Lotta al junk food

Scritto da: Silvia Reginato
Fonte: https://oggiscienza.wordpress.com/2015/01/30/lotta-al-junk-food/

4659262210_288b509d2a_zSPECIALE – Il sovrappeso e l’obesità sono argomenti di salute pubblica tutt’altro che trascurabili, sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale la maggior parte della popolazione mondiale vive in nazioni dove l’obesità e il sovrappeso, per l’appunto, uccidono più della malnutrizione. Stando ai recenti numeri riportati dall’OMS l’obesità a livello globale è duplicata rispetto al 1980. Nel 2014, il 39% della popolazione adulta mondiale era in sovrappeso e il 13% obesa. I numeri più preoccupanti riguardano i bambini: nel 2013 si contavano 42 milioni di obesi sotto i cinque anni.

Le ricadute socio-sanitarie e economiche di questo problema sono notevoli, per questo diversi Paesi hanno attuato, o pensano di farlo, politiche alimentari ad hoc per cercare di arginare il problema. Ad essere colpiti in primis, come prevedibile, bibite gassate, energy drinks e cibo spazzatura, il cosiddetto “junk food”.

Tassa sul junk food: utile o no?

La prima nazione ad aumentare le tasse su tutti gli alimenti contenenti zucchero fu la Norvegia, già nel 1981, seguita da Australia, Ungheria, Danimarca e Francia. Un caso interessante da analizzare riguarda proprio l’Ungheria, che ha introdotto nel settembre 2011 un sistema di tassazione contro gli alimenti contenenti grassi saturi, zuccheri e caffeina. Il tasso di obesità in territorio ungherese è di oltre il 18%, contro una media europea del 15%, mentre l’aspettativa di vita è inferiore a quella comunitaria. Anche se si dovrà attendere ancora qualche anno per capire gli effetti a lungo termine che questa legge sta avendo sulla salute degli ungheresi, si possono già contare gli effetti più immediati. Al fine di evitare l’aggravio delle accise, infatti, ben 3 aziende su 10 hanno riformulato i proprio prodotti, eliminando gli ingredienti tassati, mentre circa il 70% ha ridotto i livelli di zuccheri, caffeina e sale. L’aumento dei prezzi ha, inoltre, sfavorito i consumi di queste categorie di prodotti, che sarebbero diminuiti di circa il 25-35%. Ultimo aspetto, ma non meno importante, con il denaro derivato dall’aumento delle tasse – circa 68 milioni di euro – sono state finanziate campagne di promozione per una corretta educazione alimentare. La Danimarca, con una tassa che colpisce gli alimenti con un contenuto di grassi saturi superiore al 2,3%, prevede di diminuire, o se non altro di non aumentare, la tassazione sui redditi dei lavoratori. Lo stesso in Germania, dove si sta discutendo la soda tax, un aumento dell’IVA per tutti gli alimenti che contengono più di 275 calorie ogni 100 grammi. Il Parlamento del Messico, infine, paese con un altissimo tasso di obesità e di incidenza di diabete giovanile, ha approvato una legge in cui si stabilisce l’innalzamento dei prezzi di circa l’8% per gli alimenti ricchi di grassi, sale e zuccheri e di 50 centesimi di euro per ogni litro di bevande zuccherate. In Italia fu il ministro della Salute Balduzzi a proporre, nel 2012, di introdurre una tassa sulle bevande gassate, proposta che fu aspramente criticata e infine bocciata. Da allora niente di significativo è stato fatto nel nostro Paese per limitare l’uso di cibo “spazzatura”.

Le perplessità sull’utilità di queste azioni legislative non mancano. Servono davvero a ridurre il consumo di junk food e a migliorare la salute? Secondo gli scettici la riposta è no. Aggiungere una tassa di pochi centesimi su una bevanda zuccherata o su un hamburger servirebbe solo a prelevare più soldi dalle tasche dei cittadini, senza avere in realtà un reale effetto sulle loro abitudini alimentare. Questa tesi è sostenuta da un articolo apparso sul British Medical Journal, che riporta l’opinione emersa dalla 65esima Assemblea Mondiale sulla Salute svoltasi a Ginevra nel 2012: solo un aumento della tassazione pari al 20%, unito a sussidi per l’acquisto di cibi “sani”, potrebbe portare qualche beneficio alla salute pubblica.

Domande che fanno riflettere e mense scolastiche

Quali allora le possibili alternative per disincentivare il consumo di alimenti non salutari? Uno studio di qualche anno fa, pubblicato sull’American Journal of Public Health, ha analizzato gli acquisti di 400 bevande da distributori automatici posti in diversi centri commerciali a Baltimora. I ricercatori hanno poi affisso cartelli agli stessi distributori con domande del tipo: «Sai che per smaltire le calorie di una bottiglia di bibita zuccherata o di succo di frutta occorrono circa 50 minuti di corsa?», «Sai che una bottiglia di bibita zuccherata o di succo di frutta fornisce circa 250 calorie?». Questo è stato sufficiente a ridurre di circa il 50% il consumo di energy drinks e bevande zuccherate, a prova del fatto che una corretta informazione, più che un aumento dei prezzi, può influenzare positivamente le nostre abitudini alimentari.

