Gli Usa non lasceranno Kabul: la guerra infinita conviene

Fonte: http://www.libreidee.org/2012/03/gli-usa-non-lasceranno-kabul-la-guerra-infinita-conviene/

Doveva essere un’operazione di polizia internazionale per catturare Osama Bin Laden e sgominare Al Qaeda dopo l’attentato del secolo, quello dell’11 Settembre: così almeno secondo la Casa Bianca, lo stesso super-potere che due anni dopo invaderà l’Iraq col pretesto delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Inabissato “con rito islamico” il fantasma di Bin Laden nelle acque dell’oceano, il ritiro dall’Afghanistan resta un miraggio. Copione invariato: bombardamenti, stragi di civili, attentati, soldati uccisi, bare avvolte nelle bandiere e politici occidentali che ripetono che il contingente internazionale rimarrà nel paese asiatico “per difendere la pace e la sicurezza”. Una favola tragica: l’Afghanistan resta un paese in macerie perché l’abbiamo condannato a rivestire lo stesso ruolo che Israele gioca in Medio Oriente, ossia quello di fabbrica e fucina della instabilità regionale.

Lo sostiene Giovanni Badoer in un intervento pubblicato da “Megachip”: «Così come Israele ha consentito direttamente e indirettamente all’industria petrolifera e, soprattutto, all’industria della guerra statunitensi di prosperare per decenni – oltre all’ovvio ruolo filo-occidentale svolto ai tempi della Guerra Fredda – così l’Afghanistan consente, e dovrà consentire ancor di più in futuro, agli Usa di mantenere attiva la sovversione islamica a sud della Russia e a ovest della Cina, e a mantenere irrisolvibile la questione indo-pakistana». Il tutto, aggiunge Badoer, dando all’industria della guerra statunitense la possibilità di prosperare sia nel nuovo ruolo di fornitrice di armi per l’India, ormai primo importatore mondiale, sia mantenendo basi militari permanenti. Le basi sono una costante spada di Damocle tanto per la Russia quanto per l’Iran, e hanno costi logistici astronomici: affari d’oro, per l’intera filiera della logistica militare statunitense.

Certo, ci sono le vittime: solo l’Italia conta 50 caduti, in una missione che costa annualmente 800 milioni di euro. Perché cominciò quella guerra? Non se ne ricorda più nessuno, ma non importa. I morti? Trecento soldati e tremila civili all’anno. Danni collaterali? Pazienza. L’importante è che la guerra non si fermi, perché conviene: ogni denaro investito in Afghanistan, ogni vita di militare occidentale gettata, ogni sforzo politico europeo è fatica di Sisifo, dice Badoer: «Così come la questione israelo-palestinese è un problema senza soluzione, così lo è l’Afghanistan». Unica via d’uscita: far sì che l’instabilità centro-asiatica non sia più un “interesse vitale” degli Stati Uniti. «Ma con gli Usa succubi all’industria della guerra – come profetizzato da Eisenhower – questa è un’ipotesi assurda». Parlano le cifre: la fetta principale del bilancio statunitense, tra il 30 e il 40%, è inghiottita dall’industria della guerra.

“errori di strategia”, coniugati con la tattica antica del “divide et impera” di stampo coloniale. Si cede il potere locale all’etnia tagika lasciando però la presidenza formale al pashtun Hamid Karzai, che si guarda bene dal rappresentare la maggioranza, che a sua volta – come previsto – sostiene puntualmente i talebani, coi quali infatti gli americani ora trattano apertamente. Un equilibrio perfetto, per legittimare l’occupazione militare: «In queste condizioni di dominio dispotico e violento di una minoranza su una maggioranza, non ci si deve stupire se lo Stato è debole, corrotto, instabile». Agli occhi di molti pashtun, i talebani non sono che patrioti che lottano per recuperare le quote di potere arbitrariamente inghiottite dai “traditori” filo-americani. Autodefinendosi “Emirato islamico dell’Afghanistan”, i talebani si dimostrano tutt’altro che evanescenti: hanno un regolare servizio di informazioni, una rete di governo parallela e una proto-rappresentanza diplomatica in Qatar, oltre alle ben note capacità militari.

Di certo gli Usa sapevano bene chi invitare al tavolo negoziale aperto in Qatar, e di quali specifici detenuti di Guantanamo offrire il rilascio in cambio dell’avvio delle trattative, peraltro già arenate: rischiavano di porre davvero fine alla guerra?  «Un Afghanistan ben amministrato, sicuro, che non produca oppio e morti su scala industriale – dice Badoer – non è un buon candidato al ruolo di motore immobile dell’instabilità regionale in centro Asia». Il “nuovo Afghanistan”, quello promesso nel 2001 tra le rovine fumanti delle Twin Towers, «non solo non serve, ma non deve sorgere: ecco perché gli Usa non se ne andranno». Almeno fino a quando «un altro paese non sia ritenuto un buon candidato sostitutivo, in grado di garantire sia economicamente, sia geopoliticamente ciò che garantisce l’attuale, instabile e martoriato Afghanistan».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *