Il figlio del detestato leader nazista suscita indignazione annunciando di voler restaurare il castello dove governò“ il macellaio di Praga

Scritto da: Allan Hall
Fonte: http://www.dailymail.co.uk
Traduzione per la patatina fritta: Anna Nicoletti e Francesco Fontana

I giornali hanno riportato duri editoriali criticando la sua “mancanza di sensibilità” nel voler restaurare un luogo “dal quale furono dati ordini per la morte di migliaia di individui”.
Heider Heydrich, oggi settantaseienne, ha fatto un’offerta al municipio di Panenske Brezany al fine di “trovare finanziamenti” per la ricostruzione del castello dove anch’egli visse.Dopo il funerale del padre a Berlino – il più solenne nel suo genere nella Germania nazista – egli e sua madre continuarono a vivere nel castello finchè l’avvicinarsi delle truppe dell’Armata Rossa non li costrinse a ritornare in Germania nel 1945, dove egli vive attualmente.
Libor Holik, sindaco di Panenske Brezany ha dichiarato: “Ho avuto modo di parlare con Heider Heydrich al fine di riportare il castello alla sua forma originale. Si è  offerto di aiutare a reperire fondi, ad esempio tramite l’Unione Europea”. E aggiunge: “Dobbiamo distinguere il figlio dal padre”. Il figlio aveva solamente dieci anni quando lasciò Panenske Brezany, alla fine della seconda guerra mondiale, perciò non sapeva cosa fosse la guerra realmente”. Ma molti credono che l’essere in qualche modo coinvolti in una situazione che riconduca a Heydrich possa infangare la memoria di decine di migliaia di Cechi e Slovacchi che morirono sotto l’occupazione Nazista.

Fu dal castello che Heydrich, il quale presiedette nel 1941 la Conferenza di Wannsee a Berlino che siglò il programma Olocausto, macchinò retate delle SS contro gli oppositori.

Colpito e ferito dall’esplosione di una bomba a mano, morì otto giorni più tardi a causa dell’intossicazione ematica causata dai frammenti metallici conficcati nel suo corpo. La vendetta che Hitler inflisse ai Cechi fu terribile.

Un intero villaggio, Lidice, dove si presumeva erroneamente che i comandi avessero ricevuto appoggio, fu decimato.

Tutti gli uomini furono fucilati e le donne ed i bambini deportati nei campi di concentramento. L’intero villaggio fu raso al suolo. Ma il direttore del Lidice memorial, Milous Carvencl, non è contrario al restauro del castello.

Ha dichiarato: “Non ho problemi. La vedo come una forma di compensazione, un’apologia per i crimini ai quali suo padre doveva rispondere”.

Heydrich fu a capo controspioneaggio delle SS, la SD, ed ha diretto la Gestapo ed unito la polizia tedesca sotto il controllo del suo mentore, Heinrich Himmler.
Nel 1941 divenne “protettore” della “Boemia” e della “Moravia”, la parte della Cecoslovacchia incorporata nel Terzo Reich. Impostò un regime brutale , giustiziando ed arrestando migliaia di persone ed inviandone molte al campo di concentramento di Mauthausen-Gusen.
Heydrich. Fu assassinato nel 1942 da un commando Ceco addestrato in Gran Bretagna mentre si dirigeva a Praga.
Per tutta risposta, Hitler autorizzò la distruzione delle città di Lidice e Lezaky, l’uccisione di tutti gli uomini e la deportazione di donne e bambini nei campi di concentramento.
Heydrich giocò un ruolo fondamentale nell’Olocausto. Presiedette nel 1941 la Conferenza di Wannsee a Berlino, che ufficializzò l’offensiva contro gli Ebrei

 

 

 

E se non fossero stati i Marò a sparare?

Fonte: http://www.iljournal.it/2012/e-se-non-fossero-stati-i-maro-a-sparare/326858

Luigi Di Stefano è un ingegnere e perito tecnico che ha lavorato già per diversi tribunali italiani e su alcune cause piuttosto importanti come quella di Ustica. Da solo ha messo a punto una perizia su quanto avvenuto lo scorso 16 febbraio nelle acque indiane e per la quale da quel giorno ci sono due marò italiani detenuti in un carcere del sud dell’India. Ha raccontato la sua ipotesi Il Sole 24 Ore, spiegando che ci sono diverse cose che non lo convincono nella ricostruzione dei fatti.

«A cominciare dall’autopsia effettuata dall’anatomopatologo del Tribunale indiano, il professor Sisikala» che ha recuperato il proiettile dal corpo di uno dei due pescatori uccisi, definendolo calibro 0,54 pollici, pari a 13 millimetri cioè un calibro oggi inesistente».

«Il proiettile è stato repertato con misure indicate in modo criptico e furbesco» sostiene Di Stefano. «Se Sisikala avesse espresso le misure del proiettile in forma canonica, cioè con calibro e lunghezza in millimetri, avrebbe scritto calibro 7,62 e lunghezza 31 millimetri. Il caso sarebbe già chiuso dal 16 febbraio, giorno successivo al fatto e giorno dell’autopsia. Invece del diametro ha reso nota la “circonferenza” (credo sia la prima volta al mondo) e invece dei millimetri ha usato i centimetri». Di Stefano non ha dubbi. I dati indicati confermano che si tratta della cartuccia 7,62x54R ex sovietica, sparata dalla mitragliatrice russa PK che nulla ha a che vedere con la cartuccia 5,56×45 di unica dotazione ai nostri marò e utilizzabile sia con i fucili Beretta AR 70/90 sia con le mitragliatrici FN Minimi in dotazione». Per Di Stefano quindi «le autorità indiane sanno fin dal 16 febbraio che il calibro non è quello delle armi italiane, e anche ammettendo una doverosa verifica tutto si sarebbe risolto in una ispezione alle canne dei fucili Beretta».
Una malafede che spiegherebbe perché i due esperti balistici dei Carabinieri non sono stati ammessi alle indagini ma accettati solo come osservatori e le indiscrezioni trapelate il 13 marzo circa la “compatibilità” del proiettile con quelli Nato. «È ovvio che sia compatibile perché il 7,62 è un calibro ex sovietico ma anche Nato anche se con misure diverse. Quindi gli indiani hanno giocato prima sull’equivoco tra circonferenza e diametro, poi sulla compatibilità». Le incongruenze delle supposte prove raccolte dalle autorità indiane non si fermano agli esami balistici, i cui risultati tardano inspiegabilmente a venire resi noti ufficialmente.

«Il rientro in porto del peschereccio Saint Antony con i due pescatori morti secondo la Guardia Costiera indiana avviene alle 18,20 – aggiunge Di Stefano che ha reso noto le conclusioni della sua analisi su Militariforum – ma le immagini televisive mostrano che è buio pesto e in questo periodo laggiù il sole tramonta alle 18.35».

Il futuro del trasporto: veicoli elettrici a batterie o alimentati a idrogeno?

Scritto da: Giovanni Tavella
Fonte: http://www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=586

L’auto a idrogeno, veicoli elettrici a batterie. La domanda fondamentale è: nel futuro del trasporto avremo veicoli a idrogeno o batterie? Sicuramente negli ultimi anni si è visto un particolare entusiasmo per l’idrogeno quale vettore energetico pulito da utilizzare per una rivoluzione radicale della mobilità. Ma se si pongono a confronto veicoli elettrici a batterie con veicoli elettrici pilotati da celle a combustibile (fuel cells) alimentati a idrogeno si scopre qualcosa di sorprendente.

