I rischi globali del rallentamento della Cina

Fonte: http://www.atimes.com/atimes/China_Business/MJ18Cb01.html
Copyright 2011 Francesco Sisci – traduzione dall’inglese di Niccolò Locatelli
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/i-rischi-globali-del-rallentamento-della-cina/28164

PECHINO – Il recente rallentamento dell’economia cinese, per quanto minimo, è un segnale della fine della magica estraneità asiatica alla crisi iniziata nel 2008? Rappresenta forse l’indicazione che un’imminente ricaduta è possibile? Sono domande con implicazioni enormi, alla cui risposta stanno lavorando molti rinomati economisti. Qualche considerazione “di sistema” – anche se non propriamente macroeconomica – dalla Cina potrebbe essere utile. (1)

Le difficoltà delle banche cinesi non sono una novità. Da circa due anni un gruppo di economisti ispirato dall’ex premier Zhu Rongji parla dei problemi del sistema finanziario, da questi modificato negli anni Novanta. Tali problemi sono il frutto di storture del sistema e di alcune misure emergenziali adottate durante la crisi.

Nel 2009 la Repubblica Popolare Cinese (Prc) ha lanciato un piano di stimolo finanziario per circa 600 miliardi di dollari (più di mille miliardi secondo alcune stime) che dall’inizio ha tenuto fuori dalle difficoltà economiche mondiali per un paio d’anni sia il paese sia l’Asia. Ora che la crisi nel resto del mondo persiste, anche Pechino inizia ad avere qualche problema.

I fondi concessi nel 2009 dovevano essere usati rapidamente. Le banche li hanno quindi prestati alle imprese pubbliche, per un motivo molto semplice: se una banca di Stato presta soldi a un’impresa di Stato e l’investimento non va a buon fine, è un problema di quest’ultima, perchè la banca ha fatto il proprio dovere, ovvero prestare denaro alle imprese pubbliche.

Se invece concede un prestito a un’azienda privata e l’investimento non va a buon fine, può nascere il sospetto che il responsabile della banca e quello dell’azienda si siano messi d’accordo per frodare l’istituto di credito. Per questo motivo i prestiti a privati sono molto più complicati da concedere e da ottenere, mentre all’interno del sistema statale il denaro circola velocemente e con facilità.

C’è un però: le imprese pubbliche sono inefficienti quasi per definizione, e la grande crescita degli ultimi trent’anni è stata soprattutto merito delle aziende private. Tutti questi prestiti a companies statali hanno prodotto uno spreco di denaro difficile da quantificare per la sua vastità.

Senza dubbio sono proprio gli investimenti affrettati nel settore delle infrastrutture la causa del recente incidente ferroviario di Wenzhou (in cui ci sono state decine di morti) e nella metro di Shanghai (nessun morto ma almeno duecento feriti). Il problema più grande è però un altro: le imprese pubbliche non investono abbastanza denaro in veri e propri progetti industriali e produttivi perché preferiscono farlo nel settore finanziario – investimenti nell’immobiliare o prestiti “triangolari” a imprese private a tassi anche superiori al 30%.

Il primo fenomeno è alla radice della recente bolla edilizia. Nel 2010 sono stati venduti terreni per circa 500 milioni di dollari, più del doppio dell’anno precedente; nei primi sei mesi del 2011 c’è stato un incremento del 32% degli investimenti nel settore immobiliare rispetto allo stesso periodo del 2010. Non c’è stato invece il boom delle vendite di appartamenti o il raddoppio dell’immigrazione dalle campagne alle città.

Secondo una pubblicazione di settore, nelle città sono stati costruiti appartamenti per un totale di 43 miliardi di metri cubi. Anche ammettendo che la popolazione urbana in Cina sia pari a 800 milioni (cioè più del 50% del totale, e più del dato ufficiale), ogni cittadino avrebbe a disposizione 53,75 metri quadrati. Una famiglia di tre persone dovrebbe avere una casa di 160 metri quadri, addirittura più delle sue controparti americane o europee. Questi calcoli non sono esatti, ma dato che le famiglie cinesi di norma non vivono in appartamenti così grandi, danno l’idea dell’eccesso di offerta del mercato immobiliare.

