Perchè il Kenya interviene in Somalia

Scritto da: Matteo Guglielmo
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/perche-il-kenya-interviene-in-somalia/27940

Sul confine somalo-keniano si susseguono rapimenti ai danni soprattutto di stranieri. L’intervento dell’esercito di Nairobi può essere molto rischioso. Le dispute sugli snodi commerciali e il business degli aiuti umanitari. Gli effetti del conflitto sui clan e le possibili ragioni della crescita del banditismo.

Clamorosi rapimenti, scontri armati e traffico di armi. Queste sono solo alcune delle dinamiche che hanno sempre caratterizzano il confine somalo-keniano, uno dei più instabili e porosi di tutto il Corno d’Africa. Il rapimento delle due cooperanti spagnole di Medici Senza Frontiere, avvenuto pochi giorni fa nei pressi del campo profughi di Dadaab, è solo l’ultimo degli atti criminosi le cui cause hanno radici storiche profonde.

Il primo ottobre Marie Dadieu, cittadina francese disabile, veniva prelevata con la forza da alcuni uomini armati in un piccolo villaggio dell’arcipelago di Lamu, una delle località turistiche più famose della costa keniana. Sempre a Lamu, circa un mese e mezzo fa, era sparita Judit Tebutt. I rapitori in quell’occasione avevano addirittura ucciso suo marito, per poi dileguarsi senza lasciare traccia.

Le autorità di Nairobi e la stampa internazionale puntano il dito verso il movimento islamista somalo al-Shabaab, che controlla gran parte della Somalia centro-meridionale ed è presente nella città costiera di Chisimaio, ma non nella vicinissima Kambooni, località che dista dal confine meno di cinque chilometri.

Come conferma il governo keniano, nessun movimento armato può per ora vantare un controllo esclusivo su queste coste: persino per gli Shabaab resta difficile spingersi fino al confine. Nell’area sono attive diverse bande armate, che sfruttano l’assenza di controllo per operare in territorio keniano attraverso azioni lampo.

Anche se gli Shabaab non hanno rivendicato alcun rapimento o azione in territorio keniano, Nairobi ha deciso di agire militarmente. I rischi di un’invasione militare diretta sono però notevoli, sia per le probabilità di ritorsione del movimento islamista sia per l’estrema pericolosità dei territori di confine in questione.

La deflagrazione del clan

Da un punto di vista clanico, le aree di confine tra Kenya e Somalia sono territori piuttosto complessi. Se è vero che queste zone sono abitate per lo più da clan Darod (Ogaden, Marehan e Harti), anni di lacerazioni e di scontri hanno prodotto cambiamenti consistenti sia nelle strutture sociali dei territori somali sia all’interno dei gruppi stanziati oltreconfine. Oltre ai clan Darod sono presenti anche Hawiye (Sheikal e Galje’el), Rahanweyn (principalmente Garre) e diversi gruppi che gli stessi somali definiscono minoranze, come i Bajuni e i Bantu (o Jareer), i quali sono stati tra quelli più colpiti dal conflitto civile.

La caduta del regime di Siad Barre nel 1991 ha prodotto un rimescolamento della conformazione clanica in diverse regioni. Oltre a Mogadiscio e al Basso Shabelle, a risentire maggiormente degli effetti della guerra civile furono proprio le regioni di confine con il Kenya, dal Gedo al Basso Giuba. Il flusso di profughi che nei primi anni Novanta si riversò su questi territori era infatti composto da diversi clan Darod in fuga dalla capitale, soprattutto Marehan vicini a Siad Barre.

Il processo di “marehanizzazione” del Gedo e del Basso Giuba – iniziato in realtà alcuni anni prima della caduta di Barre – ha esacerbato la competizione clanica sui territori di confine, innescando uno scontro tra quei gruppi che si percepivano come autoctoni (guri) e altri segmenti clanici considerati come stranieri (galti). I cambiamenti nella relazione tra clan e territorio, diventata oggi molto più stretta e lontana da quella dimensione pastorale basata sul nomadismo, hanno in molti casi depotenziato il ruolo delle leadership claniche e dello xeer (diritto consuetudinario) a vantaggio di nuovi quadri politico-militari sorti all’ombra del conflitto.

La guerra civile ha fatto saltare i meccanismi di autoregolamentazione delle comunità stanziate sulle zone di confine, cancellando alcune forme di solidarietà interclanica alla base dei delicati equilibri di gestione dei centri sia del Basso Giuba e del Gedo, come Chisimaio e Luuq, sia di quelli dei distretti keniani di Wajir, Garissa e Mandera.