Inanzitutto gli enormi costi che sarebbero necessari per la realizzazione su scala mondiale di una infrastruttura capillare per il rifornimento dei veicoli a idrogeno rendono molto improbabile che si possa guidare presto vetture a idrogeno. Ma non è solo una questione di costi.

Per capire le problematiche che si trova ad affrontare l’auto a idrogeno dobbiamo considerare il parametro più importante di tutti: il rapporto energia immagazzinata/peso, ovvero quanto deve essere pesante il veicolo per avere un’autonomia decente. Questo parametro è quello che ha, fino ad oggi, relegato i veicoli elettrici in un angolo. Le batterie, pesanti ed ingombranti, non possono ancora competere con la benzina.

Può l’idrogeno fare di meglio delle batterie?

Idrogeno. L’energia accumulata per un serbatoio di idrogeno a 300 bar è di 162 Wh/kg mentre quello della benzina è di 2200 Wh/kg. Una differenza enorme! Solo l’idrogeno liquido (come quello utilizzato per lo Space Shuttle) può polverizzare la benzina con ben 17500 Wh/kg. L’idrogeno liquido però non è pratico per i veicoli civili in quanto si tratta di un liquido criogenico infiammabile che deve essere mantenuto a – 250 °C. Quindi l’idrogeno gassoso è l’unica tecnologia esistente in grado di alimentare un veicolo stradale.

Batterie. Considerando le batterie al litio attuali e che il veicolo a batterie sia dotato dei un sistema di recupero dell’energia in frenata si ha un valore di energia accumulata di 145-200 Wh/kg.

Nella pratica non vi è nessuna differenza significativa fra le due tecnologie ma gli svantaggi della tecnologia a idrogeno sono di gran lunga superiori rispetto ai veicoli a batterie.

Certo si può parlare di lentezza del caricamento delle batterie (ecco un alternativa: www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=298 ) considerando tutti gli aspetti pratici il confronto è tutto a favore delle batterie quali sistemi di immagazzinamento dell’energia elettrica. Attualmente lo svantaggio incolmabile dell’idrogeno sta nel costo e nel problema dell’infrastruttura dei rifornimenti. Se qualcuno ha dubbi a riguardo è sufficiente che guardi quando poco è capillare e a macchia di leopardo la distribuzione del metano per autotrazione. I veicoli a batterie invece possono utilizzare la RETE ELETTRICA ESISTENTE per la ricarica e sono ideali per l’utilizzazione diretta di energia prodotta da impianti solari fotovoltaici (a casa per esempio).

Dal punto di vista energetico i calcoli sono ancora a favore dei veicoli elettrici.
Prendendo 100 kWh di energia in arrivo da una centrale elettrica:

Per un veicolo elettrico a batterie:
90 kWh arrivano al caricabatteria (rendimento elettrodotto 90%),
80.1 kWh arrivano alla batteria (rendimento caricabatterie 89%)
72.1 kWh arrivano al motore (rendimento batteria 90%)
64.9 kWh arrivano alla ruota (rendimento motore 90%)

Per un veicolo a idrogeno con fuel cells:
85 kWh arrivano all’idrogenodotto (rendimento elettrolisi 85%),
76.5 kWh arrivano alla fuel cell (rendimento idrogenodotto 90%)
41.3 kWh arrivano al motore (rendimento fuel cell 54%)
37.2 kWh arrivano alla ruota (rendimento motore 90%)

IRAN 2012

Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_int.php?id=308&tema=Saggi+della+montagna

IRAN 2012 – L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena

di SIMONE SANTINI – Prefazione di GIULIETTO CHIESA

Pubblicato da EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO (Parma, 2012), pagg. 260 Il libro. Iran 2012. La profezia di un’apocalisse? La previsione di una guerra contro l’Iran torna a rimbalzare, da anni, nel dibattito pubblico, ogni volta smentita dai fatti. Anticipare lo scoppio di una guerra può essere esercizio intellettualmente stimolante ma probabilmente inutile, poiché, se la guerra scoppierà, essa non sarà conseguenza di un accidente della storia ma un suo determinato e specifico prodotto. Molto più utile, dunque, indagare le cause profonde, i contesti, gli scenari che potrebbero o meno condurre a questa guerra, con la consapevolezza di come il laboratorio iraniano rappresenti il microcosmo attraverso cui interpretare il tempo contemporaneo, scosso da innumerevoli e profondissime crisi, e il suo sviluppo futuro. Il filo rosso che percorre tutta l’opera è il tentativo di ricostruire, aldilà delle manipolazioni e fraintendimenti operati dalla pubblicistica mondiale, tutti i possibili contorni dell’intricata crisi iraniana, in alcuni casi sfatando miti e svelando inganni, offrendo uno strumento di analisi e comprensione. Un tentativo di verità. E libertà.
Sinossi. Nel primo capitolo si illustra il tema della corsa iraniana al nucleare inserendolo nel contesto mediorientale, evidenziandone il senso profondamente politico e dimostrando come proprio sul tema nucleare si misuri la supremazia dell’Occidente, particolarmente attraverso Israele, su questa area cruciale per gli equilibri geopolitici.
Si ripercorre la cronistoria del dossier nucleare iraniano, dal suo concepimento negli anni ’70 fino agli sviluppi più recenti. Particolare attenzione è dedicata a ricostruire gli snodi del 2005, con la rivitalizzazione del programma atomico voluta da Ahmadinejad, ed il complesso percorso diplomatico che ha condotto, finora, ai fallimenti del 2009-2010 ed all’imposizione delle sanzioni, illustrando strategie e motivazioni.
Nel secondo capitolo sono esaminati il contesto geopolitico odierno e le ideologie alla base dell’edificazione del Nuovo Ordine Mondiale. Si approfondiscono quindi i rapporti tra Stati Uniti e Cina, da un lato, e Stati Uniti e Russia dall’altro, e la loro intima connessione con la crisi iraniana.
Nel terzo capitolo si affrontano alcuni dissidi inter-islamici. In particolare le influenze delle vicende irachene sul vicino stato iraniano e la nascita di un asse arabo-sionista, ovvero occidentale-sunnita, in chiave anti-iraniana e anti-sciita.
Nel quarto capitolo ci si concentra sulle dinamiche politiche interne all’Iran. Le strutture della Repubblica islamica, i dissidi e le lotte di potere, gli scontri ideologici. Particolare attenzione è dedicata alla figura dirompente di Mahmud Ahmadinejad; all’analisi delle elezioni presidenziali del 2009 ed alle successive proteste; all’uso del terrorismo, nelle sue molteplici varianti, contro la nazione iraniana; allo strumento della propaganda mediatica con l’analisi di due casi di scuola: le vicende Neda e Sakineh.

L’autore. Simone Santini, giornalista. Nel 2001 è tra i fondatori del magazine on-line Clarissa.it (www.clarissa.it ) di cui ricopre attualmente il ruolo di coordinatore (capo-redattore).
Ha pubblicato su Clarissa.it oltre 50 tra saggi brevi e analisi di approfondimento, e circa 300 articoli divulgativi ed editoriali, occupandosi principalmente delle seguenti tematiche: analisi geopolitiche ed economiche; analisi di processi comunicativi e media; divulgazione e commenti di avvenimenti di politica internazionale, in particolare riguardanti il Medio Oriente e l’Iran.
Dal 2008 i suoi articoli sono, in modo continuativo, ripubblicati sul web da Antimafia Duemila (www.antimafiaduemila.com) e Megachip (www.megachip.info ), sito fondato dal giornalista e scrittore Giulietto Chiesa.