Infine, un aspetto da non sottovalutare assolutamente, secondo le ultime ricerche epidemiologiche, è l’importanza delle corrette abitudini alimentari da promuovere sin dall’infanzia, dedicando sforzi e attenzioni alle mense scolastiche. Un’indagine  sulla ristorazione scolastica negli Stati Uniti pubblicata su JAMA Pediatrics ha dimostrato che più è sano ed equilibrato il cibo proposto nelle mense scolastiche, minore è la percentuale di obesità registrata tra gli studenti che la frequentano. In Italia esistono linee guida di riferimento per la ristorazione scolastica, emanate dal Ministro della Salute nel 2010, che promuovono una dieta mediterranea ed equilibrata ma non sono obbligatorie. Questa quindi potrebbe essere, insieme a una corretta informazione rivolta a giovani e famiglie, una strada percorribile per promuovere una sana consapevolezza alimentare.

ISIS e dintorni: prove tecniche per l’invasione e la divisione della Libia

Fonte: http://etleboro.blogspot.it/

Roma – La pubblicazione dell’ennesimo filmato dal montaggio cinematografico dell’ISIS fa scattare la trappola dell’intervento militare estero in Libia, ponendo così le basi per la divisione e la spartizione del suo territorio tra i gruppi di interesse da tempo schierati. L’esercito di Al-Sisi, dietro il sostegno di Emirati Arabi e Russia, è pronto ad invadere il confine occidentale, mentre le basi aeree egiziane nella notte hanno bombardato presunti punti logistici dell’ISIS, appena poche ore dopo l’annuncio dell’allarme generale per mettere in assetto da attacco gli Apache e gli F16 per un immediato attacco della Libia. L’annuncio del Presidente egiziano parlavano di possibile attacco una volta avuto il via libera dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come riserva di prendere contromisure di offensiva per vendicare la strage dei 21 cittadini egiziani copti sequestrati. Nei fatti l’Egitto ha anticipato ogni mossa, in quanto nella notte sono iniziate le manovre di rullaggio dei caccia, cominciando a bombardare la zona costiera di Derna, non molto lontano dal confine occidentale con la Libia.

Potrebbe essere questo il risultato di un patto scellerato raggiunto a Minsk con la Russia, che lascia a Mosca la possibilità di fare da regista della ‘balcanizzazione’ dell’Ucraina, a fronte della disponibilità di Putin a non ostacolare una possibile risoluzione dell’ONU per la Libia. In tal caso, la cosiddetta “coalizione anti-ISIS” avrebbe il via libera ad intervenire e spartirsi le risorse libiche, oltre che a riattivare i canali di traffico di armi per alimentare i conflitti perenni del Medio Oriente. Quanto sta accadendo all’Ucraina non è molto distante dal patto di non-aggressione di Hitler e Stalin, con la ripartizione della Polonia, la cui attualità ritorna oggi per salvare le commesse di Mistral e Alstom, come anche i contratti energetici e industriali delle aziende tedesche, forse anche il South Stream. Questo la dice lunga sul motivo per cui François Hollande e Angela Merkel si siano arrogati il diritto di trattare con Mosca a nome dell’Europa, senza nessun mandato formale da parte chi “non aveva più alcuna credibilità” dinanzi alla controparte. La stessa potenza sta ora chiedendo all’Italia di trattare sulla Libia, nel tentativo di creare un fronte comune sull’intervento militare di “terzi paesi” sotto l’egida dell’ONU. A questo punto, non è molto difficile capire che a tenere le fila di queste trattative sommerse siano proprio gli Stati Uniti, che stanno inducendo i Paesi europei ad esporsi in prima persona per stabilizzare quei conflitti scatenati e fomentati da lobbies senza Stato-nazione. A tale scopo, Washington ha simulato delle minacce trasversali, esasperate sino all’inverosimile, che stanno creando lo spettro del terrorismo nel cuore dell’Europa, spingendo la guerriglia sino ai suoi confini più prossimi del Mediterraneo e dei Paesi Baltici. L’obiettivo di fondo è proprio quello di far credere ai governi europei che l’UE dovrà rimanere una costola della NATO, seguendo le sue leggi economiche e militari, impendendo così nei fatti la creazione di un terzo blocco politico che possa trattare con Russia e Cina. Ed infatti ha indotto gli Stati del Baltico a credere che saranno invasi dall’esercito russo, pronto a sfondare tutti i suoi confini per riaffermare l’Unione Sovietica.

Allo stesso modo, sono state azionate delle forze per sbloccare lo stallo nel mondo arabo, creando una macchina di propaganda terroristica senza confini, capace di “comparire” ovunque puntando una bandiera, e di colpire qualsiasi obiettivo con efferatezza e freddezza. La stessa mossa egiziana, emulando perfettamente la Giordania – che ha sferrato dei bombardamenti unilaterali per vendicare l’uccisione del suo pilota – fornisce qualche indizio in più sulla natura di un’organizzazione terroristica sorta dal fallimento di Al-Qaeda contro Assad, che conta tra le sua fila personaggi che hanno avuto contatti con funzionari americani, e che non scopre il viso dei suoi militari. E’ anche strano che la loro tecnica di propaganda audio-visiva sia eccezionalmente migliorata, passando da una semplice telecamera ad un montaggio post-produzione, con tanto di regia e fotografia, testi e sceneggiatura. La propaganda che va ad alimentare, fa dell’ISIS un’organizzazione controversa, con logistica e tecnica militare, ma con manodopera di basso profilo. Sono infatti ben poche le fonti che hanno intravisto sui campi di scontri quei miliziani così fieri che compaiono nei video diramati in rete, perché in prima linea vi sono i soliti mercenari-schiavi assoldati o sequestrati. Eppure i media occidentali, nonostante non abbiano uomini sul campo, sono i più informati, anzi fin troppo bene informati, riuscendo così a seguire, se non anticipare le prossime mosse dei terroristi.
Ed è proprio l’ISIS a fare la differenza in Libia, perché senza di esso la situazione resterebbe di scontro perenne tra le guerriglie e le polizie private, con due Governi e due Parlamenti (Tobruk e Tripoli), un esercito riconosciuto affiancato da una formazione paramilitare supportata da Emirati e Occidente (ndr. Khalifa Haftar) che si oppone al movimento sovversivo di Fajr Libia che gode del sostegno del Qatar, oltre agli eserciti rimasti fedeli a Gheddafi (come quello di Zintan) che continuano una propria guerra, per riacquisire una posizione. E’ questo lo spaventoso spettro della grande “opera diplomatica” della deposizione del Colonnello, gettando il caos nella regione per consentire ad altri ampio spazio di manovra per i propri traffici: armi, mercenari, petrolio, e droga,e quant’altro ha da offrire il mercato libico. Lo scenario è ancor più complesso, considerando che Al-Sisi si sta preparando ad attaccare “formalmente” la Libia, mentre continua quello silenzioso e invisibile, in atto da mesi a sostegno dell’esercito di Haftar e di recente in maniera più intensa lungo i confini. Armato “sino ai denti” grazie a contratti bellici miliardari “piovuti” dalle mani di Francia e Russia, Al-Sisi potrebbe non fermarsi dinanzi a questo bluff dell’ISIS, e quindi andare fino in fondo “per conto di terzi”. Quello stesso esercito che non ha esitato a far fuoco sulla folla per fermare la Fratellanza musulmana, ha deciso di accorrere in “vendetta” dei copti, nonostante l’Egitto li abbia sempre perseguitati e sterminati. E’ evidente che è tutta una grande farsa quella di Al-Sisi in difesa della cristianità minacciata dallo Stato Islamico. L’intervento egiziano, con o senza il benestare dell’ONU, innescherà dei meccanismi di reazione dalle conseguenze imprevedibili, ma comunque sotto gli schemi di una guerra non convenzionale.
Lo stesso monito d’allarme giunge in queste ore dalla Tela di corrispondenti a Tripoli, circa la pericolosa escalation posta in essere da molteplici forze schierate, pronte a dividere in tre parti parti, che fanno riferimento a Tripoli, Bengasi e Murzuk, ciascuna dietro il sostegno di distinte lobbies. Come anticipato dall’Osservatorio Italiano, all’immediato scoppio dei primi scontri a Tripoli, “l’obiettivo della Francia e dell’Inghilterra era sin dall’inizio quello di dare un nuovo Stato alla Total e alla BP, e per far questo hanno incendiato tutto il Nord Africa. Il problema è che, una volta innescato, questo meccanismo infernale non si fermerà, e nuove rivolte si preparano in Siria, ma se si arriva alla Giordania non si torna più indietro. D’altro canto, occorre tenersi pronto al contraccolpo, che si traduce nella reazione dei Governi aggrediti con il terrorismo. Sono molte le reti create dalle intelligence occidentali nei Paesi difficili da stabilizzare e da controllare, e una volta che vengono spezzate e ‘abbandonate’ diventano armi micidiali e imprevedibili”. All’indomani dell’incursione franco-britannica, l’Osservatorio Italiano avvertiva sulle pericolose derive della destituzione di Gheddafi (si veda La Repubblica Cirenaica, il nuovo Stato di Total e BP), considerando “l’attacco aereo solo la prima fase della totale destabilizzazione del regime di potere in Libia, che è stato infatti trasformato in terreno da sciacallaggio per le milizie armate, al soldo di società private. Nel tentativo di prevaricare l’una sull’altra e prendere il controllo delle riserve petrolifere, delle infrastrutture energetiche e logistiche, in questi anni di transizione si sono dilaniate a vicenda, foraggiate da molteplici fronti, come Qatar, Emirati Arabi, Arabia Saudita, ma anche dai cartelli petroliferi e delle armi. La Libia non è più uno Stato, bensì una terra di nessuno da conquistare. E’ ovvio che questa nuova guerra può essere un passo falso per l’alleanza franco-britannica, perchè questa politica della Regionalizzazione – una sorta di evoluzione della balcanizzazione che porta alla scomparsa degli Stati Nazione – può essere un’arma a doppio taglio, portando la guerra sino in Europa. Infatti non esistono solo Palestina, Cisgiordania, Kurdistan, Sangiaccato, ma anche Corsica, Scozia, Paesi Baschi, Fiandre. All’Italia ora non resta che tamponare una crisi che è solo agli inizi“. scriveva ancora l’Osservatorio, citando proprie fonti presenti sul territorio libico.
Dinanzi a questo scenario, il gioco-forza del Governo italiano è sin troppo azzardato, evidentemente spinto a trattare nel Nord Africa al posto degli Stati Uniti, considerando che la diplomazia americana ha perso del tutto la propria credibilità in questa regione. L’Italia, infatti, non è in grado di gestire un conflitto nel cuore del Mediterraneo e nelle immediate prossimità delle sue coste, come se fosse il conflitto nei Balcani. La sua diretta esposizione serve oggi a coprire chi sta già tramando per subentrare ad essa, e si avvicinano sempre più come belve affamate. Oltre all’Egitto, non dimentichiamo che la Francia ha già mosso le sue navi per manovre tecniche nel Mediterraneo mentre da mesi reclama il “diritto” a guidare una missione anti-terrorismo nelle metodologie dell’attacco in Mali. Una prerogativa solo “temporaneamente” fermata dagli eventi di Charlie Hebdo, ma le minacce alla raffineria Total potrebbero essere sufficienti ad inviare un contingente. In realtà, il territorio libico è stato già infiltrato da forze esterne e contractor, che stanno giocando un ruolo sporco nella formazione di forze di sicurezza private e auto-investite di autorità. Difficilmente l’Italia riuscirà a conservare le proprie posizioni e a prevenire gli attacchi fratricidi dei propri alleati. Nella sua posizione dovrebbe arretrare e limare le proprie dichiarazioni, in quanto vengono strumentalizzate e mal interpretate dai media arabi, che stanno gradualmente innescando una campagna mediatica di sciacallaggio. Del resto, in Paesi così tormentati non si può usare la teoria della democrazia e neanche si può pretendere di riuscire a mantenere uno stato di guerra per altri due anni, il tempo di creare un porto franco attraverso il quale riuscire ad armare l’Africa e l’Ucraina.

