Palestina, Siria e Iran, le crisi mediorientali si collegano?

Scritto da: G.Colonna
Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1869/Palestina-Siria-e-Iran-le-crisi-mediorientali-si-collegano

La situazione del Vicino Oriente diventa sempre più complessa, per l’intreccio nel quale si stanno collegando le diverse aree di crisi di una regione progressivamente libanizzatasi nel corso di un decennio: per rendersene conto è sufficiente una visione di insieme, che evidenza la gravità dei rischi che si stanno qui accumulando per la pace mondiale.
Iniziamo con le ragioni per cui Israele ha improvvisamente interrotto l’operazione Pillar of Defense (più precisamente Pillar of Cloud, “pilastro di nubi”, con riferimento ad un testo biblico): a quanto pare, gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a garantire con proprie truppe il controllo della Penisola del Sinai, il nuovo fronte meridionale che Israele ha ripetutamente indicato nel corso degli ultimi anni come una seria minaccia per la propria sicurezza, in quanto area “grigia” sfuggita al pieno controllo del governo egiziano, attraverso la quale passerebbero armi e munizioni destinate alle forze di Hamas nella Striscia di Gaza.
Ma lo Stato ebraico deve avere ottenuto anche altro in cambio dell’interruzione di un’azione militare della cui pericolosità in questo momento i vertici israeliani erano comunque consapevoli fin dall’inizio: molta attenzione si dovrebbe infatti prestare alla notizia, che il premier turco Erdogan ha voluto personalmente confermare durante una conferenza stampa, degli incontri ad altissimo livello fra esponenti dell’intelligence turca e israeliana tenutisi al Cairo nel corso delle trattative sulla tregua – un evento che deve essere motivato da ragioni molto solide, dato che interrompono il gelo calato sulle relazioni turco-israeliane dopo la strage della Freedom Flottilla.
Non è azzardato perciò pensare che la Turchia abbia definito degli accordi politico-militari con Israele sulla questione siriana e iraniana, alla vigilia dell’ormai deciso spiegamento dei missili Nato Patriot lungo il confine turco-siriano, una decisione che mostra la volontà occidentale di farla finita con l’imprevista tenace resistenza di Assad e dei suoi sostenitori, evidentemente più numerosi e motivati di quanto non si potesse inizialmente pensare.

Intervento occidentale in Siria?

I sintomi di un possibile intervento, sul tipo di quello attuato in Libia, si moltiplicano. Il 17 novembre, infatti, gli Usa hanno deciso lo spostamento verso le coste siriane e libanesi di un gruppo aeronavale di pronto intervento guidato dall’unità anfibia USS Iwo Jima. Il neo-eletto presidente Obama ha poi accolto la richiesta turca di schierare lungo il confine con la Siria le batterie di missili Patriot della Nato ed ora non rimane che l’approvazione, data per scontata, da parte della Nato stessa. Contemporaneamente, Obama ha anche autorizzato lo schieramento nell’area degli aerei da controllo elettronico Awacs, un fatto che in genere prelude al lancio di massicce operazioni aeree.
Il 23 novembre, invece, come annunciato pochi giorni prima, sono giunte al largo della Striscia di Gaza alcune delle più importanti unità della flotta russa del Mar Nero, che comprendono l’incrociatore lanciamissili Moskva, il caccia Smetlivy, le unità da sbarco Novocherkassk e Saratov, oltre al rifornitore di squadra Ivan Bubnov e al rimorchiatore MB-304, in attuazione di una decisione assunta dal governo russo l’11 novembre.
Il 3 dicembre, poi, lo stesso Putin avrà un attesissimo incontro con il premier turco Erdogan, il cui tema principale non potrà che essere la situazione siriana: ciò dimostra che il quadro pre-bellico che abbiamo poco fa sinteticamente descritto non è un’invenzione, ma rappresenta una concreta preoccupazione anche per il governo della Russia, l’unico paese presente nell’area ancora schierato in difesa del regime di Assad, insieme all’Iran.

