Land grabbing. Un nuovo colonialismo?

Fonte: http://www.terranews.it/news/2012/01/land-grabbing-un-nuovo-colonialismo

Luca Puddu, coordinatore Desk Africa del centro studi Equilibri

Una superficie ampia otto volte la Gran Bretagna. Questo il bottino delle multinazionali dopo 11 anni di accaparramento di terre africane. La comunità scientifica tenta di arginare il fenomeno. Tra i “pasdaran” del neoliberismo e gli oppositori altermondialisti, si affaccia una terza via che propone la ristrutturazione degli accordi di scambio internazionali e riforme agrarie redistributive

Aumenta la pressione commerciale sugli appezzamenti agricoli nel Sud del mondo. L’entità del fenomeno, che implica dal 2000 ad oggi il trasferimento di terre per una superficie pari a circa otto volte il territorio della Gran Bretagna, è tale ormai da suggerire una profonda ristrutturazione della filiera globale del cibo, le cui ricadute si rifletteranno tanto sui Paesi presi di mira dagli investimenti, Africa sub-sahariana in primis, che sui consumatori finali nel Nord industrializzato. Data la sensibilità del tema, la terra disponibile per la coltivazione tende a ridursi, mentre la popolazione mondiale continua a crescere in maniera esponenziale, il dibattito ha rapidamente assunto connotati ideologici, riflettendo la polarizzazione d’opinioni tra le diverse parti in causa. Le dinamiche che vedono protagoniste le multinazionali del cibo e dei bio-carburanti vengono ora inquadrate all’interno di una cornice neo-colonialista, ora elevate a soluzione per i problemi della sicurezza alimentare, del deterioramento ambientale e della povertà.
Le stesse formule terminologiche impiegate risultano, talvolta, frutto di un’adesione preconcetta al progetto di cui sono espressione. Ciò vale sicuramente per il World Bank Development Report del 2008 – manifesto della rivoluzione verde del XXI secolo, che rispolvera il miraggio della modernizzazione e promette emancipazione dal bisogno per il Sud del mondo, tramite l’industrializzazione dell’agricoltura; è però altrettanto vero per alcuni detrattori, poiché il termine “land grabbing – letteralmente “accaparramento della terra” – esprime di per sé una connotazione negativa, catalogando all’interno del medesimo insieme le transazioni più diverse. È ad esempio interessante notare come, proprio per sfuggire ad un’eccessiva generalizzazione, l’International Land Coalition abbia adottato, in occasione della conferenza di Tirana nel Maggio 2011, una definizione formale di “land grabbing” che ne restringe il campo d’applicazione a specifiche fattispecie. Sono così classificate come “land grabbing” le concessioni o acquisizioni fondiarie che implicano: la violazione dei diritti umani, in particolar modo dei diritti delle donne; l’assenza di consenso preventivo, libero e consapevole da parte delle persone espropriate della terra; l’assenza di studi adeguati sull’impatto ambientale, sociale ed economico dell’investimento; la mancata stipulazione di accordi scritti che determinino preventivamente la distribuzione di utili e ulteriori oneri a carico dell’azienda; l’assenza di partecipazione democratica nella negoziazione del progetto da parte delle comunità interessate.
I soggetti del dibattito
Come evidenziano in un recente saggio Eric Gimenéz e Annie Shattuck, negli ultimi anni i temi dello sviluppo agrario e della sovranità alimentare hanno raccolto intorno a sé l’attenzione di un numero crescente di attori, portatori di interessi riconducibili a specifiche istanze di natura geografica, politica ed economica. I favorevoli e i contrari al processo di internazionalizzazione del settore primario possono essere genericamente ricompresi all’interno di tre categorie: i pasdaran del progetto neo-liberale, quali il Fondo Monetario Internazionale e l’International Financial Corporation; la fronda dei cosiddetti riformisti, comprendente, tra gli altri, il braccio “terzomondista” della Banca Mondiale, l’International Development Association, la FAO e l’International Federation of Agricultural Producers (IFAP); l’ampio fronte d’opposizione, all’interno del quale si muovono organizzazioni di produttori, consumatori e della società civile, da Via Campesina a Fair Trade International.
Per i fautori del progetto neo-liberale, il trasferimento di larghi tratti di terra nelle mani di grandi imprenditori, locali o esteri, consentirà di strappare alla povertà milioni di persone nei più remoti angoli del pianeta. I nuovi flussi di investimenti comporterebbero l’aumento della produzione alimentare e la creazione di nuovi posti di lavoro, ponendo così un argine alle perduranti carestie e alla penuria di opportunità economiche nelle campagne. La fede ideologica nel libero mercato si attenua nella prospettiva riformista, che riconosce alcune contraddizioni in tema di sicurezza alimentare e tutela del tessuto sociale, auspicando un maggior interventismo dello Stato per garantire i diritti delle comunità espropriate. Nel rapporto preparato da un gruppo di esperti nel Luglio 2011, la FAO auspica ad esempio una più concreta tutela degli usi consuetidinari fondiari – l’insieme di norme informali per regolare le modalità di accesso e utilizzo della terra – e nuovi sforzi in direzione del loro riconoscimento legale, attraverso apposite procedure di registrazione.