06 febbraio 2015

L’onda anomala del Balkanistan

Banja Luka – Dopo un periodo di silenzio, è stata riattivata la macchina della disinformazione che sta smistando tra i media locali controverse analisi e pareri sui possibili scenari connessi alla diffusione del radicalismo islamico nei Balcani. Quella che un tempo veniva chiamata Trasversale verde – che storicamente collegava la Croazia sud-occidentale, la Bosnia e tramite il Sangiaccato, il Kosovo e l’Albania, sino alla Tracia orientale e alla Turchia – viene oggi definita Balkanistan, da intendersi come regione dei Balcani come parte del Califfato islamico. A questo proposito, in una rocambolesca coincidenza, sono comparse delle bandiere dell’ISIS su una casa del villaggio di Gornja Maoca – nota sede di una piccola comunità di wahhabiti, ben conosciuta dai servizi di intelligence locali. Tuttavia la notizia è giunta nella redazione di Reuters e Daily Mail prima ancora che nell’Agenzia di Investigazione (SIPA). Gli agenti non hanno fatto in tempo a raggiungere la casa abbandonata su cui erano state esposte le quattro bandiere, che il tabloid britannico  aveva già pubblicato le foto, per cui alle forze dell’ordine non è rimasto che constatare la rimozione delle stesse, mentre i presunti combattenti si sono prestati ad interviste e reportage dei giornalisti accorsi.
A questo punto, da oggi in poi, non possiamo che aspettarci una valanga di teorie, ipotesi e sospetti sulla presenza dell’ISIS in Bosnia, il tutto per creare sempre maggiore confusione e depistaggi, in un terreno fertile per questo tipo di propaganda, ma allo stesso tempo fragile e ferito. Le sfumature delle teorie propagandate sembrano cambiare, con toni più aggressivi e violenti, ma la corrente di fondo rimane immutata, perché i portavoce della propaganda del terrore, che si avvicendano da oltre vent’anni, sono sempre gli stessi. Nel grande coro dei passacarte si sono distinti Tanja Topic, analista di Banjaluka, Vlatko Cvrtila, esperto di geopolitica di Zagabria, Marko Attila Hoare, storico presso la Kingston University, nonché Tihomir Loza, giornalista croato che vive a Londra esperto su Paesi in transizione, Danko Plevnik giornalista croato, oppure Zarko Petrovic, direttore del Centro Internazionale per la sicurezza – ISAC foundation. A questi si uniscono talvolta Dzevad Galijasevic, come anche Darko Trifunovic, affiancato dall’analista Milan Mijalkovski, che insegna presso la Facoltà della sicurezza di Belgrado, mentre Domagoj Margetic ha lasciato l’Islam per fare la guerra alla corruzione.
E’ comunque difficile stilare l’intera lista degli analisti “occasionalmente volontari” per associazioni e organizzazioni createsi negli ultimi vent’anni nei Balcani. Molte di esse sono sparite così come sono nate, tante ne esistono ancora, ma sono sempre più numerose le nuove entità venutesi a creare, spesso parte della medesima rete, che gode del supporto delle ambasciate degli Stati occidentali, delle Fondazioni bancarie ed in particolare della Open Society. Il loro campo di azione spazia dalla lotta per la trasparenza e la corruzione, alla criminalità organizzata e traffici, per ritornare solo di recente ai labirinti delle analisi sul terrorismo nei Balcani. Un gran “pour parler” costruito sul nulla, che vede protagonisti analisti da bar formulare le teorie più assurde, prive di qualsiasi fondamento o ricerca strutturata, bensì frutto della lettura di qualche sito internet. Il crimine peggiore è l’accredito fornito dai media internazionali, che forniscono così la matrice per cominciare con la propaganda. Un gioco questo ormai usurato dal tempo, con tecniche obsolete e talmente collaudate, che tali personaggi credono davvero si passare inosservati.
Da parte nostra, riteniamo che non vi sia alcun presupposto per intraprendere un discorso serio sul terrorismo islamico nei Balcani, in quanto il mantenimento di uno stato di confusione conviene sia alla Comunità Internazionale che ai governi locali. Il caos della Bosnia serve un po’ a tutti, soprattutto quando si è a corto di argomentazioni. Per cui serve dire che i kalashikov utilizzati negli attentati sono bosniaci, come bosniaco è il canale di reclutamento. Sebbene non condividiamo certe tesi, preferiremmo che, al posto di Balkanistan, si definisca Trasversale verde o meglio Occasionalmente terroristi, tanto per dare l’idea di chi abbiamo di fronte. Ed infatti, creare delle onde anomale di disinformazione sul fondamentalismo islamico nei Balcani è molto pericoloso, non per questi Paesi – che in fondo conoscono bene le dinamiche di cui parliamo – bensì per le ricadute su terzi o in patria. Basta ricordare gli errori di valutazione dei grandi strateghi che hanno voluto portare la guerra in Ucraina nella convinzione che la Russia non avrebbe reagito, o che volevano abbattere la Siria con la propaganda spicciola delle primavere arabe. I Balcani, in questo, sono molto più folli ed imprevedibili, e creare in questi Paesi una minaccia – sebbene virtuale – rischia di innalzare una fiamma di ritorno ancora più insidiosa. In attivo c’è già il fallimento del tentativo di sovversione con le proteste di Sarajevo, dello scorso febbraio, quando un gruppo di ONG ha assembrato un branco di hooligans nella speranza di portare al collasso le istituzioni. Adesso la strategia è cambiata, si ritorna nella ‘trasversale verde’ con il Balkanistan, tirando fuori delle bandiere e sperando nel colpo di fortuna. Che dire: una grande creatività….