L’Iran e la “linea rossa” di Obama

Il 24 novembre, appena entrata in vigore la tregua, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha telefonato al primo ministro di Hamas, Ismail Haniya, garantendo personalmente la continuità dei rifornimenti militari iraniani ai Palestinesi di Gaza, mentre, secondo i servizi segreti israeliani, il portavoce del parlamento iraniano Ali Larijani avrebbe incontrato il presidente Bashar Assad a Damasco il 23 novembre ed il 24 novembre il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, per concordare una politica di risposta comune a quanto si va preparando in Medio Oriente.
Poiché molti osservatori indipendenti ritengono che anche nell’attacco a Gaza fosse ben presente ai decisori israeliani l’obiettivo primario iraniano, per accettare la tregua è da presumere che Israele abbia avuto qualche contropartita relativa anche all’Iran.
Il 16 novembre, l’AIEA ha emanato il suo rapporto periodico, nel quale si afferma che “non si è raggiunto un accordo su di un approccio strutturato per risolvere le importanti questioni relative alla possibile dimensione militare del programma nucleare iraniano né ottenere l’adesione del governo iraniano all’accesso, richiesto dall’Agenzia, al sito di Parchin”.
Sulla base di questo rapporto, la cui analisi di dettaglio rivela per altro l’oggettiva assenza di elementi tecnici che dimostrino la prosecuzione di un programma nucleare militare da parte dell’Iran, la nuova amministrazione Obama ha lanciato un vero e proprio ultimatum, a cui la stampa occidentale non ha prestato tutta la dovuta attenzione. Il 28 novembre scorso, infatti, il rappresentante Usa nel consiglio direttivo di AIEA, il diplomatico Robert A. Wood, ha espressamente dichiarato: “Se entro marzo l’Iran non avrà iniziato un’effettiva cooperazione con l’AIEA, gli Stati Uniti lavoreranno insieme ad altri membri del consiglio per sviluppare un’azione adeguata e solleciteranno il consiglio stesso a riferire della mancanza di qualsiasi progresso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. (…) Non si può consentire all’Iran di ignorare all’infinito i suoi obblighi. (…) In poche parole, l’Iran deve agire subito”.
L’attenzione si appunta adesso sull’incontro di AIEA con l’Iran previsto per il prossimo 13 dicembre, sul quale, tuttavia, il diplomatico Usa ha già lasciato cadere una pesante ipoteca: “Ho i miei dubbi sulla sincerità dell’Iran”.
Ecco dunque la famosa red line (la linea rossa) temporale che Netanyahu aveva finora insistentemente chiesto all’amministrazione Obama e che il presidente Usa, non appena rieletto, si è affrettato a concedere allo Stato ebraico, probabilmente nella speranza, ora che si trova libero da condizionamenti elettorali, di poter operare con maggiore decisione sulla questione iraniana.

La seconda presidenza Obama e la strategia di potenza di Israele

La presa di posizione dell’amministrazione Usa contro il riconoscimento del nuovo status giuridico della Palestina all’Onu, dimostra una volta ancora che le amministrazioni americane, indipendentemente da uomini e partiti, seguono ormai pedissequamente le scelte israeliane. Il voto dell’Onu, infatti, da un lato rappresenta per lo Stato ebraico un reale pericolo politico, perché dà la possibilità all’Autorità Palestinese di svolgere un ruolo internazionale che non aveva più da decenni, con tutti i rischi che questo potrebbe comportare sul piano giuridico per le politiche israeliane di guerra preventiva, di assassinii mirati e di repressione delle popolazioni civili nei territori occupati.
Ma certamente rafforza la linea di Sharon e di Netanyahu, che considera superata la prospettiva degli accordi di Oslo. L’immediata risposta israeliana, di incrementare la costruzione di insediamenti ebraici a Gerusalemme est, chiara e diretta ritorsione al voto dell’Onu, dimostra che Israele prosegue nella strategia inaugurata nel settembre 2000 da Ariel Sharon con la passeggiata sulla spianata del “nobile santuario” (al-Haram ash-Sharif) di Gerusalemme, una strategia basata sull’uso della forza in difesa a oltranza dello status quo demografico e militare dello Stato ebraico.
L’impressione è che Israele abbia voluto colpire Gaza, partendo proprio dall’uccisione di Hamed Jabari, la personalità di Hamas con cui erano in corso in realtà trattative per consolidare la tregua, allo scopo di imprimere un’accelerazione alla soluzione complessiva delle crisi in atto: siriana, iraniana e palestinese insieme. Se è vero infatti che l’attuale momento presenta dei rischi non indifferenti per lo Stato ebraico nel dopo Assad in Siria e nel dopo Mubarak in Egitto, l’enorme instabilità che le cosiddette “primavere arabe” hanno impresso alla regione favoriscono la possibilità di assestare dei colpi decisivi per consolidare la posizione israeliana, senza più bisogno di un compromesso sulla Palestina.
La nostra ipotesi è che Usa e Turchia abbiano accolto il messaggio israeliano ed abbiano rassicurato Israele sul fatto che la soluzione di Gaza verrà da sola, dopo la caduta della Siria ed un possibile colpo chirurgico contro l’Iran che disarmerebbe definitivamente Hamas. In un progetto del genere, Israele e gli occidentali possono godere anche del sicuro consenso dell’Arabia Saudita che conta in tal modo di poter allargare la propria cintura di sicurezza non solo nel Golfo Persico ma anche in Siria e Libano, circondandosi di entità arabo-islamiche ideologicamente e finanziariamente sotto stretto controllo.
Gli sviluppi sul terreno dimostrano fra le altre cose la creazione di un “canale” di libero accesso per gli aerei israeliani dal Mediterraneo all’Iran, attraverso il sud della Siria e il Kurdistan. Nel primo caso, clarissa.it ha già raccontato che i “ribelli” siriani hanno distrutto una delle tre principali stazioni radar siriane, nota come M-1, posizionata nel sud del Paese, a copertura del confine con Israele, Giordania ed Arabia Saudita, oltre che del Libano meridionale, l’area presidiata dal movimento filo-siriano shiita Hezbollah: un evidente regalo allo Stato ebraico, oltreché alle forze aeree occidentali che potranno così operare indisturbate dalle basi aeree giordane e saudite.
L’area curda dell’Iraq settentrionale è di fatto già indipendente dal governo centrale di Baghdad al punto che questo ha dovuto creare un comando militare ad hoc per il nord del paese e schierare proprio nelle ultime settimane le proprie truppe nel distretto di Salahuddin, difronte a quelle kurde, mentre i colloqui tra il primo ministro iracheno Nuri al Maliki e il presidente curdo Massoud Barzani non hanno dato alcun risultato. Visti i buoni rapporti di Israele con il governo curdo, un altro tratto del percorso di avvicinamento aereo all’Iran è oggi disponibile in sicurezza per gli arei con la stella di David.
Il fallimento dell’interventismo occidentale e le esigenze di ridispiegamento delle forze statunitensi a livello mondiale stanno contribuendo in modo determinante a creare la storica opportunità per lo Stato ebraico di diventare, con la caduta dei suoi ultimi avversari, la vera potenza egemone in Medio Oriente, obiettivo lucidamente perseguito da trent’anni a questa parte.