Nella prospettiva degli oppositori, le dinamiche che contraddistinguono la corsa all’accaparramento fondiario celano piuttosto la dismissione della dimensione pubblica dello Stato a favore degli interessi del grande capitale, così come l’abrogazione dei diritti conquistati negli ultimi decenni da categorie sociali storicamente discriminate, quali i gruppi nomadi e i piccoli coltivatori. Il ventaglio di soluzioni è ampio, anche in ragione della moltitudine di soggetti confluenti all’interno della galassia progressista. In termini generali, le ricette prospettate spaziano da una ristrutturazione degli accordi di scambio internazionali all’adozione di riforme agrarie redistributive, che spezzino il monopolio dei grandi latifondi e garantiscano l’accesso ai fattori di produzione su un piano di uguaglianza.
Ricadute sociali del fenomeno
A prescindere dai singoli punti di vista, è comunque arduo trarre conclusioni certe sull’impatto di questi investimenti, visto il breve lasso temporale di osservazione del fenomeno. Nonostante ciò, appaiono già evidenti le contraddizioni insite nel discorso del fronte neo-liberale. Ne è prova la graduale presa di distanza di alcuni soggetti dalle posizioni messianiche espresse nel World Bank Development Report 2008. La Banca Mondiale, in uno studio del 2011, torna parzialmente sui suoi passi, richiamando l’attenzione sui rischi di speculazione finanziaria e marginalizzazione sociale in quei Paesi, soprattutto in Africa sub-sahariana, che si contraddistinguono per una governance poco trasparente. Nel rapporto “Land Rights and the Rush for Land” dell’ILC, tra i primi a presentare risultati fondati su indagini empiriche, emerge un ritratto di sostanziale pessimismo. Anche laddove si registrano benefici economici e occupazionali, questi rimangono spesso retaggio delle elite locali, formali e informali, lasciando alle comunità espropriate le esternalità negative.

Si delinea dunque un quadro che ripercorre, in forme nuove e contingenti, dinamiche già sperimentate nel passato recente. Cambiano parzialmente gli attori, oggi riconducibili in buona parte al novero delle cosiddette potenze emergenti, ma non le inevitabili contraddizioni insite nell’espansione del modello di produzione capitalistico a società spesso prive di quei pesi e contrappesi maturati nel tempo dai sistemi occidentali. Da una parte, è forte il rischio di idealizzare l’organizzazione sociale ed economica pregressa nelle realtà dove hanno luogo queste acquisizioni, come nota Paul Collier in un articolo d’accusa al populismo nostalgico della middle-class verso il mondo contadino. D’altro canto, è opportuno sottolineare come la terra, considerata nella nostra visione alla stregua di una qualunque merce, incorpora in Africa un insieme di valori che travalicano la sola sfera economica: l’espropriazione arbitraria delle risorse naturali può dunque costituire nell’immediato futuro un fattore di destabilizzazione anche politica. In contesti liquidi come quello africano, dove le identità collettive travalicano e sfidano i confini amministrativi dello Stato, ciò rischia di rafforzare ulteriormente le spinte centrifughe e le rimostranze armate di minoranze etniche, linguistiche e religiose.

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