05 febbraio 2015

Esodo dei kosovari verso l’Europa: Germania riapre campi di concentramento?

Pristina – Migliaia di cittadini della Repubblica del Kosovo hanno lasciato, in questi ultimi mesi e tra le lacrime, il paese. Alla ricerca di una vita migliore, hanno abbandonato il paese, rischiando la vita, mediante le strade illegali insieme ai bambini e agli anziani. Un esodo simile non veniva registrato dal periodo della guerra, ma oggi, 15 anni dopo il conflitto armato e 7 anni dall’indipendenza della Repubblica del Kosovo, i cittadini sono esasperati fino al midollo nel loro paese. Non li ferma né la Serbia, né l’Ungheria, e tanto meno l`Europa, ma neanche il Kosovo. Anzi, il Governo kosovaro non tenta neanche di chiudere il confine con la Serbia, paese da dove vanno via gli emigrati kosovari. Nonostante i molteplici appelli, anche ieri sera, come oramai ogni sera, solo da Pristina sono partiti 10 autobus, con almeno centinaia di persone e, considerando che in  un autobus di due piani possono entrare più di 100 persone, la stima dell’esodo comincia ad essere impressionante.

Molteplici le speculazioni
Si moltiplicano intanto le speculazioni sui media e tra l’opinione pubblica circa le motivazioni che stanno alla base dell’improvviso e massiccio esodo dei kosovari. In primo luogo, si ipotizza che tali massicce migrazioni verso i paesi dell’UE vengono tollerate per contenere il fenomeno di partecipazione di molti albanesi tra le fila dell’ISIS. In secondo luogo, vi potrebbe essere un certo interesse da parte dell’Ungheria di fare entrare sul proprio territorio sempre più migranti,  in modo da giustificare l’accesso a maggiori fondi UE, considerando che la prima registrazione avviene presso le autorità ungheresi. Secondo altri, è in corso un vero e proprio test per misurare quanti albanesi potrebbero recarsi in UE dopo la liberalizzazione dei visti per i kosovari. Per cui, sarebbe in atto un verso e proprio tentativo per bloccare l`ulteriore integrazione dei Balcani nell’UE. Allo stesso modo, potrebbe esservi l’esigenza di svuotare il Kosovo, per normalizzare l’economia e bilanciare i livelli di disoccupazione e del PIL.  Altro motivo, di natura razzista, riconduce l’arrivo dei kosovari per compensare la grande presenza di africani e persone dal Medio Oriente. D’altro canto, il mercato del lavoro europeo sta invecchiando, per cui ha bisogno di essere rigenerato da forza lavoro giovane, di origine europea, e compensare così le carenze in molti settori professionali (infermieri, operai specializzati).
La dinamica dell’esodo

Dalla stazione di Pristina, un punto d`incontro dei cittadini provenienti dai vari comuni, che intraprendono le strade verso l`ignoto, partono ogni sera in media 10-15 autobus, con 800-1000 persone e forse di più, e nell’arco di un mese è stata raggiunta la cifra allarmante di circa 30 mila cittadini. Salgono donne, bambini, uomini, sugli autobus che sono diretti a Belgrado, e poi verso Subotica, e infine in Ungheria, che è il trampolino di lancio per arrivare nei paesi come la Germania, la Francia e la Svizzera. Le immagini sulle partenze di massa durante la notte dalla stazione di Pristina sono diventate solite, e lo stesso scenario si ripropone anche nelle stazioni di altre città, come Mitrovica, Drenica e Shala, Drenas, Skenderaj, Vushtrri. Interi quartieri del paese dunque si stanno svuotando, nonostante l`appello degli alti rappresentanti statali e di quelli internazionali, che danno segnali che nessun paese dell’UE offre più lo status di asilo. I dipendenti della stazione degli autobus, dicono che il numero dei cittadini che viaggia verso la Serbia tale che i biglietti sono stati venduti fino al 6 febbraio. Secondo i dati del Ministero kosovaro degli Interni, a novembre del 2014 oltre 24 mila cittadini del Kosovo hanno lasciato il paese. Secondo i dati dell’Eurostat per il 2013, il numero dei richiedenti asilo kosovari è di 20.220. Intanto, per il 2014, esclusi il mese di novembre e di dicembre, nei paesi comunitari hanno chiesto asilo 11 mila e 880 cittadini kosovari. Non sono disponibili i dati ufficiali degli ultimi mesi, tuttavia secondo le supposizioni ogni mese sono 12.600 le persone che emigrano.