Platone e il declino italiano

Fonte: http://www.mentecritica.net/

Platone, oltre ad essere un grande filosofo, è stato anche un acuto osservatore dello Stato, di come si sviluppa e dei suoi fondamenti.

Per quanto riguarda la democrazia, lui afferma che: «la democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria, ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a condizioni di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi sono determinate per lo più col sorteggio».

Sembrerebbe proprio quello che è accaduto in Italia dopo il fascismo: il re in esilio, i partigiani che sono saliti al potere raggruppati nei partiti principali come il Psi, Dc, PdA, etc e la successiva spartizione del potere e del territorio.

La democrazia però ha in sé i germi della sua malattia: si ammala di sé stessa perché diventa vittima della sua stessa libertà.

Platone, infatti, afferma che quando uno stato spesso confonde la libertà con la licenza, approfittando della libertà stessa ma svincolandola dal dovere nei confronti degli altri, si avvia ad un lento declino.

Una frase de La Repubblica, colpisce molto per la sua attualità: «In un ambiente siffatto, […] in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori».

Un testo del 370 a. C. descrive esattamente quello che è accaduto dal secondo dopoguerra ad oggi: un inesorabile discesa nell’egoismo individuale, nell’ingiustizia condivisa e accettata perché tutti ne guadagnano qualcosa, nell’assenza di meritocrazia e soprattutto nel connubio perverso che si instaura tra cittadini e i centri del potere.

Tutti i politici sono corrotti perché tutti i cittadini lo sono ma al tempo stesso si indigna in quanto si fa schifo di se stessa.

L’esito finale della democrazia, quando si ammala di anarchia e di indifferenza, è secondo Platone, la dittatura: «la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice. »

Il dramma dell’Italia attuale è questo: la democrazia è malata in tutti i suoi strati ma sapremo recuperare dal declino, senza affondare nel totalitarismo politico o come più probabile, economico-finanziario?

The Shard, il grattacielo ecologico di Renzo Piano

Fonte: http://www.soloecologia.it/12122012/shard-il-grattacielo-ecologico-di-renzo-piano/4836

L’architettura incontra la sostenibilità con The Shard, la “scheggia” progettata da Renzo Piano che si staglia nel cielo londinese. L’edificio, inaugurato nel luglio 2012, svetta nel cuore della City e con i suoi 310 metri è il più alto di tutto il Regno Unito. Ma questo non è l’unico record: è infatti al vertice anche degli edifici europei più elevati, ponendosi tra due grattacieli moscoviti, il City of Capitals e il Mercury City Tower.

The Shard sorge nella zona di Southwark e, oltre che per la sua altezza, si distingue anche per la sua sagoma, una piramide irregolare totalmente rivestita in vetro. La scelta di rivestire la struttura con oltre 11.000 pannelli ha diversi significati: innanzitutto, il vetro è un elemento naturale e riciclabile all’infinito e contribuisce a trasmettere l’immagine di un’opera di architettura attenta alla tutela ambientale; inoltre, i pannelli inclinati riflettono il cielo londinese e donano al grattacielo sfumature di luci e colori sempre diversi in ogni momento della giornata.

La costruzione del grattacielo ha richiesto circa tre anni di lavoro e ha contribuito a riqualificare e rilanciare l’area precedentemente occupata dalle Southwark Towers. La scelta di questa location per la nascita di The Shard non è casuale: ogni giorno la zona attorno al grattacielo è frequentata da circa 300.000 pendolari. Si tratta quindi di un punto in cui si concentra uno grandi attività, come sottolineato dallo stesso Piano, e la sua opera vuole simboleggiare proprio il dinamismo e l’energia londinesi.

