere il surriscaldamento globale e studiare i possibili scenari futuri. Ma i test militari sono ormai storia: con l’Operazione Popeye, durante la guerra del Vietnam, è noto che gli Usa tentarono di prolungare la stagione monsonica sul Laos caricando le nuvole di ioduro d’argento.

Mettere le mani sul clima, conclude “Il Cambiamento”, è di per sé un gioco rischioso e dalle conseguenze imprevedibili. Secondo un team internazionale di scienziati coordinato dalla European Geosciences Union, «una soluzione geoingegneristica ai cambiamenti climatici potrebbe causare una notevole riduzione delle piogge e avere effetti indesiderati per la Terra ed il genere umano». Esperimenti per nuove armi invisibili e sogni di dominio? O anche, più semplicemente, una cinica motivazione economica.

Lo spiega Naomi Klein nel suo “Shock Economy”: le multinazionali più potenti del pianeta traggono enormi profitti dai cataclismi e dal surriscaldamento globale. «I futuri disastri – scrive la giornalista canadese – non avranno bisogno di cospirazioni segrete». Secondo la Klein, tutto lascia pensare che i disastri continueranno a succedersi con intensità sempre più feroce. «La generazione dei disastri, dunque, può essere lasciata alla mano invisibile del mercato: questa è un’area in cui il mercato funziona davvero».

Aumentare la qualità degli acquisti e diminuire gli sprechi: la riscoperta dell’economia domestica

Scritto da: Nicoletta
Fonte: http://www.soloecologia.it

  In un interessante articoletto comparso su La Stampanei giorni in cui la maggior parte degli italiani era in ferie e dai telegiornali arrivavano notizie assai poco rassicuranti sulla siccità che sta colpendo gran parte dell’emisfero nord, Andrea Segrè, il docente di Politica agraria presso l’università di Bologna, dei cui libri siamo soliti raccomandare la lettura individua nelle liste della spesa “bloccate” e nella preferenza per la qualità e la filiera corta le uniche armi a disposizione del consumatore.

I costi delle materie prime sono solo destinati a crescere, ma il nostro modo di fare la spesa può diventare un vero e proprio atto dalle conseguenze economiche e politiche. Se non si è già iniziato a farlo, dare la preferenza alla filiera corta, ovvero quel sistema di distribuzione che fa viaggiare poco i prodotti, valorizzando quelli prodotti nelle vicinanze (se non proprio a chilometri zero). Ridurre il numero di acquisti inutili (ma a questo forse gli italiani si sono più abituati negli ultimi anni). Stilare una lista di ciò che ci serve e attenerci strettamente a quella, senza lasciarsi distrarre da altre tentazioni. Ridurremo anche la quantità di rifiuti.

Certo, quando aumentano i prezzi vengono al pettine tutti i nodi che bloccano la nostra filiera alimentare: percorsi inadeguati, organizzazioni agricole poco coese, grande distribuzione che la fa da padrona. Però forse impareremo anche a dare al cibo il valore che merita – una necessità e un piacere che troppo spesso per chi ne ha a iosa diventa qualcosa di cui abusare.

Il nuovo volto aggressivo di US Army Africa Vicenza

Scritto da:Antonio Mazzeo
Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/

Passa da Vicenza la tappa clou del processo di ammodernamento strategico dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Con l’obiettivo di disporre di truppe sempre più versatili, flessibili, rapide ed efficienti, il Comando centrale di U.S. Army ha annunciato che nel marzo 2013 verrà attivata una brigata di tremila uomini per operare in Africa nell’ambito di un programma pilota denominato regional alignment concept. Si tratterà di un primo test del nuovo modello strutturato su basi rotatorie, che – secondo il Pentagono – consentirà di predisporre di un adeguato numero di soldati pronti ad intervenire per “brevi missioni principalmente finalizzate all’addestramento e alla formazione militare”. La “rotazione” della nuova brigata allineata regionalmente sarà condotta da U.S. Army Africa, la componente terrestre del comando statunitense per le operazioni nel continente africano (Africom), di stanza a Vicenza. Secondo quanto specificato dal portavoce Africom di Stoccarda, dalla prossima primavera, i militari della nuova task force saranno impegnati in diversi “tour” in Africa “per addestrare a sostenere le truppe locali”. I singoli interventi dureranno “da un paio di settimane a qualche mese” e “includeranno missioni multiple in luoghi differenti”. Il concetto strategico relativo alle regionally aligned forces verrà poi esteso alla regione mediorientale e al Pacifico.