Un emigrato clandestino che ha parlato in condizione di anonimato, ha riferito che attualmente vive in un campo profughi a Monaco di Baviera, e che andare in Ungheria molto facile, è come andare a Durazzo o a Valona. Per quanto riguarda i costi, un viaggio Pristina-Subotica costa 30 euro a persona, e il viaggio è tranquillo senza problemi. A Subotica, come ha raccontato un uomo, c’è il facile approccio con i mediatori (o trafficanti). Sono albanesi del Kosovo che conoscono tutti i buchi della frontiera serbo-ungherese. A tal punto il prezzo varia da 60 fino a 200 euro pro capite, a seconda del trafficante. Il servizio dell’autista è garantire il passaggio fino alla frontiera e mostrare la strada da prendere, ma dall`altra parte tutto il rischio spetta agli emigrati. In realtà, come ha raccontato il testimone, l`unico rischio è essere presi dalla polizia serba. In tal caso, la cosa peggiore è quella che di essere derubati, ma in nessun caso c’è un ritorno in patria. Una volta arrivati in Ungheria, gli emigrati sostano all’inizio in una stazione della polizia nei pressi della frontiera, e poi vengono accolti in un centro di accoglienza dove rimangono 24 ore. Il giorno successivo, le autorità del centro, danno i biglietti del treno e vengono trasferiti in un campo ungherese, al confine con l`Austria. Da soli, senza l’accompagnamento dei poliziotti, scendono a Budapest, e da lì con il treno vanno verso Monaco in Germania. Dopo la presentazione alla polizia della richiesta di asilo, vengono stabiliti poi in un campo, e ricevono alloggio, e tre pasti al giorno, e 80 € a settimana per piccole spese. Alla fine, il testimone ha aggiunto che bisogna aspettare due mesi per la risposta alla domanda d’asilo.


I passaporti serbi e i permessi tedeschi?

L’esodo dei kosovari è stato descritto anche dai media serbi, secondo i quali, il Kosovo è stato abbandonato da 21.500 persone. Secondo la stampa, alcuni partono con passaporti biometrici della Serbia, sottolineando tuttavia che il rilascio di tali passaporti per i residenti kosovari è terminato a giugno del 2009. Fino ad aprile del 2019 sono stati rilasciati circa 5.600 nuovi passaporti per i serbi del Kosovo, e 1500 per gli albanesi. Da settembre 2009 fino a maggio 2011, citando le parole di Ivica Dacic, allora Ministro degli Interni, 26.000 albanesi del Kosovo hanno preso un passaporto serbo. D`altra parte, non è noto quanti passaporti siano stati rilasciati illegalmente, secondo le valutazioni, il passaporto costava dai 2.000 ai 7.000 euro. Invece il quotidiano “Zeri” ha pubblicato foto del permesso provvisorio che le autorità tedesche rilasciano ai richiedenti asilo kosovari ad Amburgo. Nel campo di Amburgo vi sono oltre 1000 gli albanesi di tutte le età, dove ricevono, oltre ai pasti e l’alloggio, 140 euro al mese pro capite. A chi interessa sono stati anche allestiti dei corsi in lingua tedesca. “Dopo averci chiesto i dati personali, ci rilasciano un permesso provvisorio di soggiorno, come lo chiamiamo noi. Non so perché, e a che scopo. Non sappiamo cosa ci succederà. Non ci dicono se ci terranno qui, o se ci manderanno via”, ha rivelato un emigrato di Amburgo per Zeri.
Edificio del Campo di Dachau (Augusta)


Chi parla di buone e chi di pessime condizioni. Trasferiti a Dachau, ex campo nazista degli ebrei?

Questo martedì, quando il mondo ha commemorato i 70 anni dalla liberazione del campo di concentramento nazista ad Auschwitz, lo stesso giorno, la città tedesca di Augsburg ha deciso di rimettere in funzione un altro campo di concentramento di Hitler, Dachau, che è divenuto un edificio per alloggiare i rifugiati. E’ stato disposto di dislocare entro il 31 gennaio, nella ex-caserma di Augsburg (Augusta), la Halle 116, del complesso del campo di concentramento di Dachau, 90 rifugiati. Il programma, tuttavia non è stato ancora attuato, e forse non andrà in porto (Fonte: Abendzeitung-muenchen.de). Le persone, i cui nomi sono sono scritti sulle liste, confessano che la vita in questi campi è molto difficile, quasi impossibile. Alcuni ufficiali tedeschi hanno condannato questa politica, informando che le rispettive autorità sono insensibili verso i richiedenti asilo, per la stessa storia dolorosa che rappresentano questi campi. Ma Dachau non è l`unico ex campo di concentramento che viene utilizzato per gli alloggi, a causa del crescente numero dei richiedenti asilo, anche in altre città stanno utilizzando forme alternative, come magazzini vuoti, o le caserme militari per far fronte al crescente numero di ospiti. Secondo gli ultimi dati elaborati dall’ONU, negli ultimi due decenni, la Germania conta il maggior numero di queste persone in tutto il mondo. D`altra parte,  i portali Gazetaexpress e Prmagazine.info, hanno pubblicato le foto sulle condizioni nel campo di Karlsruhe, dove gli emigrati parlano di gravi condizioni sanitarie e alimentari. Invece 96 emigranti fermati questi giorni nella stazione ferroviaria di Linz, in Austria, dicono che “non abbiamo lavoro, soldi, e nè futuro in Kosovo”, e rifiutano di tornare in patria, e elencano molti motivi. Il quotidiano austriaco Oberösterreich, cita che se durante l`intero 2014 hanno chiesto asilo 1901 kosovari, solo nel primo mese del 2015 lo hanno chiesto 1029 cittadini, mettendo il Kosovo all’apice dei richiedenti asilo.
 Centro di accoglienza di Amburgo, Germania (Foto: Zeri.info)
 