Ma l’elemento che più caratterizza The Shard è la grande attenzione posta alla sostenibilità dell’edificio. Sorge infatti in posizione strategica all’interno della rete di mobilità pubblica della capitale: è a pochi passi da una stazione ferroviaria, a due fermate della metro e da ben 20 fermate di autobus. Secondo Renzo Piano, per ottenere in futuro città realmente sostenibili è necessario stimolare e favorire la scelta dei mezzi pubblici da parte della cittadinanza. Rinunciare all’auto privata e scegliere il trasporto pubblico per i propri spostamenti riduce le emissioni di CO2, decongestiona il traffico e riduce l’impronta ecologica di ciascuno.

The Shard è stato definito una città verticale e multifunzionale, dal momento che si compone di 72 piani abitabili che andranno ad ospitare appartamenti, uffici, un albergo a cinque stelle, negozi e ristoranti. Nel complesso le attività che saranno svolte quotidianamente all’interno del grattacielo richiedono un’enorme quantità di energia. Per questo, nella fase di progettazione del grattacielo è stata posta una grande attenzione al tema dell’efficientamento energetico dell’imponente struttura. Parte del fabbisogno energetico sarà coperto tramite l’utilizzo di fonti naturali: l’energia solare e quella eolica. Gli ultimi quindici piani saranno utilizzati come radiatore, mentre l’energia del vento sarà utilizzata per raffreddare gli ambienti, rendendo superfluo il ricorso all’aria condizionata – peraltro raramente necessaria a Londra.

E’ stato previsto anche un sistema di recupero dell’acqua piovana e della neve. Nel complesso, il grattacielo garantisce un risparmio energetico superiore del 35%. Inoltre, almeno il 20% dell’acciaio utilizzato per la sua costruzione era riciclato e la quasi totalità dei materiali di scarto derivanti dalle opere di realizzazione del grattacielo è stata a sua volta differenziata e riciclata.

Sulla cima del grattacielo, al settantaduesimo piano, sorgono un’ampia terrazza panoramica e un osservatorio dal quale è possibile godere di un panorama unico e a 360° su tutta la capitale.

Grazie alle sue caratteristiche The Shard promette di diventare uno dei fulcri della vita londinese, perciò chiunque abbia in programma di trascorrere le proprie vacanze a Londra dovrebbe includere una visita al grattacielo tra le tappe del proprio viaggio.

L’apertura al pubblico di The Shard avverrà nel 2013 e potrebbe costituire un’ottima opportunità di lavoro per chi sogna di trasferirsi sulle sponde del Tamigi o non troppo lontano da esse. Al suo interno saranno presenti decine di negozi e di attività commerciali, che daranno lavoro a centinaia di persone. Uno dei requisiti fondamentali che devono possedere quanti stanno meditando un trasferimento del Regno Unito è la perfetta conoscenza della lingua inglese. Chi ha bisogno di rinfrescare le proprie conoscenze può approfittarne per seguire uno dei corsi di lingua organizzati in tutte principali città d’Inghilterra. A questo proposito, ci sono decine di scuole a Londra in grado di fornire una preparazione su misura.

La farsa di Monti

Fonte: http://www.coscienzeinrete.net/politica/item/972-la-farsa-di-monti

Dunque Monti annuncia le dimissioni, ovviamente non subito, ma dopo l’approvazione delle leggi di stabilità e di bilancio. 

Ma tanto il lavoro che doveva fare lo ha fatto.

Chiaramente non mi riferisco al fantomatico risanamento economico che è stato la scusa per l’istallazione del governo “tecnico”. Quello, i numeri parlano chiaro, non c’è stato.

Anzi c’è stato un aggravarsi delle condizioni economiche reali italiane. Più disoccupazione, calo del PIL, più precariato. 

Il ruolo del governo Monti è stato quello di smantellare i principali fattori d’indipendenza italiana dagli oscuri poteri mondialisti. Sia i fattori economici, che psicologici.

Dal punto di vista economico, con la parità di bilancio in costituzione, l’adesione a MES e Fiscal Compact, Monti ha di fatto legato l’italia mani e piedi a sistemi di strozzinaggio gestiti da oscuri euroburocrati, che guardacaso vengono sempre pescati in circoli massonico-gesuitico-bancari. Quindi l’Italia non può più intervenire nè con la moneta, ne con la spesa pubblica per correggere e aiutare la propria economia. Quello che può fare, al massimo, è indebitarsi di più allo scopo di salvare le banche, e ogni volta che lo farà, sarà un euroburocrate ad imporre nuove tasse e balzelli o a tagliare la sanità un altro po’, per riprendersi i soldi.

La leva economica è stata usata anche per smantellare psicologicamente il sistema Italia: l’aumento dell’età pensionabile, la modifica all’articolo 18, i tagli a tutto ciò che è Stato sociale, dalla sanità alla scuola, mentre si sono trovati 4 miliardi di euro per il Monte di Paschi, 17 miliardi per gli F35, 10-20 miliardi per la TAV, eccetera eccetera. Tutte botte che fanno pensare agli italiani che non si possa fare altro che adeguarsi, o montare le ghigliottine in piazza. Ma agli italiani, fortunatamente, la ghigliottina fa paura più della povertà.