 

La 2^ brigata da combattimento della fanteria, denominata Dagger Brigade (“brigata pugnale”) sarà la principale unità che verrà utilizzata per le missioni “pilota” di U. S. Army Africa. “Gli uomini della Dagger Brigade 2/1ID, per buona parte del tempo che saranno assegnati ad Africom rimarranno a Fort Riley, Kansas”, ha dichiarato Andrew Dennis, un colonnello britannico che sta lavorando per l’esercito statunitense come capo-divisone per le “politiche di difesa e cooperazione”. “I team che andranno in Africa potrebbero essere molto piccoli, a livello di compagnia, ad esempio. Essi potrebbero essere coinvolti in missioni di basso livello o con un’organizzazione più strutturata, e partecipare pure a vere e proprie esercitazioni”.

 

La nuova visione operative e strategica dell’esercito statunitense è stata commentate da Lesley Anne Warner, analista di questioni africane per il Centro per gli Studi Strategici di Washington. “Per la prima volta da quando  è stato costituito il comando unificato per il continente africano nell’ottobre 2008, ad Africom verranno assegnate a rotazione forze da combattimento che verranno trasferite dalle basi continentali Usa a luoghi prescelti in Africa”, scrive la Warner. “L’applicazione della Regionally Aligned Brigade indica che i militari riconoscono la necessità di sviluppare un più efficiente sistema di gestione della forza e di sperimentare un più ridotto e leggero concetto operativo. Così facendo, si tenterà di mantenere una presenza globale rivolta contro le minacce transnazionali tenendo ben presente le lezioni apprese dal lavoro con le forze di sicurezza locali in Iraq e in Afghanistan nell’ultimo decennio”.

 

Il concetto relativo alla nuova brigata regionale consentirà inoltre al Comando Africom di espandere le piccole missioni attualmente in corso, prime fra tutte quelle dirette dallo Special Forces Command – Africa (SOCAFRICA) e dall’U.S. Marine Forces – Africa (MARFORAF). “Un esempio di queste operazioni include lo schieramento di cento uomini delle forze speciali per l’addestramento e la consulenza della task force composta da quattro paesi, Uganda, Repubblica Centroafricana, Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan, che opera per catturare il leader del Lord’s Resistance Army, Joseph Kony”, aggiunge l’analista del Centro di Studi Strategici. “L’altro esempio è rappresentato dal Marine Corps Special Purpose – Air Ground Task Force, la componente specializzata aerea e terrestre del Corpo dei marines, composta da poco più di 200 uomini e organizzata in piccole unità, che viene impegnata dalla base di Sigonella, in Italia, nella conduzione di interventi di cooperazione alla sicurezza e nel potenziamento delle capacità di risposta per crisi limitate”.

 

L’attivazione della nuova brigata Usa si accompagna al rafforzamento delle capacità di pronto intervento e proiezione delle unità di U.S. Army Africa di stanza a Vicenza. Qualche mese fa, nella cittadina veneta è stata attivata una piccola unità, l’Headquarters and Headquarters Battalion, per fornire i servizi di supporto logistico a tutto il personale dell’esercito impegnato nel continente africano. Nel corso della prima settimana di giugno, a Vicenza e nella base aerea di Aviano, è stata sperimentato per la prima volta l’impiego del Contingency Command di U.S. Army Africa (CCP), il comando mobile destinato a dirigere i futuri strumenti di coordinamento e comunicazione per assicurare “risposte flessibili e variegate” alle richieste di “dislocamento dei reparti, di assistenza umanitaria o di evacuazione di non-combattenti”. “Le versioni del CCP possono essere configurate sia su un team di collegamento di una decina di persone che in un vera e propria task force di comando congiunto a supporto di oltre cento persone per un’operazione di U.S. Africom”, ha spiegato il sergente maggiore David Brasher, a capo del CCP. “L’esercitazione realizzata a Vicenza ed Aviano ha certificato la capacità del Contingency Command di U.S. Army Africa nel dislocare un comando avanzato con il relativo equipaggiamento grazie all’impiego di un aereo cargo C-17. Il CCP adesso è pronto ad operare ovunque sia necessario, in tutto il continente africano. Ci toccherà poi certificare la giusta combinazione aerea per imbarcare i nostri rifornimenti in modo da pianificare e realizzare le nuove missioni con la massima efficienza”.