Centro di accoglienza di Karlsruhe, Germania (Fonte: Prmagazine.info)
Centri di accoglienza in Francia (Fonte: Prmagazine.info) 
Emigranti kosovari passano senza controlli davanti ai poliziotti ungheresi al confine

Motivi e effetti

La disoccupazione giovanile in Kosovo ha raggiunto quote allarmanti, stimata per circa il 70%,  mentre in base ai calcoli 500 mila vivono solo con 1.72 euro al giorno. I motivi, come affermano alcuni testimoni, sono le gravi condizioni economiche, la vita molto cara, la disoccupazione, la mancanza di assistenza sanitaria, e perfino una depressione verso il loro futuro, e ci sono anche coloro per cui il paese è  finito da quando al potere giunta la coalizione LDK-PDK. Ma d`altra parte le condizioni che gli erano state promesse, come affermano i media kosovari, tuttora restano un mistero, per coloro che hanno preso la strada verso l`occidente, e non è successo ciò che loro immaginavano. Nell’ultima relazione trimestrale sul Kosovo, che sarà discussa il 6 febbraio, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha espresso preoccupazione sull’emigrazione della popolazione del Kosovo. “Le relazioni sull’esodo della popolazione kosovara negli ultimi mesi destano una grande preoccupazione”, ha osservato il segretario dell’ONU, chiedendo alle autorità di affrontare la questione. D`altra parte gli effetti dell’emigrazione illegale hanno iniziato a sentirsi non solo nelle scuole, ma anche nelle imprese del paese. Verso l`UE non stanno emigrando solo i disoccupati ma anche coloro che avevano lavoro. Tra i paesi comunitari, solo la Germania ha stabilito con il Kosovo, nel 2004, un accordo bilaterale sull’occupazione stagionale. Nel mese di maggio del 2013 è stato abrogato il memorandum tra il Ministero kosovaro del Benessere sociale e la società tedesca “HOWL.L.C”, che prevedeva l`occupazione dei kosovari in Germania. Tuttavia, l`organizzazione APPK (Agjensioni i Përkrahjes së Punësimit në Kosovë – l`Agenzia per il Sostegno all’Occupazione in Kosovo), ha raggiunto un accordo di mediazione con la ZAV (Zentrale Auslands-und Fachvermittlung/Centro per la Mediazione del Quadro personale Estero e Professionale), per l’occupazione stagionale in Germania di giovani studenti durante il 2015. Infatti, rimane poco chiaro se la Germania in primo luogo, e la Francia e la Svizzera in secondo luogo, abbiano  un progetto per l`occupazione di questi cittadini, e se motivano tale ondata di migranti.

14 novembre 2014

Intervista a Michele Altamura: Ha inizio la guerra dell’Intelligence economica alternativa

Roma – La cannibalizzazione delle  multinazionali, che hanno fatto di un metodo di studio un prodotto di marketing da vendere a ‘caro prezzo’ ai pochi privilegiati,  deve essere contrastata restituendo alle piccole imprese il diritto all’informazione oggettiva e scientifica. E’ questo quanto affermato da Michele Altamura, fondatore della Etleboro ONG e responsabile del progetto dell’Osservatorio Italiano, nell’intervista rilasciata per la rivista economica marocchina “L’Observateur du Maroc“. Nelle sue parole, Altamura lancia un vero e proprio messaggio di sfida alle grandi società di consulenza e di informatica, che attraverso i loro software stanno lucrando sul diritto di informazione delle imprese,  con tecniche di concorrenza sleale e attacchi asimmetrici. “I privati hanno utilizzato per molto tempo lo Stato per introdurre leggi senza alcuna consultazione con la società civile, mentre la politica utilizza i privati per fare propaganda e celare la corruzione. Entrambi hanno fatto dell’intelligence economica uno strumento di potere e non un metodo di conoscenza – afferma Altamura nella sua intervista, continuando -. Per difendersi dagli attacchi asimmetrici e non convenzionali dei gruppi di interesse, gli Stati devono creare necessariamente delle commissioni cibernetiche permanenti, che dovranno così controllare le attività delle multinazionali, in collaborazioni con le Università, le associazioni e le piccole imprese. Dovranno essere seguite, attentamente, tutti i movimenti sui brevetti e le dinamiche di monopolio dell’informazione“, conclude Altamura.
 L’Observateur du Maroc –  14-20 novembre 2014
Una formica che lotta con i grandi. Nella sua prefazione, “L’Observateur” annuncia come l’Osservatorio Italiano, dopo la sua affermazione nei Balcani, si prepari a tessere la propria Tela nel Maghreb. Il redattore evidenzia come questa organizzazione costituisca “un organo inedito di monitor e di intelligence economica alternativa“, un “piccolo laboratorio, uno strumento di difesa e di informazione delle PMI“. Il nostro lavoro viene inoltre definito come quello di una “formica” che riesce a competere con grandi sfide, con capacità di scegliere e colpire i propri bersagli, e le cui armi sono “informazione precisa, anticipazione ed esperienza tecnica“.  Lavorando in grande discrezione – scrive l’Observateur – l’Osservatorio Italiano sta lottando a fianco delle imprese nelle cause di anatocismo e abusi bancari, fornendo un importante strumento per la preparazione delle perizie e il calcolo degli interessi passivi, come anche delle aziende che operano all’estero e sono maggiormente esposte agli attacchi dei competitor. Viene così citato il caso de La Distributrice, e quindi la sua vittoria nei confronti del Governo croato, condannato a riconoscere i crediti connessi alle risorse profuse a favore dello stabilimento croato. Annuncia, inoltre, la nuova sfida per la tutela del ‘Made in Italy’ dai tentativi di contraffazione, con un sistema di monitoraggio e di segnalazione nella regione dei Balcani, e presto anche nel Maghreb. Qui costruirà, infatti, una Tela di relazioni, che farà da ponte tra le piccole imprese italiane e quelle marocchine. L’Osservatorio Italiano – conclude l’Observateur – “dà così inizio la democratizzazione dell’intelligence economica“, contribuendo alla creazione di una struttura responsabile, di contrasto alle multinazionali e alle grandi aziende, che impongono regole aggressive e predatorie.