INDICE GENERALE

PREFAZIONE di Giulietto Chiesa 5

INTRODUZIONE 13

Capitolo 1
UNA BOMBA ATOMICA PER AMICO 15
1. Il contesto politico mediorientale e il nucleare 15
2. Il dossier nucleare iraniano.
Una cronologia essenziale (1974-2009) 32
3. Un caso esemplare: i “buchi” della diplomazia e il ruolo
della AIEA 38
4. Cronache da un fallimento 47
5. Verso le sanzioni 59

Capitolo 2
UN NUOVO ORDINE MONDIALE 75
1. Ideologie imperiali 75
2. Il Grande Gioco: Stati Uniti, Cina, Iran 88
3. Il Grande Gioco continua: Stati Uniti, Russia, Iran 99

Capitolo 3
FRATELLI COLTELLI 107
1. Iraq. Un buco nero? 107
2. L’Asse arabo-sionista 119

Capitolo 4
BAGLIORI DI UNA GUERRA SEGRETA 131
1. Chi comanda in Iran? 131
2. Mahmud, il nemico perfetto 143
3. L’onda verde e l’onda rossa 179
4. Terrorismi 193
5. Ultimi fuochi. Prospettive e conclusioni 225
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 250

INDICE DEI NOMI 252

L’autore può essere contattato a questo indirizzo e-mail: redazione@clarissa.it

Per acquisti e informazioni: ordini.blog@gmail.com

La marcia degli Indigeni in Ecuador

Fonte: http://www.ilpost.it/2012/03/23/la-marcia-degli-indigeni-in-ecuador/

Giovedì migliaia di indigeni sono arrivati a Quito, la capitale dell’Ecuador, dopo una marcia di 700 chilometri iniziata due settimane fa nella città di El Pangui, nella regione amazzonica del Paese, per protestare contro il governo del presidente Rafael Correa. Lungo il cammino sono stati affiancati da attivisti e membri del sindacato degli insegnanti. I manifestanti hanno lanciato pietre e bastoni davanti al palazzo del parlamento, ferendo alcuni poliziotti. Poche ore prima, sempre nella capitale, si era svolta una manifestazione di migliaia di persone a sostegno del presidente.

I manifestanti si oppongono a un accordo firmato agli inizi di marzo dal governo ecuadoriano con una compagnia mineraria cinese, che investirà 1,4 miliardi di dollari in un progetto di estrazione del rame vicino a El Pangui. Correa ha spiegato che l’estrazione verrà realizzata con tecniche moderne, ha invitato gli indigeni a non farsi manipolare dalla «destra corrotta» e ha definito l’accordo «l’inizio di una nuova» era per l’Ecuador: il ricavato del progetto verrà impiegato per finanziare strade, scuole, ospedali e sarà in parte distribuito agli abitanti di El Pangui. La Confederazione degli indigeni dell’Ecuador (CONAIE) sostiene invece che le attività estrattive danneggeranno l’ambiente e obbligheranno le popolazioni locali ad abbandonare le loro terre. Ha anche sottolineato che il governo avrebbe dovuto consultare gli abitanti prima di firmare un accordo che stravolgerà i luoghi che abitano da secoli. La CONAIE si presenta come rappresentante della popolazione indigena nel Paese, che conta più di 14 milioni di persone. Nel 2007 ha avuto un ruolo decisivo nel sostenere l’elezione alla presidenza di Correa, candidato della sinistra, ma da allora si è trovata spesso in contrasto con i progetti da lui proposti per sviluppare l’economia del Paese.

La rivolta in Bahrein, tra Iran e Arabia Saudita

Scritto da: Liisa Liimatainen
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/la-rivolta-in-bahrein-tra-iran-e-arabia-saudita/32856

A Manama le aspettative democratiche della maggioranza sciita dello Stato insulare sono state frustrate dalla casa reale, che appartiene alla minoranza sunnita. La lezione dei correligionari sauditi e il ruolo ambiguo di Teheran.

(Carta di Laura Canali tratta da Limes 1/12 “Protocollo Iran”)

Nella piccola monarchia del Bahrein gli sciiti sono in netta maggioranza, circa il 70% della popolazione, ma hanno pochissimo potere nonostante qui, a differenza dell’Arabia Saudita, esista un parlamento eletto. La minoranza sunnita, la casa reale e, in particolare, la sua fazione conservatrice hanno gestito i tentativi di dare al Bahrein un sistema semi-parlamentare in modo tale da frustrare negli anni le speranze degli sciiti.

Infatti é prima di tutto la parte sciita della popolazione – anche se non esclusivamente – che si é rivoltata contro il governo dopo le rivoluzioni arabe iniziate in Tunisia alla fine del 2010. Gli sciiti del Bahrein, quelli della Provincia Orientale dell’Arabia Saudita e quelli dell’Iraq meridionale fanno parte storicamente della stessa popolazione di sciiti arabi, stabilitisi nella regione nei secoli immediatamente successivi alla nascita dell’Islam. Hanno storie molto diverse ma nei loro paesi vengono molto spesso considerati, senza distinzioni, come quinte colonne dell’Iran.

Nel 2006, un alto funzionario statale del Bahrein ha affermato che non ci sono dubbi su fatto che l’Iran e l’Hezbollah libanese istighino gli sciiti alla resistenza, ma è altrettanto vero che il Bahrein potrebbe risolvere il problema dando lavoro alla maggioranza sciita discriminata socialmente. La rivolta del 2011 ha dimostrato che la discriminazione continua. Gli sciiti rivendicano l’uguaglianza sociale e politica e chiedono la transizione verso una monarchia costituzionale nella quale la maggioranza abbia un peso adeguato.

Quali sono gli interessi immediati dell’Iran nell’area del Golfo, ora che si trova in una situazione di isolamento quasi totale? Secondo un docente sciita saudita, il dr. Misfir Ali Mohammad al-Kahtani (intervistato dall’autrice), Teheran non è interessata alla fine della discriminazione degli sciiti del Golfo ma vuole che l’instabilità continui, creando così problemi agli altri regimi. Data la presenza della Quinta flotta americana nell’isola, il Bahrein riveste peraltro un’importanza fondamentale.

Il professor Al-Kahtani ha fatto parte di un gruppo di accademici sauditi che, nella primavera del 2011, ha proposto una mediazione tra la maggioranza sciita del Bahrein e il governo di quel paese. Gli accademici, due sciiti e due sunniti, avrebbero voluto parlare sia con i rappresentanti sciiti sia con il governo, ma quest’ultimo ha rifiutato il dialogo.

Secondo lui l’intelligence di Manama ha le prove che, nel corso del conflitto della primavera 2011, un gruppo minoritario di sciiti del Bahrein si è recato per due giorni in Libano per discutere della situazione, si suppone, con l’Hezbollah libanese. Al suo ritorno infatti si assistette a un inasprimento degli scontri sull’isola. Per Al-Kahtani il gruppo, che ha avuto contatti con l’Iran attraverso l’ambasciata a Manama, non è il principale raggruppamento politico sciita del Bahrein – Al Wifaq – ma una delle fazioni minori.