A chi, giustamente, non ha più fiducia nei partiti, complici di tutte le nefandezze sopra elencate, viene data come alternativa il movimento 5 stelle. Che alternativa non è.

In questa situazione Monti ha annunciato che dopo il patto di stabilità e la leggie di bilancio, darà le dimissioni. Potrà tornare a riposarsi su una qualsiasi delle sue poltrone d’oro: al senato (a vita!), alla Bocconi, al Bruegel, o in un ufficio di Goldman Sachs, lieto e tranquillo per aver fatto il lavoro sporco che nemmeno il più efferato dei partiti nostrani avrebbe potuto fare, senza la sospensione della democrazia che ancora stiamo vivendo.

Sospensione che di fatto, con l’adesione ai trattati di cui sopra, è ormai permanente.

Monti dice che va via perchè non ci sono più le condizioni. Ma forse intendeva dire che non c’è più gusto, avendo già fatto tutto…

Fiocchi come numeri

Fonte: http://andreamulas.wordpress.com/

Sarà la nostalgia del clima natalizio che avrà spinto il matematico Cliff Reiter a riprodurre in casa propria una “nevicata”. Non convinto infatti che la struttura affascinante e precisa nei minimi particolari dei fiocchi di neve sia riconducibile a calcoli  complessi, ha provato a ottenere dei cristalli con quelli che si definiscono automi cellulari. Il nome fuorviante non deve confondere perchè altro non sono che regole matematiche semplici che in modo ripetuto possono dare forma a modelli complessissimi, come l’architettura di queste opere d’arte naturali. Incredibile il fatto che Reiter sia riuscito a ottenere i fiocchi anche solo da due semplici parametri. Un vero matematico sa forse infondo che la risposta è sempre più semplice di quel che si crede.

Doha, arrivano inaspettate buone notizie sulla trattativa contro i cambiamenti climatici

Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=19320

Unep, le risorse ci sono già: spostare i 523 miliardi di dollari di sussidi alle fonti fossili verso la green economy

Maurizio Gubbiotti, responsabile dipartimento internazionale Legambiente per greenreport.it

Tutto ancora molto aperto in questa ultima giornata di negoziati a Doha, ma qualche avanzamento si profila e soprattutto non dovrebbe essere troppo lontano un accordo generale. Ne capiremo poi la portata, capace di garantire il proseguo del percorso di Kyoto 2, superando anche molte criticità sul fronte economico.

Il presidente della COP18, sua eccellenza Abdullah bin Hamad Al-Attiyah sembra riuscito davvero a convincere il rappresentante della Polonia, ad ammorbidire la contrarietà al Kyoto 2 e convincere circa la convenienza per tutti che si lasci Doha con qualche elemento di successo. D’altra parte, qualcuno ha notato la nuova linea aerea della Qatar Airways Doha-Varsavia, inaugurata proprio il 5 dicembre.

Si delinea una sorta di continuità legale tra il primo ed il secondo periodo di Kyoto, con un continuo cantiere in progresso su impegni chiari e delineati e sull’allargamento dei Paesi disponibili ad aderire a Kyoto 2, e cioè Unione Europea, Svizzera, Norvegia e l’Australia;  i quali però, tutti insieme – come più volte abbiamo ricordato – assommano non più del 15% delle emissioni totali. Positivo quindi il riconoscimento anche degli Stati Uniti della piattaforma di Durban come un’opportunità per negoziare un accordo per il 2020, applicabile a tutti, inserendo pure termini piuttosto inusuali per loro fino ad oggi, come equità.

Poi si parla di soldi, ed è su questo che si preannuncia un tirar tardi per questa sera, seppur anche qui pare l’accordo ci sia. La disponibilità a metterne c’è in primis dalla stessa Europa. Il percorso del Green Fund, deciso alla COP di Copenhagen e che avrebbe dovuto avere operatività immediata è stato molto accidentato. Era previsti dal 2010 al 2013 un fast track di 30 miliardi di dollari versati dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo per politiche di adattamento, per poi dare vita ad un Fondo di lungo termine da 100 miliardi di dollari/anno tra nuovi ed aggiuntivi al 2020. Invece si è arrivati qui con solo 3 miliardi di dollari, finalizzati alla struttura burocratica al Fondo, e quindi sembrava complicato trovare la quadra.

Intanto la Gran Bretagna ha però confermato il suo impegno per 2,2 miliardi di euro in due anni, e Svezia e Germania hanno annunciato di voler rilanciare. Si stanno delineando delle soluzioni sul mercato del carbonio che tengano conto di esigenze come ad esempio quelle della Polonia, che ha già fatto un accordo con il Giappone per la vendita delle eccedenze future. E dovrebbe dichiararsi soddisfatta anche la Cina, che aveva chiesto fin dall’inizio di questa Conferenza un impegno aggiuntivo da qui al 2020, e cioè il raggiungimento dell’obiettivo intermedio di 60 miliardi di dollari entro il 2015, di fronte alla garanzia di scadenzario, che alla fine del prossimo anno mostri quanto, come e quando i Paesi stiano pagheranno (e stiano già pagando).