 

Il potenziamento operativo di U.S. Army Africa è stato sottolineato dal generale David R. Hogg, a capo delle forze terrestri di stanza a Vicenza sino allo scorso mese di agosto. “Con sempre più soldati, U.S. Army Africa continuerà a rafforzare i propri legami con i militari e i governi della regione, insegnando tattiche di guerra, formando nel campo della logistica e della sanità, così come combattendo la fame, le malattie e il terrorismo”, ha dichiarato Hogg. “L’esercito statunitense consente attualmente ai propri soldati d’intervenire solo in 46 dei 54 stati africani a causa dei pericoli alla loro sicurezza. In occasione di una recente esercitazione, i militari Usa hanno addestrato le forze armate ugandesi a rifornire per via aerea i commandos che nelle foreste incalzano i ribelli del Lord’s Resistance Army, milizia accusata di aver commesso atrocità in Africa centrale. Oggi, con l’autorizzazione del governo dell’Uganda, un centinaio tra militari e civili statunitensi, inclusi due team da combattimento, comando, comunicazioni e logistica, forniscono informazioni, consulenze e assistenza alle forze armate partner che lottano sul campo contro Joseph Kony”.

 

Grazie al finanziamento del Dipartimento di Stato, i militari di U.S. Army Africa stanno pure assicurando l’addestramento delle truppe dei paesi africani destinate alle controverse missioni di peacekeeping in Somalia e alla “protezione dei convogli” e al “contrasto di dispositivi esplosivi improvvisati” in Corno d’Africa. Nel prossimo futuro, sempre secondo il generale Hagg, l’esercito statunitense “dovrà partecipare a corsi militari in Africa, nella scuola francese di sopravvivenza nel deserto di Gibuti e nella jungla di Ghana e Gabon”.

 

Da Stoccarda, i comandanti Africom precisano tuttavia di non avere intenzione, a medio termine, di stabilire “basi permanenti” nel continente. Oggi, gli Stati Uniti possiedono in Africa un Forward Operating Site “semipermanente” a Camp Lemonnier (Gibuti), dove sono stati schierati più di 2.000 uomini della Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA). L’infrastruttura è utilizzata per le operazioni militari Usa in Corno d’Africa, nel Golfo di Aden e in Yemen ed è stata concessa in leasing dal governo locale sino al 2015 con la possibilità di proroga sino al 2020. Un’altra base operativa avanzata di AFRICOM è presente nell’isola dell’Ascensione, possedimento britannico nell’Atlantico meridionale. Tra le proprie facility logistiche e di supporto, il Comando di Stoccarda annovera poi le stazioni aeronavali di Rota (Spagna) e Sigonella (Sicilia), Aruba (Antille olandesi), Souda Bay (Grecia) e Ramstein (Germania).

 