Visto che il Bahrein ospita la Quinta flotta statinunitense, gli Ua seguono con molta attenzione gli eventi politici nell’isola. Il Bahrein é stato indispensabile sia nella guerra in Afghanistan sia in quella in Iraq. Da quell’isola gli americani sono anche in grado di controllare il traffico di Hormuz, compreso il commercio di armi e i traffici legati al terrorismo. Grazie alla Quinta flotta l’isola riveste inoltre una funzione di deterrenza nei confronti dell’Iran. Per gli Stati Uniti, il Bahrein é “un importante alleato non-Nato”, come ricorda l’esperto di Medio Oriente Kenneth Katzman nella sua relazione per il Congresso americano.

In quella relazione, egli afferma che non c’é evidenza di un intervento diretto dell’Iran in Bahrein, malgrado le accuse del re bahreinita. L’allora segretario della Difesa Gates non ha accusato Teheran di istigare gli sciiti, ma ha affermato che l’allungarsi della crisi interna le dà la possibilità di approfittarne e, forse, di distogliere gli sciiti del Bahrein dall’accettare un compromesso, spingendoli invece verso un cambio di regime. Pejman Abdolmohammadi, docente dell’Università di Genova, ricorda che l’ayatollah Ali Khamenei ha smentito che l’Iran abbia avuto alcun ruolo nelle sommesse della primavera 2011.

Teheran rappresenta una priorità anche per la politica estera del Bahrein, perché “ha dimostrato di avere l’abilità, più di altri paesi, di aggravarne i conflitti interni”. Manama percepisce l’Iran come uno Stato “che vuole ed é capace di sostenere gruppi sciiti contro il potere, anche se negli anni recenti e nella crisi attuale le prove del coinvolgimento iraniano sono limitate”.

Subito dopo la rivoluzione iraniana, ai tempi della cosiddetta esportazione della rivoluzione islamica, il Bahrein ha sostenuto che l’Iran aveva tentato di organizzare un colpo di Stato con l’appoggio del Fronte Islamico per la liberazione del Bahrein, ma il tentativo era fallito. Nel 1996 il governo aveva annunciato la cattura di un gruppo di golpisti che sosteneva fossero stati addestrati dall’Hezbollah libanese e dalla Guardia rivoluzionaria iraniana. Nello stesso anno, in Arabia Saudita c’era stato l’attentato contro i soldati americani ad Al-Khobar.

Le paure del Bahrein sono tenute vive dal sospetto che l’Iran non abbia accettato il risultato del referendum sull’indipendenza dell’isola organizzato dalle Nazioni Unite nel 1970. Ancora nel marzo 2009, l’ex-presidente del parlamento iraniano Ali Akbar Nateq Nuri, che oggi é consigliere del leader spirituale Ali Khamenei, parlava del Bahrein come della quattordicesima provincia iraniana. Dal momento che il ministero degli Affari esteri precisava subito di voler rispettare la sovranità del paese, tuttavia, questa retorica va probabilmente addebitata alla conflittualità interna tra il presidente – capo del governo – e la Guida suprema. Ma il danno era fatto.


Prima dell’arrivo delle truppe saudite, il re del Bahrein ha fatto diverse concessioni: il perdono e il ritorno dall’esilio di alcuni leader radicali; l’uscita dal governo dei ministri del Lavoro e degli Affari sociali, entrambi membri della famiglia reale. L’ammorbidimento delle posizioni governative, tuttavia, non ha prodotto alcun tipo di soluzione né ha portato al miglioramento dei rapporti con la maggioranza sciita.

Dopo le tremende violenze perpetrate dalle forze governative, molti dimostranti sciiti hanno appoggiato il partito più estremista, Al-Haq, il quale chiedeva le dimissioni della monarchia. Il partito più moderato – Al-Wifaq – e altri gruppi sembravano pronti ad accettare la creazione di una monarchia costituzionale con elezione di un primo ministro, formazione di un governo rappresentativo delle diverse parti della popolazione e reali interventi per promuovere l’occupazione della popolazione sciita. Altri piccoli gruppi che sostengono la ”linea dura” hanno invece appoggiato Al-Haq. Quando anche i gruppi moderati hanno abbandonato il negoziato, si sono avuti gli scontri più duri e il governo ha chiesto all’Arabia Saudita di mandare le proprie truppe.

Secondo Katzman, la reazione violenta contro i manifestanti e l’appello a Riyad hanno precluso al Bahrein qualsiasi possibilità di arrivare a una soluzione politica negoziata. A suo avviso, questo tipo di conflitti potrebbe allargarsi a un’area più vasta della regione del Golfo.

Gli eventi nei primi mesi di quest’anno sembrano confermare le parole del ricercatore americano. A metà gennaio il re Hamid bin Isa Al-Khalifa annuncia alcune riforme costituzionali che daranno piú potere alla parta eletta del parlamento, il Consiglio dei rappresentanti (c’é anche una parte nominata dal re, il Consiglio di consultazione o Shura, che é una struttura tradizionale). Il parlamento avrá cosí la possibilità di approvare la composizione del governo proposta dalla monarchia e il diritto di proporre la sostituzione di ministri.

L’opposizione boccia questi cambiamenti perché non consentono al parlamento di porre domande sull’attività del primo ministro e di sfiduciarlo. Il primo ministro del Bahrain, dal 1971 a oggi, é lo zio del re, principe Khalifa bin Sulman Al-Khalifa, un personaggio molto potente. L’opposizione stigmatizza anche il ruolo del Consiglio di consultazione, che limita di fatto il potere della parte eletta del parlamento. Anche se alcune riforme sono condivisibili, nell’insieme è evidente che il re non ha affrontato seriamente il problema principale, ovvero la mancanza di un assetto bilanciato del potere tra la monarchia, che rappresenta la minoranza sunnita, e la maggioranza sciita. L’opposizione chiede una piena monarchia costituzionale.

La riforma proposta dal sovrano non calma gli animi: le continue manifestazioni e i nuovi morti ne sono la prova. Nel novembre 2011, al momento della pubblicazione della relazione del Comitato internazionale di inchiesta, i morti risultavano essere 35. Ora sono almeno 50, la maggior parte vittima della violenza della polizia, ma anche cinque poliziotti hanno perso la vita negli scontri. Si assiste a una radicalizzazione dello scontro tra gli sciiti e i sunniti. Sono aumentati gli attacchi degli sciiti contro la polizia, ma anche le azioni dei sunniti contro le moschee sciite.

Anche gli osservatori esterni cominciano temere gli sviluppi della situazione in Bahrain. Un debutato tedesco esperto di Iran, Omid Nouripour, ricorda che un anno fa a Manama era in azione un movimento non-settario per la democrazia, mentre adesso il piccolo regno sta diventando un campo di battaglia nella guerra regionale tra Iran e Arabia Saudita. “La monarchia saudita sostiene la repressione statale, mentre l’Iran si comporta come il protettore degli sciiti del regno”.

Il 9 marzo una manifestazione pacifica e imponente ha dimostrato che Al-Wifaq, il principale partito d’opposizione, controlla ancora la maggioranza della popolazione sciita. Nello stesso giorno ci sono state anche manifestazioni dei sunniti, alcuni dei quali temono che il dialogo porti alla formazione di un parlamento con reale potere legislativo e, di consequenza, consenta la formazione di un governo non piú controllato dalla casa reale.

 

Messo in difficoltà dalle pressioni contrapposte, il re ha presentato il 20 marzo scorso un nuovo pacchetto di misure, una parte delle quali già in fase di realizzazione con l’obiettivo di dimostrare la volontà di riformare i sistemi di sicurezza e di giustizia, ma anche la politica sociale ed educativa e il sistema dei media.