Infine, in questi giorni più volte l’Unep ha ricordato che i fondi per la riconversione del sistema produttivo ci sarebbero e basterebbe spostare i sussidi ai combustibili fossili, 523 miliardi di dollari nel 2011, in direzione dello sviluppo sostenibile, della green economy, delle fonti rinnovabili. La Cina ad esempio, Paese che sta facendo la differenza nello sviluppo della green economy, nel suo 11° Piano quinquennale 2006-2011 ha investito 142 miliardi di dollari per migliorare l’efficienza energetica delle sue produzioni, dei quali l’83% derivanti da fonte privata.

Isola di Aogashima: il villaggio dentro al vulcano

Fonte: Aogashima Island – Living inside a Volcano ;  Aoga-shima volcano
Tradotto da: http://www.ditadifulmine.com/2012/12/isola-di-aogashima-il-villaggio-dentro.html

Se per voi vivere all’interno di un vulcano sembra una pura e semplice follia, gli abitanti dell’isola di Aogashima non sembrano pensarla allo stesso modo.
Aogashima (“isola blu”) è un’isola vulcanica che si trova a 358 km di distanza da Tokyo, e fa parte dell’arcipelago delle isole Izu. Tutte le isole di Izu sono di origine vulcanica, ma Aogashima ha una morfologia del tutto particolare: all’interno di una caldera larga 1,5 km che costituisce buona parte del perimetro dell’isola si trova una caldera vulcanica più piccola, Maruyama, che si solleva di circa 200 metri rispetto alla base del cratere che la contiene.
All’esterno della caldera più grande si trova il villaggio di Aogashima, amministrato dalla prefettura di Tokyo. I suoi 205 abitanti (dato del 2009) hanno a disposizione un piccolo porto, un eliporto e un piccolo supermercato/bar, e offrono ai pochi visitatori che si avventurano sull’isola attività di immersione subacquea e di trekking sulle pendici del vulcano.
La storia degli insediamenti umani su Aogashima è ancora incerta. La maggior parte dei suoi abitanti storici sono stati giapponesi, ed è grazie a loro che, durante il periodo Edo, fu possibile registrare le eruzioni del 1652 e del 1670-1680. La popolazione locale, nell’arco di parecchi secoli, non sembra mai aver superato le 300-400 unità.
Per raggiungere Aogashima ci sono solo due opzioni: tramite elicottero o via mare partendo dall’isola di Hachijojima. Il metodo consigliato sembra essere l’elicottero, dato che il porto non è attrezzato per ospitare ogni genere di imbarcazione.
Le condizioni di attracco al porto sono ancora più difficili quando l’isola viene colpita da una tempesta tropicale, rimanendo totalmente isolata dal mondo esterno ad eccezione di un collegamento radio e satellitare. Durante il periodo delle tempeste, c’è il 50% di possibilità che l’unica barca che raggiunge ogni giorno Aogashima non riesca nemmeno a lasciare il porto per le cattive condizioni del mare.
Sembra un posto da favola, perfetto per allontanarsi dalle noie della vita quotidiana e isolarsi felicemente dal genere umano, se solo non fosse che il vulcano che si trova sotto l’isola di Aogashima è attivo, e il suo ultimo evento eruttivo, esteso nell’arco di quattro anni, risale solo a poco più di 200 anni fa.
Durante l’evento vulcanico del 1785, 140 dei 327 abitanti dell’isola persero la vita. L’eruzione fu innescata da un terremoto che fece aumentare la pressione del vapore accumulato all’interno della caldera Ikenosawa, la più grande delle due. Nel 1781, uno sciame sismico scatenò la prima vera eruzione; successivamente, una grande fuoriuscita di lava nel 1783 costrinse gli abitanti ad evacuare l’isola, ma le case vennero nuovamente ricostruite qualche mese dopo ignorando completamente che l’intera Aogashima si stava preparando per la futura enorme eruzione che avrebbe ucciso buona metà della popolazione locale.

USA: Bisturi contro la spesa sociale

Fonte: http://selvasorg.blogspot.it/

Terapie della penuria  nella fase post-egemonica
Tito Pulsinelli
Il 3 gennaio prossimo a Washington taglieranno il bilancio di ben 1500 miliardi di dollari. La patata bollente è arrivata all’ultimo passaggio: per legge, quale che sia il governo in carica, deve armarsi di bisturi e tagliare. In modo “lineare”, scaglionato, a zig zag, alla Tremonti, alla moda europea? Non importa. Il circo mediatico ha coniato l’apposita metafora (abisso fiscale), sta lavorando sodo -alla Stakanov- per introdurla nel chiacchiericcio generale, poi ci vorrà azione. Beninteso, mette al bando ogni riferimento alla dimensione draconiana del salasso, soprattutto tace su come usciranno decimate varie burocrazie e l’istituzionalità della solidarietà sociale. Lo scricchiolio ricorda i suoni sinistri dei trhrilling
all’aprirsi dell’uscio da cui entra il killer: sarà seriale? La “narrativa” del regime è molto attenta ad eliminare ogni cosa che possa evidenziare il dissolvimento del cemento sociale, che sedimenta e coesiona forze sempre più centrifughe e conflittive. Vietato evocare il pathos lugubre del 1929.