Le forze armate statunitensi hanno inoltre libertà di accesso a un imprecisato numero di basi aeree e porti in Africa e hanno stabilito una serie di facility pronte ad essere occupate in caso di necessità e gestite normalmente dagli eserciti locali. Denominate dal Dipartimento della difesa Cooperative Security Locations (CSL), esse si trovano in Algeria, Botswana, Gabon, Ghana, Kenya, Mali, Namibia, Sao Tomé e Principe, Sierra Leone, Tunisia, Uganda e Zambia. Africom mantiene pure uffici di rappresentanza e collegamento  nei quartier generali dell’Unione Africana in Etiopia, di Ecowas in Nigeria, del Kofi Annan International Peacekeeping Training Center in Ghana e dell’International Peace Support Training Center in Kenya. Secondo un’articolata inchiesta pubblicata di recente dal Washington Post, i militari Usa disporrebbero in Africa pure di alcune basi aeree per il decollo di velivoli-spia con e senza pilota. Il centro d’intelligence che coordina il sistema d’intelligence si troverebbe in Burkina Faso: sotto la copertura di un programma segreto di sorveglianza denominato in codice Creek Sand, una decina di militari e contractor statunitensi opererebbero stabilmente all’interno della zona militare dell’aeroporto internazionale di Ouagadougou. Gli aerei-spia decollerebbero pure dal Mali, dalla Mauritania, dall’Etiopia, da Gbuti, dal Kenya, dall’Uganda e dall’arcipelago delle Seychelles (Oceano Indiano). Un’altra base top secret dovrebbe essere attivata prossimamente pure in Sud Sudan.
L’eccellenza bellica di U.S. Army Africa Vicenza è confermata dal profilo del nuovo comandante nominato poco meno di un mese fa. Si tratta del generale Patrick J. Donahue, in arrivo dal Training and Doctrine Command di Langley-Eustis, Virginia. L’alto ufficiale ha diretto numerose unità di assalto aviotrasportate e di fanteria meccanizzata; è stato membro dell’equipe che ha pianificato le operazioni di guerra in Iraq e, dopo aver lasciato Baghdad nel maggio 2003, ha assunto il comando della 1^ Brigata della 82^ divisione aviotrasportata a Kandahar, Afghanistan, in supporto dell’Operazione Enduring Freedom. Dopo un’ulteriore missione in Iraq nel 2004, nel biennio 2005-05 il generale Donahue ha ricoperto l’incarico di Comandante della regione orientale della forza multinazionale in Afghanistan, dirigendo sanguinose operazioni di “contro-insorgenza” nell’area di Khost. Adesso per il militare è giunta l’ora d’intervenire nel “caldo” continente africano.

 

Cosa ferma gli spermatozoi?

Fonte: http://www.italiasalute.it/copertina.asp?Articolo_ID=1128

 

   Dall’Istituto Gulbenkian de Ciencia in Portogallo arriva la notizia della scoperta di un gene la cui mancanza porterebbe all’immobilità delle cellule e, nel caso degli spermatozoi, alla loro immobilità, causa di infertilità sia nell’uomo che negli animali.

Dall’osservazione dei moscerini della frutta (Drosophila melanogaster), gli studiosi hanno studiato la costruzione dei flagelli (la coda degli spermatozoi ) nelle cellule spermatiche: queste strutture molto piccole e simili ad una frusta sono responsabili del movimento sia degli spermatozoi sia del trasporto degli ovuli dalle ovaie all’utero tramite i loro battiti ritmici.

Il gruppo portoghese, guidato da Monica Bettencourt-Dias e finanziato da parte del Consiglio europeo della ricerca (CER), della Fondazione portoghese per la scienza e la tecnologia (FCT) e dell’Organizzazione europea per la biologia molecolare (EMBO), ha analizzato la formazione di una struttura proteica essenziale ‘il complesso dei microtubuli’ che permette ai flagelli di muoversi in modo coordinato.
“Noi abbiamo osservato un particolare gene del moscerino – ha spiegato Zita Carvalho-Santos, una delle ricercatrici – , chiamato Bld10, e abbiamo scoperto che i moscerini in cui questo gene non è attivo producono spermatozoi con flagelli incompleti poiché, sembra, la proteina Bld10 è essenziale affinché si formi la coppia centrale di microtubuli. Il risultato è che gli spermatozoi sono immobili e i moscerini maschi sono sterili. Gli esseri umani possiedono un gene analogo che produce una proteina simile, che è stata collegata all’infertilità maschile”.

Questa è la prima volta in assoluto, come si legge sulla rivista Developmental Cell e sul notiziario europeo Cordis, in cui sono state descritte le diverse fasi coinvolte nella costruzione dei flagelli mobili nelle cellule spermatiche.
Apprendendo il funzionamento dei flagelli gli scienziati sperano di migliorare la comprensione delle malattie e disturbi associati a difetti nei movimenti dei flagelli come infertilità, problemi respiratori e idrocefalia.

La sindrome russa delle pinete scozzesi

Fonte: http://www.salvaleforeste.it

   Secondo i funzionari della Forestry Commission Scotland, i boschi scozzesi sono minacciati da una falena gigante proveniente dalla Russia, la Dendrolimus pini, le cui larve provocano danni su larga scala alle foreste di pini devastando migliaia di ettari. La Forestry Commission Scotland sta tentando di arrestare la diffusione di della falena.