 

Una delle decisioni più significative è quella di promuovere un organismo di inchiesta nel contesto del sistema giudiziario nazionale per definire le responsabilità di “coloro che, nel governo, hanno agito in un modo illegale o negligente causando morti, torture e maltrattamenti dei civili”. Il procuratore nazionale dovrebbe indagare su 121 casi di morte, tortura o maltrattamenti che coinvolgono 48 ufficiali. Fino ad oggi nessun responsabile delle torture che hanno causato 5 decessi é stato messo sotto inchiesta. Recentemente la Croce rossa internazionale ha potuto ispezionare le carceri ma il governo ha chiesto alle Nazioni Unite di rinviare a luglio la visita di un rappresentante per indagare sulle torture.

L’esecutivo dovrebbe creare un fondo per risarcire le vittime della violenza; una corte speciale deciderà sull’entità del risarcimento in caso di responsabilità dello Stato. Il ministero dell’interno e l’agenzia della Sicurezza nazionale dovrebbero essere ristrutturati e prevedere anche un ombudsman. Per favorire il processo di riconciliazione nazionale, il re ha annunciato che 12 moschee sciite distrutte saranno ricostruite; tutti i dipendenti pubblici licenziati nel corso della protesta rientreranno al lavoro; si richiederà ai privati di reintegrare i licenziati.

Con questi provvedimenti si sta tentando di calmare la rabbia di 1400 persone arrestate e 3600 persone licenziate, promuovendo la riconciliazione anche con un fondo sociale di 500 mila dollari, dal quale le famiglie piú bisognose potrano attingere e con il quale saranno finanziati diversi iniziative sociali. Il Comitato d’inchiesta internazionale aveva criticato nella sua relazione il fatto che l’opposizione sciita non aveva considerato seriamente le proposte fatte dal principe ereditario nel marzo 2011. Adesso, a un anno dall’inizio delle proteste una parte dell’opposizione appare intenzionata ad accettare il dialogo, ma tanti lavorano nella direzione opposta.

Il presidente di Al-Wifaq, Ali Salman, sostiene che la gente smetterà di protestare quando saranno evidenti i cambiamenti. “Non chiediamo che la famiglia reale lasci la guida del paese. Possono restare al posto loro ma devono trasferire il potere al popolo”. L’esempio é il Marocco dove “il re ascolta il suo popolo, prende provvedimenti giusti e guida il paese verso una monarchia costituzionale”. Guido Steinberg, un altro esperto tedesco, comprende la diffidenza sciita dopo le esperienze negative e le promesse non mantenute da parte del governo, ma afferma che “l’opposizione sta facendo un errore nel non favorire il dialogo adesso, perché in questo modo perde sempre di piú il contatto con i giovani che vanno ad aumentare le fila dei movimenti radicali sciiti”.

Nel comparare la situazione degli sciiti del Bahrein con quella dei loro correligionari in Arabia Saudita non si può non notare che nel secondo caso gli islamisti sciiti, pur venendo da una storia di sudditanza nei confronti dell’Iran e da un passato estremista, hanno avuto la capacità, anche dopo periodi lunghissimi di attesa senza speranza e dopo decenni di discriminazione e repressione, di trattare e scendere a compromessi con il potere quando da quest’ultimo sono arrivate proposte serie in grado di migliorare le condizioni della popolazione.

Forse gli sciiti del Bahrein potrebbero imparare qualcosa dai loro fratelli dell’Arabia Saudita, anche se bisogna ricordare che questi ultimi sono ancora lontani dall’essere trattati alla pari e che anche nella Provincia Orientale la pazienza potrebbe esaurirsi

Luca Birindelli, pioniere

Scritto da: Angelo Paratico
Fonte: http://www.litaliano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3241:luca-birindelli-pioniere&catid=43:mondo&Itemid=411

Angelo Paratico (Hong Kong) – Dieci giorni fa è morto improvvisamente Luca Birindelli, avvocato romano di 55 anni e ambasciatore onorario per l’Italia dello Stato di Singapore. Un’infarto all’alba. Era stato un pioniere in Asia stabilendo per primo degli uffici legali a Hong Kong, Singapore e a Shanghai. Molte industrie italiane che ora prosperano in Asia devono molto alla sua intrapendenza e alla sua lungimiranza.
Suo padre era stato la medaglia d’oro ammiraglio Gino Birindelli, l’eroe di Alessandria e di Gibilterra, con la V MAS poi presidente riformista del MSI. Il padre di Luca s’era spento alla veneranda eta’ di 98 anni nel 2008, ancora in possesso delle proprie facoltà mentali e in parte fisiche. Una piccola digressione storica ora, che avrebbe fatto sorridere Luca. Avevo approfittato della nostra amicizia per domandare se davvero i reduci dei MAS erano implicati nell’affondamento della corazzata Giulio Cesare, di cui Luca, come la gran parte degli Italiani, ignorava tutto. Questa nostra vecchia nave da battaglia fu ceduta alla Russia sovietica dopo la guerra, fra l’indignazione generale, assieme alla Cristoforo Colombo, Emanuele Filiberto, Artigliere, Fuciliere e ad altre unita’ di superfie e subacquee. La Giulio Cesare sprofondò a Sevastopoli il 28 ottobre 1955 dopo una fortissima esplosione che aprì una grossa falla nella chiglia. Si parlò di 1.200 chili di Tnt. Non si seppe mai cosa la causò, ma fu una tragedia umana, amplificata dalla criminale imperizia del comandate sovietico di quell’unità: 600 marinai morti. Vi sono qui tutti gli elementi per un film: vecchi reduci della X Mas e marò britannici che partono in segreto per la loro ultima missione, inventando una giustificazione per tranquillizzare le mogli. Gino Birindelli aveva scosso la testa, rispondendo che lui no c’entrava nulla, ma il suo ambiguo sorriso sembrava dire che ne sapeva di più. Anche Luca ammise che lo aveva visto molto reticente.
Luca mi aveva raccontato, con la sua calda e giocosa umanità, alcune delle sue peripezie. Di quando neolaureato in legge conobbe Enzo Ferrari. Il grande vecchio lo assunse e gli ingiunse di partire per gli Stati Uniti per rappresentarli commercialmente. Un’esperianza che lo formò, ma che soprattutto lo fece divertire moltissimo, essendo quelli gli anni d’oro per quel Paese.
Parlava in particolare del maggiore fallimento commerciale della sua vita: l’apertura di un ufficio legale nella Corea del Nord. Diceva che lo avevano costretto ad acquistare un’automobile con autista e con vari impiegati senza che gli fosse poi stata data la possibilità di trattare alcun affare. Dopo varie incomprensioni con le autorità comuniste lo chiuse senza aver transato alcun affare, neppure l’acquisto d’un francobollo.
Ultimamente s’era concentrato sul Shanghai, dove secondo lui apprezzano sempre di più i nostri prodotti e la nostra immagine. Io gli dicevo che era matto, e che doveva semmai concentrarsi su Taormina. Che Shanghai è solo un villaggio Potemkin, uno specchietto per le allodole, un Ponzi elevato al cubo, la piramide funebre di Deng Xiaoping. Litigavamo amabilmente, cercando di farci lo sgambetto a vicenda, per poi riderne e continuare a stimarci.
S’era risposato con una bella ragazza, molto più giovane di lui, che per la prima volta lo aveva reso papà d’un bel maschietto. Mancherà molto a tutti noi ferrivecchi asiatici con i suoi favoriti alla Stamford Raffles.

Cara Striscia la Notizia,Antonio Pappalardo non Molla!

Scritto da: Antonio Pappalardo
Fonte: http://www.sindacatosupu.it/

Comunicato Stampa.