La battaglia campale tra le lobby, per mettere al riparo dei tagli i propri committenti, sarà più simile a una guerra per bande tra i sottoscrittori che si aggiudicarono -o persero- l’asta presidenziale  della vigilia delle elezioni . Il Partito di Wall Street (PWS) filtra che ci sarebbe un pre-accordo tra le sue due componenti, in cui i repubblicani accetterebbero una riduzione dei fondi per i militari (500 miliardi) e qualche aumento simbolico delle tasse, mentre gli obamiani danno l’ok per la riduzione dei programmi sociali. Entrambi, poi, si affrettano a tranquillizzare la rispettiva clientela elettorale, invitando alla calma perchè l’effetto dei tagli si sentirà solo nel 2014. Viva il parroco.

A tutto questo, fa da sfondo scenografico il crollo del mito della globalizzazione e la proliferazione di iniziative volte ad ottenere referendum per la secessione, particolarmente forti e insidiosi in Texas e Vermont. Non il vecchio separatismo “ideologico”, ma secessione come legittima difesa dal caos crescente generato dai gruppi di potere elitari che hanno perso la bussola. Da apostoli della crescita infinita a inquisitori pro-carestia, nel volger di qualche lustro. Si fa strada la diffusa percezione d’una politica estera che gira a vuoto,  che si guarda l’ombelico e non cava un ragno dal buco in Iraq. Ancora abbagliata dal narcisismo -fine a se stesso- della Guerra al Terrorismo, che si appresta ad un’altra fuga in avanti. Ammassare risorse e tutti i mezzi militari disponibili, schierarli nel mare della Cina, per stringere un cappio al collo alle esportazioni di manufatti cinesi e all’importazione di materie prime.

Ancora una volta primeggia la tentazione di rispondere con mezzi militari a problemi che militari non sono. Gli Stati Uniti -e la sua protesi “occidentale”- sono in piena fase post-egemonica. Pertanto è riduttivo, pressocchè illusorio, continuare a pensare in termini di “crisi economica”, risolvibile con ginnastiche finanziarie prelibate soltanto per le elites. E’ un processo che sta dissolvendo basi, legami e valori che sono stati la ragion d’essere di un’epoca storica e d’un modello che tracollò per superbia ed estremismo, proprio quando scomparve l’antagonista sovietico. Riuscirà l’oligarchia a scaricare sul popolo minuto metropolitano il costo dei suoi limiti? Riusciranno ad esportare nelle latitudini ex-coloniali il peso totale del proprio fallimento storico? Ai postumi l’ardua sentenza. Tra la defunta crescita infinita e la crescita con redistribuzione, in Sudamerica e negli altrove emergenti, si inclinano verso la seconda opzione.

Un secondo sito vichingo nelle Americhe

Fonte: http://ilfattostorico.com/

Patricia Sutherland (giacca arancione) scava un potenziale sito vichingo (David Coventry, National Geographic)

Negli ultimi 50 anni – dopo la scoperta di un sito vichingo sull’isola di Terranova – archeologi di tutto il mondo hanno esplorato la costa orientale del Nord America alla ricerca delle tracce lasciate dai vichinghi.

Finora le ricerche non avevano portato a niente di certo, ma ora l’archeologa Patricia Sutherland ha annunciato la scoperta di nuove prove di un secondo avamposto vichingo nelle Americhe dopo L’Anse aux Meadows.

Scavando tra le rovine di un antico edificio sull’isola di Baffin, molto al di sopra del Circolo Polare Artico, un team guidato da Sutherland, professoressa di archeologia alla Memorial University, ha trovato alcune coti (le pietre usate per affilare le lame) molto intriganti. Le tracce di leghe di rame, come il bronzo, lì ritrovate, erano materiali noti ai vichinghi ma sconosciuti tra gli indigeni dell’Artico.

Gli archeologi sanno da tempo che i vichinghi salparono verso il Nuovo Mondo intorno all’anno 1000. Una famosa saga islandese racconta le gesta di Leif Eriksson, un capo vichingo dalla Groenlandia che navigò verso ovest in cerca di fortuna. Secondo la saga, Eriksson si fermò sull’isola di Baffin – che lui chiamò Helluland, una parola norrena che significa “Terra delle Pietre Piatte” – prima di dirigersi a sud verso Markland (probabilmente il Labrador) e la più ospitale Vinland (forse Terranova).

Negli anni ’60, i ricercatori norvegesi Helge Ingstad e Anne Stine Ingstad, avevano scoperto e scavato l’accampamento vichingo a L’Anse aux Meadows, sull’isola di Terranova, il primo avamposto vichingo accertato nelle Americhe. Datato tra il 989 e 1020, il campo vantava tre sale e un assortimento di capanne per la tessitura, la lavorazione del ferro e la riparazione delle navi.