Gli scontri al confine

Allo sfilacciamento sociale e alla destrutturazione identitaria di alcune realtà urbane si è accompagnata la crescita di un’economia basata quasi interamente su due elementi: lo sfruttamento dell’indotto (e spesso la predazione) dei flussi di aiuti umanitari e il controllo dei principali snodi commerciali. Questi due fattori sono particolarmente legati, e nel tempo hanno causato una forte competizione sui principali centri di interscambio commerciale e di distribuzione degli aiuti come quelli di Beled Xaawo e Baardheere, nel Gedo, e della direttrice Buaale-Jilib-Chisimaio nell’alto e nel basso Giuba.

Proprio la cittadina di Chisimaio ha visto decuplicare la propria popolazione, che è passata dai circa 80 mila abitanti degli anni precedenti alla caduta di Barre agli attuali 800 mila. Il controllo della città è stato al centro di diversi scontri, fino alla conquista definitiva degli Shabaab avvenuta nell’ottobre del 2009.

In realtà gli islamisti erano riusciti a espugnarla già nell’agosto del 2008 grazie all’apporto decisivo di altri due movimenti armati: il Canoole (composto per lo più da Harti) e la Brigata di Ras Kambooni, costituita da milizie Ogaden allora guidate dall’ex colonnello Hassan Turki. Ad avere la peggio furono i Marehan fedeli a Barre Aden Shire “Barre Hirale”, l’allora ministro della Difesa del Governo federale di transizione (Gft).

Dopo essere riuscito a riacquisire il controllo di Chisimaio nel gennaio del 2007, con l’aiuto dell’esercito etiopico, Barre Hirale viene sconfitto dalle milizie islamiste e costretto a ripiegare nel Gedo, tra la cittadina somala di Doolow e il villaggio etiopico di Dollo Ado, da dove avrebbe ripreso gli scontri con gli Shabaab, sostenuto militarmente da Addis Abeba.

La “scalata” degli Shabaab a Chisimaio è paradigmatica rispetto al processo d’imposizione sugli altri gruppi armati dell’opposizione islamista al Gft. L’inclusione della Brigata di Ras Kambooni e di Canoole in Hizbul Islam, sotto la guida dell’ex leader della Shura dell’Unione delle corti islamiche Sheikh Hassan Dahir Aweys, aveva lasciato la gestione di Chisimaio – dunque degli introiti del porto e dell’aeroporto – nelle mani di due sole fazioni armate.

La conquista definitiva da parte degli Shabaab della città nell’estate del 2008 rompeva l’alleanza tra i giovani mujahideen e Hizbul Islam, inaugurando un processo di erosione della fazione di Dahir Aweys che sarebbe terminato con il definitivo inglobamento dell’intera opposizione islamista negli Shabaab. Per evitare lo scoppio di tensioni da parte dei clan maggioritari, l’amministrazione di Chisimaio e delle regioni del Giuba sarebbe stata affidata a Sheikh Abubakar Ali Aden, originario di Buaale e appartenente al clan Galje’el (Hawiye), dunque potenzialmente equidistante rispetto ai gruppi maggioritari presenti nell’area.

A restare fuori dal processo erano alcune frange Ogaden della Brigata di Ras Kambooni guidate da Sheikh Ahmed Mohamed “Madobe”. Le sue milizie oggi sono stanziate per lo più sulla strada che connette il villaggio keniano di Liboi a quello somalo di Dobley. Nella sua opposizione armata agli Shabaab “Madobe” ha potuto usufruire del sostegno anche delle forze armate keniane, interessate ad evitare che gli islamisti possano avvicinarsi troppo al confine.

Se sul piano degli interessi lo scontro sembra concentrarsi sul controllo di Chisimaio e degli snodi strategici dislocati sul confine, il mezzo per imporsi utilizzato dai diversi gruppi armati resta la competizione sui clan. È proprio lì che si gioca la partita più importante in una delle regioni più colpite dal conflitto.

La chiusura dello spazio umanitario

La militarizzazione del confine e i continui scontri armati hanno diminuito la capacità delle agenzie umanitarie di operare in queste zone, di conseguenza riducendo l’indotto economico a disposizione degli attori armati. Il controllo Shabaab su gran parte dei territori meridionali ha impedito a diverse agenzie dell’Onu – come ad esempio il World food programme (Wfp) – di intraprendere attività di distribuzione degli aiuti, causando il congelamento di quell’economia informale sorta negli anni all’interno dei principali centri a ridosso del confine somalo-keniano.

I rapimenti a scopo estorsivo potrebbero dunque configurarsi come l’effetto indiretto di una situazione politica difficile, oltre che di un clima di scontro che ha modificato un sistema economico cresciuto in un periodo certamente conflittuale, ma in cui l’accesso alle risorse non era impossibile.

Con il porto di Chisimaio controllato dagli Shabaab e i principali snodi commerciali del confine trasformati in teatro di scontro più o meno permanente, ciò che sembra esser venuto meno è proprio la linfa economica per quegli “uomini in armi” che da molti anni sono presenti in queste zone.




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