Un altro studio sottolinea che attualmente sono in costruzione appartamenti per più di tre miliardi di metri quadri. Se fossero pronti entro il 2012, per occuparli servirebbe una migrazione dalle campagne alle città di 60 milioni di uomini, tenendo fermo il dato di 53,75mq/persona. In un anno però non si muovono tutte queste persone, per cui molti di quegli appartamenti rimarranno vuoti.

Alcuni saranno comprati in contanti e usati come bene-rifugio dai ricchi che non saprebbero come investire altrimenti il loro denaro. Altri invece rimarranno invenduti e peseranno per anni sui bilanci delle banche. Nel tempo il mercato li assorbirà, dato che in Cina tra vent’anni più di un miliardo di persone vivrà nelle città, ma per ora bisognerà quasi fermare le nuove costruzioni.

Oltretutto la bolla edilizia ne ha alimentata un’altra, quella della riscossione fiscale dei comuni, che oggi in molti casi ricavano dalla vendita dei terreni più del 50% del totale delle tasse. Si è creata così una collusione di fatto tra i costruttori e gli amministratori locali ai danni dello Stato centrale e dei cittadini.

Un improvviso stop all’edilizia danneggerebbe le banche che hanno prestato ai costruttori, e gli interessi di chi ha comprato una casa a 10 e scopre che un anno dopo vale solo 7, o 5. Anche se hanno pagato in contanti, come molti cinesi fanno, queste persone non saranno contente di veder fallire un investimento.

Perciò a) un ulteriore stimolo al settore edilizio drogherebbe il mercato – rendendo i pochi connessi al settore più ricchi e i tanti che prendono uno stipendio più poveri, oltre ad ampliare i buchi nei bilanci delle banche – e b) gli incidenti di Wenzhou e Shanghai dimostrano quanto sia difficile eseguire rapidamente progetti infrastrutturali senza studi adeguati e puntuali. Quindi anche se lo Stato volesse destinare altri fondi alla costruzione di strade e ferrovie (progetto costoso, ma la Cina ha ancora un sacco di soldi a disposizione), l’impatto economico di questa mossa sarebbe differito nel tempo: prima dovrebbe esser messo su un accurato sistema di controlli, compito non di rapida soluzione.

Poi c’è il problema che le imprese non statali sono spesso esportatrici, e devono affrontare la doppia pressione dell’aumento del costo del denaro (pari o maggiore al 20%) e dell’apprezzamento dello yuan rispetto ad altre valute, che danneggia la loro competitività.

Infine c’è l’effetto più immediato: la crescita dell’inflazione, che danneggia uno strato della popolazione ancora più vasto. Per abbatterla e sgonfiare la bolla edilizia il governo sta limitando le transazioni finanziarie, mettendo così in difficoltà le aziende che devono ripagare le banche.

In questa situazione la Cina prova a sostenere le piccole e medie imprese in difficoltà, come a Wenzhou, dove il premier Wen Jiabao ha ordinato alle banche locali di aiutare gli imprenditori sull’orlo della bancarotta a causa dell’improvviso congelamento dei crediti. Sono segnali positivi, ma pur sempre misure a breve termine: Pechino dovrebbe cercare soluzioni a lungo termine, come quelle applicate negli anni Novanta.