Nel 1999, Sutherland aveva già notato due insoliti pezzi di corda scavati in un sito dell’isola e conservati in un museo canadese. La tessitura dei fili assomigliava poco a quella praticata dai cacciatori artici per il cordame; era invece identica a quella usata dai vichinghi nella Groenlandia del XIV secolo.

Le successive analisi dei reperti dell’isola conservati nei musei hanno portato all’identificazione di altri filati vichinghi, di bastoncini di legno usati per i conteggi nelle transazioni commerciali, e decine di coti vichinghe.

I manufatti provengono da quattro siti, che vanno dal nord dell’isola di Baffin al Labrador settentrionale, (1.600 chilometri di distanza). I cacciatori artici indigeni, conosciuti come il popolo Dorset, si era accampato in ciascuno dei siti, aumentando la possibilità di un contatto amichevole con i Vichinghi.

Incuriosita, nel 2001 Sutherland ha riaperto gli scavi presso il sito più promettente, un luogo conosciuto come valle di Tanfield, scoprendo tracce lasciate dai vichinghi: frammenti di peli di ratti del Vecchio Mondo, un osso di balena simile a quelli utilizzati in Groenlandia per tagliare le zolle; grosse pietre che sembrano essere state tagliate e modellate da degli europei, e altri filati e coti vichinghe. Anche le rovine di un edificio in pietra sembrano avere una notevole somiglianza con quelle in Groenlandia.

Tuttavia, alcuni ricercatori sono rimasti scettici. La maggior parte delle datazioni al radiocarbonio ottenute da archeologi precedenti avevano suggerito che quella valle fosse abitata molto prima dell’arrivo dei vichinghi. Ma, come sottolinea Sutherland, il sito mostra segni di occupazioni diverse, e una delle datazioni indica il XIV secolo, quando i coloni vichinghi stavano coltivando la vicina costa della Groenlandia.

Il cordame fatto alla maniera vichinga ritrovato sull’isola di Baffin (National Geographic)

Cercando di risolvere il mistero, Sutherland ha fatto analizzare più di 20 coti al Geological Survey of Canada che, utilizzando una tecnica nota come spettroscopia a dispersione di energia, ha rilevato striature microscopiche di bronzo, ottone e ferro fuso – chiare prove della metallurgia europea.

L’ipotesi di Sutherland è che esistesse una rete commerciale transatlantica tra i vichinghi, che portavano metalli e oggetti di legno, e i popoli artici, che in cambio davano del pregiato avorio di tricheco e morbide pellicce.

Project manager: il lavoro più antico del mondo!

Scritto da: Maria Bianca Semeraro
Fonte: http://www.liberamenteonline.info/

 

Il project manager è una persona responsabile del successo complessivo di un progetto. Questa è la comune definizione che ognuno di noi più o meno visualizza nella sua mente quando sente questo termine. Ma per “progetto”, cosa intendiamo? Esistono progetti a breve, a lungo, progetti di vita, progetti lavorativi, progetti altrui …  E il project manager? Che problemi risolve? In altre parole, questa figura fa quello che ognuno di noi ha fatto e fa continuamente: risolvere problemi di ogni tipo!
Siamo coinvolti in progetti sin da piccoli: recite scolastiche, compiti, crescere e forse, proprio per questo, sarebbe opportuno iniziare a studiare fin da piccoli quali sono le “tattiche” giuste per affrontare ogni situazione. Questo approccio è già attuato in USA dove nelle scuole elementari viene insegnato il giusto metodo per lavorare ad un progetto e in tal senso di sta muovendo anche la Comunità Europea. Nell’agosto 2007, infatti, sono state recepite le “norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione” secondo cui, al termine della scuola dell’obbligo, i ragazzi devono possedere propriamente  8 competenze di tipo logico, matematico, sociale e storico.
1.    IMPARARE AD IMPARARE (i ragazzi devono essere capaci di sviluppare un apprendimento significativo)
2.    PROGETTARE ( definire le priorità, gli aspetti critici, controllare l’avanzamento del lavoro, mettere in atto correttivi appropriati)
3.    COMUNICARE (comprendere e trasmettere i diversi linguaggi)
4.    COLLABORARE E COOPERARE (contribuire all’apprendimento comune e condividerlo)
5.    ETICA (agire in modo responsabile e rispettare gli altri)
6.    RISOLVERE I PROBLEMI (costruire e verificare ipotesi, confrontare dati, saper misurare gli impatti delle diverse soluzioni)
7.    COLLEGAMENTI E RELAZIONI (saper individuare i rapporti causa-effetto, coerenze ed incoerenze che possono influenzare il percorso)
8.    INFORMAZIONI (acquisire ed interpretare l’informazione in maniera critica valutando la credibilità e distinguendo i fatti dalle opinioni)

Probabilmente, imparare a gestire queste competenze fin da piccoli sarebbe un gran vantaggio di tipo personale e collettivo dato che questo approccio è facilmente applicabile ad ogni ambito e ad ogni circostanza.