 

I bruchi della falena crescono fino a oltre di tre centimetri di lunghezza, e divorano gli aghi di pino, spogliando della vegetazione intere aree di bosco.
Nonostante le dimensioni relativamente modeste del bruco, la falena è enorme – le femmine hanno un’apertura alare l’ampiezza di mano di un uomo.
Molti degli alberi attaccati dai bruchi muoiono perché restano senza aghi e diventano suscettibili alle malattie, come scarabei di corteccia e insetti che si nutrono del legno.

Ospite preferito della falena è il pino silvestre. Tuttavia, questa si nutre anche di altre specie di conifere, tra cui l’abete rosso, lo Sitka abete rosso e il larice, tutte specie coltivate commercialmente in Scozia, contribuendo ad un’industria del valore di £ 800 milioni di anni.

La Forestry Commission Scotland ha avvertito che la falena potrebbe rappresentare “un rischio significativo in termini di posti di lavoro e imprese”, in particolare nelle zone rurali economicamente fragili.

Le falene sono state individuate in Scozia in una piantagione di pini a ovest di Inverness nel 2004, poi la presenza di questo lepidottero non è stata più segnalata fino al 2008.
Da allora, rigorose misure di controllo sono state messe in atto per evitare la diffusione dell’insetto distruttivo. Gli studi suggeriscono che il cambiamento climatico e l’aumento della siccità potrebbe favorire un’ulteriore diffusione delle falene. Gli insetti in grado di produrre fino a 250 uova ciascuno tra la fine di maggio e la metà di agosto.

 

Un ‘Angelo’ a Hong Kong…racconti di trenta anni di vita nella Grande Mela Gialla

Scritto da: Tiziana Cavallo
Fonte: http://www.linkiesta.it/blogs/la-grande-mela-gialla/un-angelo-hong-kongracconti-di-trenta-anni-di-vita-nella-grande-mela-gia

L’incontro avviene in un luogo che ha del magico, soprattutto per chi e’cresciuto sperando di seguire le orme di grandi giornalisti e narratori.
Angelo e’seduto a un tavolo dell’FCC Foreign Corrispondents Club di Hong Kong e sorseggia pacato la sua acqua minerale.

La pacatezza, scopriro’ con lo scorrere piacevole delle chiacchiere, e’ una sua caratteristica: non esagera mai nei toni e nei modi e come ti racconta i suoi quasi 30 anni a Hong Kong equivale a leggere un libro immersi nella quiete di un parco, sotto l’ombra refrigerante accarezzati da un vento leggero ma pieno di sensazioni, ricordi, immagini lontane.

Angelo Paratico e’arrivato la prima volta nella Grande Mela Gialla nel 1983, aveva lasciato la sua Turbigo, nella Brianza italiana per aprire nuovi ponti commerciali con la Cina.
“In quegli anni era obbligatorio fare tappa qui per ottenere il visto per la Cina, e gia’allora la differenza tra Hong Kong e la ‘madre pratria’ era visibile e forte, andare in Cina in quegli anni, partendo da Hong Kong, era come andare a fare un safari nella Savana; inoltre qui tutti erano proiettati verso quel mercato, c’era un grande dinamismo, come oggi ma oggi si e’attenti anche al resto del mondo che da qui passa ancora come porta verso l’Oriente”.

Angelo oggi si occupa della parte commerciale di un’azienda italiana che produce denim – e lo produce in Italia per venderlo a aziende, anche italiane, che invece producono abbigliamento in Cina, dicesi paradossi! –. Il denim per me significa jeans e nello specifico Levi’s ma grazie alle parole di Angelo scopro un mondo: il denim migliore lo fanno i giapponesi, la’puoi trovare negozi di jeans vintage che costano anche 10 mila euro. Ma quello che mi stupisce e’che a inventare il jeans di moda siamo stati noi italiani, altro che americani. Adriano Goldschmiedt, co-fondatore della Diesel di Renzo Rosso, negli anni Sessanta a Cortina lancio’quella che poi divenne una moda immortale.

Angelo sa raccontare, e questa non e’una caratteristica di poco conto, quando sono arrivata a Hong Kong alcuni amici mi hanno detto “Se vuoi sapere tutto su questa citta’ devi parlare con Angelo Paratico”.
Ed eccoci qui, seduti all’FCC a pochi metri dal tavolo dove Angelo ha visto qualche volta Tiziano Terzani e dove sono passati tantissimi giornalisti molto amati. E sul mondo del giornalismo, soprattutto italiano, Angelo conosce molti aspetti nascosti, quelli che noi lettori, o noi ‘colleghi’ non conosciamo o diamo per scontato.