Ho appreso che “Striscia la notizia” avrebbe fatto uno scoop con mio fratello, Pietro Pappalardo, candidato come consigliere comunale per il movimento “Il Melograno”. Lo avrebbe sorpreso con una telecamera nascosta mentre rassicura i suoi potenziali elettori circa la realizzazione di progetti che assicurerebbero il lavoro dopo le elezioni grazie all’azione degli eletti che fanno capo proprio a me. Progetti che verrebbero realizzati anche utilizzando i beni confiscati alla mafia.

Da buon Carabiniere non vedo quale cattiva azione abbia commesso mio fratello, nel momento in cui ha promesso che, se viene eletto consigliere comunale, si darà da fare per realizzare posti di lavoro. Berlusconi ha promesso un milione di posti di lavoro. Mio fratello, usando un linguaggio colorito, molti di meno.

Il tentativo di diffamarmi è andato a vuoto. Gli Italiani sanno riconoscere un uomo onesto da un disonesto. E disonesto è anche colui che cerca di buttare fango su dichiarazioni, che sono del tutto normali in una contesa elettorale, facendole apparire come illecite. Questa è disonestà!

Debbo ringraziare, comunque, Striscia la notizia perché ci ha dato visibilità, dato che a Palermo le varie organizzazioni più o meno sociali e la stampa ci stanno oscurando. La Confcommercio, per esempio, ha organizzato una riunione invitando solo 5 candidati a sindaco, Dragotto, Caronia, Ferrandelli, Costa ed Aricò, escludendomi. Perché lo ha fatto? Certo imporre al futuro sindaco un Assessore, proveniente dal suo gruppo di potere, è una procedura ai limiti dell’arroganza e della prevaricazione. Io, se fossi stato invitato, li avrei mandati a farsi benedire. Gli altri, tranne, uno, hanno accettato supinamente. Sono già ingabbiati in un vecchia logica spartitoria e discriminatoria, che continua a penalizzare la città di Palermo.

Ho da rivolgere una preghiera a Striscia la notizia. Quando tornerete, non nascondete le telecamere. Tenetele ben visibili perché noi Pappalardo non abbiamo nulla da nascondere ai palermitani e al popolo italiano.

Andate a vedere cosa fanno gli altri candidati che regalano cucine e pentolame, pagano pranzi e cene a tutto spiano e costituiscono cooperative prendendo soldi dalla povera gente, facendo credere ad essa che un giorno avranno posti di lavoro. La signora in giallo, che si trascina un simpatico bassotto, vada ad indagare nei posti giusti. Se vuole, le diciamo pure dove deve andare. Senza alcuno spirito omertoso!

 

Palermo, 20 marzo 2012

La Nuova Grande Depressione. Il Portogallo ed il Default. Aritmetica o Morte.

Scritto da: Giuseppe Sandro Mela
Fonte: http://www.rischiocalcolato.it/

Finanzieri, economisti e politici stanno da tempo facendo astrusi e complessi discorsi sullo stato di salute del Portogallo. Come é noto, questa Nazione é entrata in una grande fase depressiva che si manifesta anche con un’emigrazione dei suoi giovani disoccupati verso le sue ex-colonie, alla ricerca di un lavoro.

La situazione ha iniziato a precipitare lo scorso anno a maggio, quando il Portogallo ha negoziato aiuti internazionali per 78 miliardi di euro.

 

Sole24Ore. 2011-05-03. Ue, Fmi e Bce mettono sul piatto 78 miliardi di euro per il piano triennale di salvataggio del Portogallo.

Dopo Grecia e Irlanda, anche il Portogallo si aggiunge nella lista dei paesi dell’Eurozona che hanno dovuto chiedere aiuti finanziari per evitare la bancarotta. Lisbona ha raggiunto un accordo con l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) per un piano di aiuti triennale dall’ammontare di 78 miliardi di euro.

Socrates: accordo buono

L’annuncio è stato fatto dal primo ministro dimissionario Jose Socrates che ha definito «buono» il piano. «Come ogni programma di aiuto finanziario – ha detto Socrates – anche questo prevede contropartite». Tuttavia tra queste non ci sono riduduzioni obbligatorie degli stipendi dei dipendenti pubblici o delle pensioni minime. Lisbona non sarà inoltre costretta a vendere azioni di società pubbliche come la banca Caixa Geral de Depositos. Ulteriori dettagli (ad esempio i tassi di interesse che il Portogallo dovrà pagare sui prestiti ndr.) non sono stati resi noti.

Obiettivo: graduale riduzione del deficit

L’obiettivo del piano è far scendere il deficit del Portogallo al 5,9% del Pil quest’anno, al 4,5% nel 2012 e al 3% nel 2013. L’approvazione del piano da parte dell’Ecofin è attesa il 17 maggio. In tempo perché il Portogallo possa affrontare le scadenze di giugno (pari a circa 5 miliardi di euro) sul fronte dei titoli pubblici.

Uno degli obiettivi era un rapporto deficit/Pil del 4.5% nel 2012.

Ma tutti quei ragionamenti apparentemente così ben architettati nella loro complessità si sono infranti contro una realtà che proprio non sembrerebbe volersi piegare a seguire le teorie così brillantemente enunciate.

Milano Finanza. 2011-11-16. In arrivo 8 miliardi per il Portogallo, Pil 2012 visto in calo del 3%.

La troika formata da Commissione europea, Bce e Fmi ha dato oggi parere favorevole alla concessione della nuova tranche di aiuti al Portogallo prevista dal piano di salvataggio da 78 miliardi di euro varato l’anno scorso. “La seconda valutazione trimestrale del programma di assistenza economica e finanziaria del Portogallo si è conclusa con successo”, ha dichiarato il ministro delle Finanze portoghese, Vitor Gaspar, “su questa base verrà raccomandato il versamento della terza tranche di aiuti, dell’ammontare di 8 miliardi di euro”. Il Portogallo ha già ricevuto finora 31,3 miliardi di euro.

Secondo la troika il programma di salvataggio “è partito bene”, ma il suo successo finale dipende dall’attuazione di una serie di riforme strutturali finalizzate a liberare l’economia da un decennio di stagnazione. L’economia del Portogallo dovrebbe andare lievemente meglio del previsto nel 2011 ma per il 2012 è ora attesa una contrazione del 3%, superiore a quella precedente. Secondo la Troika, comunque, “l’economia dovrebbe recuperare, anche se a un ritmo graduale, nel 2013″.

L’implementazione del bilancio del 2011 è stata difficoltosa. “Nonostante i dati preliminari indichino che è stato centrato il tetto di fine settembre sul deficit, degli eccessi di spesa” mettono a rischio il raggiungimento dei target per il 2011, tanto che il Governo sta “cercando di negoziare un accordo con le maggiori banche per trasferire parte degli asset e delle perdite dei fondi pensionistici delle stesse al sistema di sicurezza sociale, in modo da centrare il target del rapporto deficit/Pil del 2011 al 5,9%”.

Per fortuna che il programma di salvataggio era «partito bene»: figurarsi cosa sarebbe successo se fosse partito male!

Siamo ora a marzo 2012 ed il deficit è salito a 799 milioni di euro dai 274 milioni dello stesso periodo del 2011. Ossia in un anno é salito di 2.91 volte (799/274) il valore atteso. Non male come previsioni. D’altra parte, la spesa pubblica è salita del 3,5% a 7,06 miliardi di euro, mentre le entrate sono scese del 4,3% a 6,26 miliardi di euro.