Questa volta ci vorrebbe una ristrutturazione del sistema bancario, di modo che questo possa offrire i propri servizi alle imprese private, più efficienti. Servirebbe inoltre il sostegno alla riorganizzazione di queste ultime, che sono nate in una zona grigia della legge e spesso coprono le loro mancanze passate in maniera non cristallina. Bisognerebbe conceder loro una sorta di amnistia finanziaria per farle operare in maniera completamente legale d’ora in poi.  La Cina dovrebbe anche privatizzare e smembrare le potenti Soe, che rappresentano una grande fonte di “inquinamento” del mercato. Per farlo ci vuole tempo, dato che le Soe sono uno Stato nello Stato in grado di imporre i propri interessi a discapito di quelli nazionali. Questo processo potrebbe essere una delle questioni da affrontare al congresso del Partito dell’anno prossimo.

La situazione potrebbe presto divenire meno stabile. Nelle ultime settimane Wen ha allertato sui possibili fallimenti di alcune imprese private. Secondo alcune stime il 23% dei prestiti delle banche per progetti sostenuti dai comuni andrà perduto, e un altro 50% è a rischio. Una banca internazionale dava notizie drammatiche nei giorni scorsi:

Le perdite delle banche cinesi sui prestiti potrebbero toccare un livello pari al 60% del capitale di rischio, visto che le imprese edilizie e i governi locali non pagano i debiti, secondo Credit Suisse. I prestiti non remunerativi probabilmente saliranno dall’8 al 12% del debito totale “nei prossimi anni”, causando perdite tra il 40 e il 60% del capitale di rischio delle banche cinesi, secondo uno studio del 12 ottobre di analisti di Hong Kong guidati da Sanjay Jain di Credit Suisse.(2)

Naturalmente la Cina non rischia di implodere. Severi vincoli amministrativi impediscono fughe di capitali, i conti dello Stato sono in ottima forma, e per scongiurare problemi ulteriori può essere utilizzata una parte degli oltre tre mila miliardi di dollari di riserve.

Gli studi econometrici di Paolo Savona e degli esperti dell’Accademica cinese di scienze sociali dimostrano inoltre che il tasso di uso del capitale bancario sui depositi in Cina è pari a 2, mentre in Europa è pari a 9. C’è ampio spazio per aumentare l’efficienza dei servizi finanziari e l’uso del capitale. 

I conti vanno comunque rimessi a posto, e ciò potrebbe essere molto costoso per lo Stato. Tra il 1998 e il 2004, prestiti per oltre 500 miliardi sono stati classificati come non remunerativi e dirottati. Oggi il conto potrebbe essere molto più salato e portare a un calo della crescita cinese, prevista per il 2011 al 9%.

Tale riduzione sarebbe una brutta notizia per l’economia mondiale. Nel 2010 Pechino ha contributo alla crescita del mondo per il 19%, e quest’anno potrebbe arrivare al 24%, divenendo così il più grande fattore di crescita in assoluto.
Le esportazioni cinesi sono calate a settembre, a causa dell’indebolimento della domanda, soprattutto in Europa, mercato primario della Prc. Sono diminuite inoltre le importazioni, anche se per ora ciò non sembra indicare un rallentamento della performance di Pechino. L’inflazione è rimasta ufficialmente al 6%, un livello che richiede ulteriori interventi del governo per raffreddare l’economia.

Fattori internazionali e nazionali non sono al momento favorevoli alla crescita cinese, e ciò si riflette su altre parti del mondo, con il rischio che si crei un circolo vizioso. Intanto, avanza minaccioso lo spettro di una nuova recessione, e tutti guardano all’Italia: dichiarerà il default o no? Sarà la miccia di una bomba globale?

A questo punto l’economia assume risvolti politici e sociali. Anche la primavera araba è in parte frutto dell’instabilità economica; la crisi finanziaria del 1997 ha trasformato la politica asiatica. Viene da chiedersi se le proteste di Occupy Wall Street o gli incidenti della manifestazione di Roma – sembra che la durezza delle manifestazioni greche stia diventando contagiosa – non siano il presagio di qualcosa di più grande e radicale mentre la prospettiva di una crisi è sempre più probabile.

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