“Nel periodo della SARS ne ho viste di belle, il mondo dei media ha contribuito a costruire il problema. Certo non e’stato un bel momento, uscivamo per strada qui cercando di evitare ogni possibile contatto umano, la tensione era visibilissima e altissima ma tanto e’stato raccontato in modo non corretto”.
Vedo Angelo emozionarsi quando ricorda il 1997, l’anno del passaggio da colonia inglese a regione autonoma seppure ri-collegata alla ‘mamma’Cina, “ricordo che quel giorno pioveva a dirotto, aveva piovuto per tutti i mesi precedenti e i cinesi dicevano che era il cielo che piangeva per la felicita’di essere tornati alla madre patria, mentre gli inglesi invece piangevano davvero ma per il motivo opposto”.

Gli chiedo un po’di storia degli italiani qui, quando sono arrivati e come e’cambiata la comunita’ italiana, “i primi furono religiosi, missionari che hanno ancora oggi un ruolo decisamente importante; poi ci sono stati molti consoli italiani che hanno contribuito a diffondere la cultura italiana, come Volpicelli che era anche uno stimato cinologo; oggi gli italiani sono molti di piu’, la comunita’sta crescendo e anche il business, soprattutto la moda, gli accessori, la meccanica di precisione e il vino”.

L’acqua nella bottiglia sta finendo ma i suoi racconti sarebbero infiniti, “ Edda Ciano ha vissuto qui per un po’quando suo marito era console a Shanghai ed era solita giocare a canasta con le sue amiche inglesi”. Angelo, condisce il dialogo di piccole perle e ne ha tante che centellina a seconda dell’argomento.

Oppure le inserisce nei suoi romanzi, perche’tra le tante passioni – mi rivela che uno dei suoi posti preferiti a Hong Kong e’ Hollywood Road perche’ fa collezione di ceramiche antiche e quella strada e’un must per quel tipo di collezionismo – Angelo Paratico ha quella della scrittura “non so dirti – mi confessa – se la Cina mi ha spinto a scrivere o se proprio per questa passione sono venuto qui”.Tra l’altro per molti anni ha curato una rubrica sul Secolo D’Italia proprio dedicata all’Oriente e a Hong Kong.

Tra i suoi libri, che non tralasciano tra i paesaggi anche quello del suo paese di origine dove mi rivela che ama tornare spesso per riscoprire tradizioni e storie del passato, c’e’ “Black Hole” e “Ben” un romanzo storico, intrigante, che parla della pista inglese sulla morte del Duce e ha come protagonista una spia britannica spedita da Churcill in Italia sul finire della Seconda Guerra mondiale (vi rivelo che lo sto leggendo, quindi non voglio svelare nulla di piu’).

Ora sta lavorando a una nuova opera, in inglese ma come tutti gli scrittori e’ avaro di dettagli.

L’acqua e’ finita. E anche la chiacchierata.

“Hong Kong e’il posto migliore per godersi la vita – chiosa Angelo – resta il mistero di cosa accadra’ tra qualche anno quando l’influenza cinese sara’ancora piu’forte”.

Un’ultima curiosita’ mi attanaglia “Ma dove sono i poveri a Hong Kong?”
“Ci sono e sono tantissimi, li puoi vedere di notte nelle zone centrali oppure basta che ti guardi intorno e vedi tutti quegli anziani, soli, e tristi che si aggirano per le strade…non hanno nessuno che li cura, che li aiuta”.

Il giorno dopo il mio sguardo su Hong Kong e’ diverso, ne vedo le ombre, e sono tante. Anche grazie ad Angelo e alla sua pacata ma illuminata visione della vita in questa parte dell’emisfero.