Se in un Paese in depressione è del tutto coerente che le entrate diminuiscano, l’aumento della spesa pubblica è più la conseguenza di comportamenti politici piuttosto che di reali necessità economiche.

Adesso si inizierebbe a vociferare «che il Paese rischi di fare la fine della Grecia».

Oggi, i Cds sul Portogallo erano quotati 1,287.26. E’ vero che gli spread sono in un leggero calo, ma questo è un parametro drogato dalle iniezioni di liquidità della Bce verso le banche lusitane.

Sole24Ore. 2012-03-21. Ok asta BoT in Portogallo, tassi in calo. Ma il deficit triplica. Bond a 10 anni vicini al 13%

Il Portogallo ha collocato sul 1,992 miliardi di euro in titoli del Tesoro a 4 e 12 mesi, con tassi d’interesse in netto calo rispetto a operazioni simili passate. Il Tesoro ha collocato 1,61 miliardi di euro in titoli a un anno a un tasso del 3,652% contro il 4,943% del 15 febbraio, più 382 milioni in buoni a quattro mesi a un tasso del 2,168% contro il 3,845% di quelli trimestrali emessi a febbraio. L’obiettivo era di collocare tra 1,5 e 2 miliardi di euro. La domanda è stata 2,5 volte superiore all’offerta per i titoli a 12 mesi e 6,7 volte l’offerta per quelli a 4 mesi.

Triplicato il deficit pubblico

Il deficit pubblico “core” del Portogallo è triplicato a gennaio-febbraio di quest’anno, con un calo delle entrate e un aumento della spese. È la dimostrazione che Lisbona fatica a restare dentro i target previsti in cambio dei 78 miliardi di euro di aiuti internazionali. Il deficit è salito a 799 milioni di euro dai 274 milioni dello stesso periodo del 2011.

Il ministro delle Finanze, Vitor Gaspar ha smentito che il Portogallo, alle prese con una dura recessione, stia sforando rispetto agli impegni presi nell’ambito del piano di salvataggio, ma si infittiscono le voci che il Paese rischi di fare la fine della Grecia. La spesa pubblica è salita del 3,5% a 7,06 miliardi di euro, inclusi i trasferimenti alle compagnie statali. Le entrate sono scese del 4,3% a 6,26 miliardi di euro. Nel 2011 Lisbona ha centrato il tetto del deficit al 5,9%, soprattutto grazie ai trasferimenti straordinari dai fondi pensione delle banche allo stato. Nel 2010 il deficit si è attestato al 9,8% del Pil e l’obiettivo per il 2012 è di scendere al 4,5%. Il rendimento dei bond governativi a 10 anni oggi è al 12,78%, in leggero calo rispetto al 12,86% di ieri.

Adesso configuriamo i termini del problema senza ascoltare la dotta scienza degli economisti, ma parlando semplicemente come si mangia. Sarà un conto che farà rabbrividire economisti, politici e buonisti (nonché una moltitudine di Lettori).

Anche senza contare la caterva di debiti che già ha (quello sovrano, delle imprese e delle famiglie), il Portogallo ha preso a prestito 78 miliardi e le sue entrate sono 6.26 miliardi di euro. 78/6.26 = 12.46.

Il solo debito che il Portogallo ha contratto con gli Enti internazionali assomma a 12.64 volte la totalità delle sue entrate. Non sembrerebbe essere un conto particolarmente complesso.

Brutta situazione, ne vero? Ma questo è solo l’inizio. In Portogallo oramai il sistema sanitario sta crollando ed é in netto aumento il tasso di mortalità. I pazienti arrivano troppo tardi in ospedale e sono sempre peggio curati a domicilio. In verità, qualcuno ne aveva già parlato.

Guardian. 2012-03-19. Portuguese death rate rise linked to pain of austerity programme.

Maria Isabel Martins got up at 5am to catch a bus from the eastern Portuguese country town of Portalegre to see a consultant in Lisbon about her diabetes. It is a 130-mile journey that takes three hours. It used to be free, but not any more.

“This is shameful. Now each visit costs me €44 (£36) and I have to come back in a few weeks,” the 53-year-old said, wheezing as she left the consultant’s surgery at the Santa Maria hospital.

There is a chart on the wall beside a machine that accepts credit cards. It shows the charges for seeing a doctor in one of western Europe‘s poorest countries, where opposition politicians blame budget cuts for a thousand extra deaths in February, 20% more than usual.

“They hiked the fees in January,” said the receptionist, pointing to the new charges for everything from jabs and ear washes to having stitches removed. “Now a visit to the emergency room costs €20 instead of €9. A consultant costs €7.50. People are angry.”

The health service is just one victim of sweeping cuts and increased charges for public services across Portugal. After the €130bn second bailout for Greece was signed off last week, bond markets switched their attention to southern Europe’s other failing economy.

A general strike on Thursday will show just how angry the Portuguese are about the terms of a €78bn EU and IMF bailout last May that has so far brought only pain and recession. Official forecasts are for the economy to contract 3.3% this year and unemployment to rise to 14.5%.

“They are driving the country towards disaster,” said Arménio Carlos, the leader of the General Confederation of Portuguese Workers, who adds that as health, electricity and public transport charges shoot up, the €432 monthly minimum take-home wage now dooms hundreds of thousands to poverty.

But popular reaction to the bailout has been stoical so far and the general workers’ union is not backing this week’s strike.

Many analysts believe Portugal is fated to follow Greece into a second bailout. The European commission put Portuguese debt at 110% of GDP last year, and the yield on 10-year bonds on Monday stayed above 13% – double the level considered remotely sustainable for it to borrow on its own. Goldman Sachs sees Portugal needing up to €50bn more until 2014.

“There will be a big debate about how to split the burden between the EU, creditors, the International Monetary Fund (IMF) and the European Central Bank,” Mohamed El-Erian, the chief executive of Pimco – the world’s biggest bond investor, with $1.36tn under management – told Der Spiegel at the weekend. “And then financial markets will become nervous, because they are worried about private sector participation.”

Analysts are split on whether private sector lenders will be forced to take a “haircut” to write off some of the country’s debt, as with Greece. “A haircut? Naturally, if you add in the private debt, Portugal’s debt is not sustainable given its future growth outlook,” said Edward Hugh, an economist in Barcelona.

The IMF representative in Lisbon, Albert Jaeger, said: “We believe that Portugal’s public debt is sustainable and we do not see a need for [private sector involvement].”

But Portuguese experts feel it will not be able to find financing on the markets in 2013, as planned, though the recently elected centre-right government of Pedro Passos Coelho is doing almost all it has been asked.

“It’s wishful thinking,” said Nuno Garoupa of the University of Illinois. He believes Portugal’s future inside, or outside, the eurozone will depend largely on the German government that emerges from elections next year.

Meanwhile, the future remains uncertain. Portugal’s growth rate has stayed stubbornly low for the past decade, although a recent surge in exports provides some hope.

It has been forced into a fire sale of blue-chip state assets, with a quarter of electricity grid operator REN sold to China State Grid for €387m last month. That came on the back of a €2.7bn deal for China Three Gorges to take 21% of the utility company Energias de Portugal.

Chinese companies are among the few ready to bid for Portuguese assets. The REN bid, presented jointly with Oman Oil, was the only one left on the table.

Even the oil-rich former colony Angola is being courted as Portugal tries to meet a privatisation target of €5bn set when the bailout was agreed. The TAP airline and airport operator ANA are up for sale, along with parts of the postal service, water utilities, state banks, the rail service and the oil company Galp.

With key decisions on Portugal’s future now being taken in Brussels or by the IMF, the historian Irene Flunser Pimentel has noted a growing nostalgia for the days of dictator António de Oliveira Salazar. “I worry that democracy is at stake,” she said. “The middle class is beginning to suffer and, when you don’t have a middle class, you are in trouble. This is becoming easy ground for a populist.”

In the meantime, the government blames flu and cold weather for February’s surprise jump in the mortality rate, but newspapers have begun to publish scare stories about people who claim to have been priced out of the public health service.

Pimentel says the Portuguese cannot be expected to remain stoical for ever. “I think it will explode eventually,” she said. “It is impossible for people to remain this passive.”

Ci si domanda: ma val proprio la pena di morire per l’ideologia del welfare virtuale?

Ci si domanda: ma economisti e stampa economica si rendono conto di quello che scrivono?

Ci si domanda: ma sarà mai possibile ripianare un debito di tale entità?

Ci si domanda: non sarebbe meglio far chiarezza e procedere ad una ristrutturazione ordinata del debito?

Ci si domanda: cosa si aspetta a tagliare le spese? Che arrivi il diluvio universale? Chi troppo vuole, nulla stringe.

Lasciamo ai Signori Lettori le risposte.

 

Federico II di Svevia

Fonte: http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Arabi/Federico2.html

Rinnovatore della mitica età dell’Oro per i suoi sostenitori. Il più temibile nemico della cristianità per i pontefici che lo avversarono. Ma Federico Il di Svevia fu molto di più: personaggio affascinante, dal grande spessore politico e culturale, seppe dare vigore e orgoglio alle genti del Meridione d’Italia. E le sue tracce sono oggi ancora visibili in tutto il Sud, dove si impongono con forza alla furia del tempo e della modernità. Federico nacque a lesi il 26 dicembre 1194 sotto una tenda innalzata nella piazza. Così aveva deciso sua madre, Costanza d’ Altavilla, figlia di Ruggero Il Normanno, Re di Sicilia, moglie dell’Imperatore Enrico VI di Hohenstaufen, della grande dinastia tedesca. Ella aveva già quarant’anni e questo figlio le era giunto dopo otto anni di matrimonio.

Il padre Enrico VI, figlio di Federico I Barbarossa, destinò a lui l’eredità del regno in Italia meridionale. Morirà nel 1197. Nel I 198, anno in cui scomparve anche Costanza, Federico a soli quattro fu incoronato Re di Sicilia, Duca di Puglia e Principe di Capua. E fu affidato alla tutela del Pontefice Innocenzo 111. Per lui il Papa avrebbe voluto un destino tranquillo, lontano dalla vita politica. Ma nelle vene di Federico scorreva il sangue degli Hohenstaufen, del Barbarossa, di suo padre Enrico IV. Il giovane non si sottrasse al suo destino. ricostruì l’Impero, costruì il primo Stato centralizzato, imbrigliò le ambizioni temporali della Chiesa e ammaliò il mondo con la naturalezza con cui compì quest’opera immane.

Incoronato Re il 26 dicembre del 1208, a quattordici anni, Federico mostrò subito di avere le idee chiare. I suoi primi pensieri volsero al Sud, dove la situazione era tutt’altro che facile. Durante gli anni della sua permanenza in Germania il regno di Sicilia era rimasto in balia dei comandanti militari tedeschi. Inoltre, feudatari e comunità cittadine avevano approfittato della debolezza della monarchia per estendere i loro domini e le loro autonomie. li primo obiettivo che egli si pose fu, pertanto, quello di rivendicare tutti i diritti regi che erano stati usurpati nel trentennio precedente. Si decise di confiscare tutte le fortezze costruite abusivamente in quegli anni, furono rivendicati i diritti dello Stato su passi, dogane, porti e mercati, per cui furono annullate le pretese dei signori locali e le esenzioni di cui godevano i mercanti stranieri. Sotto il controllo del re furono riportati anche i feudi, di cui fu vietata la vendita senza l’autorizzazione regia; e fu imposto l’assenso del sovrano per i matrimoni dei vassalli.

Ma contemporaneamente, Federico adottò tutta una serie di misure, inconsuete per una monarchia degli inizi del Duecento, per risollevare le condizioni economiche del regno, facilitando gli scambi e garantendo la sicurezza delle strade. Inoltre, volendo potenziare l’apparato burocratico-amministrativo dello Stato e avendo bisogno per questo di giuristi e di funzionari ben preparati, nel 1224 fondò a Napoli quella che è da considerare la prima Università statale del mondo occidentale (che prese il suo nome), concedendo facilitazioni di vario genere a coloro che volessero frequentarla e proibendo nello stesso tempo ai suoi sudditi di recarsi a studiare a Bologna o altrove. Ma l’impegno di Federico per le genti del Sud non si esaurì a questo. L’imperatore diede anche impulso alla Scuola Medica di Salerno, da Melfi promulgò le Costituzioni che diedero l’ossatura al suo Stato centralizzato, su una collina della Capitanata in Puglia, fece edificare, tra gli altri, il celebre Castel del Monte, che egli stesso aveva progettato, si dice insieme al Sole.

Innovativo anche in campo giudiziario, il sovrano di casa Hohenstaufen pose il criterio di equità al centro del suo impegno ad amministrare la giustizia senza eccezioni di sorta nel confronti di nessuno. Viene enunciato il culto della pace, di cui è garante il re, come riscontro consono della giustizia in un rapporto di armonica reciprocità. In questo compito i giudici svolgono, in nome del sovrano, una funzione pressoché sacra, un intento che viene confermato da alcune puntuali correlazioni: il giuramento imposto a tutti i ministri di agire con equità, l’irrigidimento dei criteri di selezione ed il forte impegno per elevare il livello culturale dei funzionari regi. Chi mette in discussione l’operato come chi disputa delle azioni sovrane, e per lui dei suoi ministri, commette sacrilegio. Per contrappasso con estrema severità è punito il ministro che nell’esercizio dell’ufficio devia dal mandato ricevuto. Da segnalare, infine, in campo economico, Nelle principali città del Sud la lotta di Federico Il all’ usura. (Napoli e Bari innanzitutto) c’erano dei quartieri ebraici ed erano gli ebrei a svolgere anche sotto il regno del figlio di Costanza d’Altavilla l’attività di prestare denaro con gli interessi. Federico non voleva che gli ebrei fossero vittime dei cristiani, ma non desiderava neppure il contrario. Decise allora di ricondurre le attività economiche degli ebrei sotto il controllo pubblico, accordando loro protezione, o meglio, imparziale giustizia e garanzia dei diritti, come a tutti gli altri sudditi del regno. Fu il primo sovrano europeo a far ciò. Nelle Costituzioni di Melfi con gli ebrei. Riconobbe del 1231 Federico sancì questo nuovo patto lecito il prestito ad interesse, ma stabilì il tasso del dieci per cento annuo. Protesse ed agevolò la florida comunità ebraica di Trani, ma concentrò in Puglia e Calabria tutta la seta grezza, e trasformò i tradizionali monopoli ebraici della seteria e della tintura in monopolio industriale dello Stato. Gli artigiani ebrei lavoravano su concessione di un privilegio regio che fruttava denaro all’erario… Federico morì nel castello svevo di Fiorentino la notte del 13 dicembre 1250. Non fu solo uomo politico, ma guerriero, filosofo, architetto e letterato: esempio ineguagliabile di uomo integrale.