La follia nazista in Boemia

Fonte: http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=39171

 

Reinhard Heydrich era comandante di divisione delle SS e nel 1941 fu nominato da Hitler governatore del cosiddetto Protettorato di Boemia e Moravia. Heydrich era il prototipo del gerarca hitleriano, tanto feroce da guadagnarsi il soprannome di “boia di Praga”, acceso sostenitore della “Soluzione finale” tanto da coordinare personalmente la conferenza di Wannsee del gennaio 1942 dove lo sterminio del popolo ebraico fu dettagliatamente pianificato. Logico che il governo cecoslovacco in esilio a Londra avesse convinto gli inglesi a far fuori un simile mostro.
L’operazione – non a caso – venne battezzata “Anthropoid”, perché il disumano Heydrich dell’uomo aveva solo le sembianze.
Jan Kubiš e Jozef Gabčík, così si chiamavano i due paracadutisti cechi incaricati ed addestrati a portare a termine la missione.
Il 27 maggio del 1942 Kubiš e Gabčík intercettarono Heydrich che viaggiava senza scorta per le vie di Praga su una macchina scoperta, ostentando un’incauta sicumera, e riuscirono a colpire il veicolo con una granata anticarro. Heydrich morì qualche giorno dopo in seguito alle ferite riportate. I nazisti scatenarono una colossale caccia all’uomo e migliaia di persone furono arrestate e torturate nel corso delle indagini sull’attentato. La fidanzata di Kubiš, Anna Malinová, fu detenuta, torturata e infine inviata al campo di sterminio di Mauthausen dove morì. Molti altri parenti ed amici degli uomini del commando furono uccisi. Kubiš e Gabčík stesi non riuscirono ad abbandonare Praga e furono scovati un paio di settimane più tardi, nascosti in una chiesa ortodossa insieme ad altri patrioti. Dopo sei ore di violentissimo conflitto a fuoco con le SS, vistisi perduti, Kubiš e Gabčík preferirono darsi la morte.

Fremente di rabbia per aver perso uno dei suoi uomini migliori e per non aver potuto catturare vivi gli attentatori, Hitler organizzò personalmente una ritorsione esemplare. Scelse un piccolo villaggio nei pressi di Praga, Lidice, e ordinò che tutti i maschi sopra i 16 anni fossero fucilati (192 morti) e che le donne e i bambini fossero deportati a Ravensbrück e Chelmno (pochissimi scamparono alla morte). Le povere case di Lidice furono date alle fiamme ed il villaggio raso al suolo e cancellato dalla mappe.

In onore del “boia di Praga” la costruzione dei primi tre campi di sterminio tedeschi (Treblinka, Sobibór e Bełżec) prese il nome di “Operazione Reinhard”

 

Fonte: http://lascheggiaimpazzita.blog.tiscali.it/2012/04/02/la-follia-nazista-in-boemia/?doing_wp_cron

Il vecchio villaggio non fu più ricostruito. Nel 1949 i sopravvissuti, con l’aiuto del Governo, ricostruirono un altro villaggio nei pressi della posizione originaria. In memoria del massacro di Lidice,  nel luogo dove sorgeva il vecchio villaggio, su iniziativa del Dr. Barrett Stross, membro del Parlamento inglese, nel 1955 è sorto un roseto con piante donate da molti paesi di tutto il mondo. Questo roseto è tuttora il simbolo della nuova Lidice, ed ancora oggi, chi vuole, può donare delle rose che verranno piantate nel roseto ad imperitura memoria di quanto la crudeltà dell’uomo possa essere senza confini .

    La distruzione del villaggio.

Inoltre è sorto un memoriale in ricordo delle vittime, con un museo dove è conservato ciò che resta del paese distrutto: il portone della chiesa, qualche oggetto personale, le letterine dei bambini scritte ai parenti che vivevano degli altri paesi. Nel memoriale vi è anche un parte dedicata a Marzabotto, paese italiano che ha subìto la stessa, triste, sorte di Lidice.

Devo fare una errata corrige: è passato diverso tempo dalla mia visita a Lidice, ricordavo perfettamente che vi è un memoriale dedicato alla strage italiana con relativo “gemellaggio” tra i due paesi, ma non ricordavo esattamente di quale paese italiano si trattasse, così da alcune ricerche era emerso il nome di Marzabotto.  Credo invece che si tratti di Sant’Angelo di Stazzema, altro paese italiano che condivide la sorte di Lidice e Marzabotto. Me ne scuso vivamente e prego chiunque abbia informazioni piu’ esaustive di non esitare a comunicarmele al fine di integrare questo articolo nel modo piu’ completo possibile.