23 ottobre 2014

Caso Dalmatinka: La Distributrice vince causa contro l’espropriazione illegale

Trieste – Una grande vittoria dopo anni di lavoro, boicottaggi e disinteresse da parte delle istituzioni italiane. Il Tribunale di Spalato, presieduto dal Giudice Vukovic, ha emesso questo lunedì 20 ottobre la sentenza che accoglie, in ogni sua parte, il quadro di argomentazioni de La Distributrice, dei F.lli Ladini, riconoscendo tutti i crediti impugnati, per un totale di 44.459.783,26 kune (circa 6 milioni di euro), relativi alle forniture di merci alla Dalmatinka Nova (si veda anche Intervista a Gianfranco Ladini). Un verdetto che abbatte l’intero castello di accuse della controparte di Spalato che, dal 2009 ad oggi, ha impedito alla Distributrice di agire in difesa del patrimonio dell’azienda, nonostante fosse il maggiore creditore, con diritto di controllo e di veto, saccheggiando e vendendo tutte le attrezzature. Questo costituisce un grande successo per la tenacia e determinazione degli imprenditori italiani, nonché un alto riconoscimento dell’impegno dell’Osservatorio Italiano per aver difeso un’azienda, che vedeva rinviare ed accantonare il proprio fascicolo nella dispendiosa e contorta macchina burocratica della Farnesina.
Possiamo, senza dubbio, affermare che l’Intelligence economica dell’Osservatorio Italiano ha portato a termine una dura lotta, nonostante molti abbiano nutrito forti dubbi in merito alle ragioni degli imprenditori italiani, senza mai smettere di denunciare alle autorità gli abusi subiti in violazione della Convenzione italo-croata di tutela degli investimenti. Sono stati superati grandi ostacoli, ma soprattutto il disfattismo di quei funzionari che non hanno avuto la forza di difendere un’azienda in difficoltà, che rivendicava legittimamente i propri diritti. Siamo ormai dinanzi ad una casta che vive di parassitismo, che utilizza le inaugurazioni e le presentazioni di grandi progetti per pavoneggiarsi ed aprire le strade della propria carriera. Il percorso condotto per raggiungere un tale risultato, sarà uno dei tanti tasselli che si unisce al patrimonio di conoscenze che l’Osservatorio Italiano metterà a disposizione delle imprese, nella difesa del loro mercato e della loro ricca esperienza.
Intervista a Gianfranco Ladini su “Caso Dalmatinka”  

L’arma delle multinazionali contro i popoli sovrani

L'arma delle multinazionali contro i popoli sovrani
Corporation, gruppi politici e media utilizzano moderne tecniche di NEUROMARKETING per plasmare e manipolare le scelte e le decisioni dei cittadini. I progetti di ricerca per il parkinson e l’alzheimer sono state per molto tempo la copertura per le sperimentazioni illegali sulle reazioni neurali alle caratteristiche dei prodotti. Una volta individuata la chiave d’accesso ai desideri dei consumatori, il controllo dei consumatori è divenuto uno strumento di successo.

Il crimine invisibile

Il crimine invisibile
Ci sono eroi sconosciuti che hanno dato la vita, e sono ricordati nei cuori di poche persone. Poi ci sono eroi che sono ricordati solo per un mese, perché hanno combattuto guerre sbagliate con nemici sbagliati. Questi sono gli assassini dei nostri veri eroi. (Michele Altamura)

Congo: guerra per il coltan delle multinazionali

Congo: guerra per il coltan delle multinazionali
Il più grande olocausto della storia è stato compiuto da multinazionali come Motorola, Nokia, Siemens, Samsung, Acer, Ibm, HP. L’industria dell’elettronica ha fatto più di 8 milioni di morti in Congo e Rwanda.

Parole dal passato per il nostro presente

Parole dal passato per il nostro presente
“Ho lottato contro l’idea fissa che esisteva nel mio Paese: che l’Italia fosse condannata ad essere povera per mancanza di materie prime e di fonti energetiche. Queste fonti energetiche le ho individuate e le ho messe in valore e ne ho tratto delle materie prime. Ma, prima di far tutto questo, ho dovuto fare anch’io della decolonizzazione perché molti settori dell’economia italiana erano colonizzati anzi, direi, che la stessa Italia meridionale era stata colonizzata dal Nord d’Italia!”. (Enrico Mattei – Discorso a Tunisi, 10 giugno 1960)

Un visionario della libertà umana perfetta

Un visionario della libertà umana perfetta
“La trasmissione economica dell’energia senza fili è di importanza fondamentale per l’uomo. Gli permetterà infatti di dominare incontrastato sull’aria, sul mare e sui deserti. L’uomo sarà libero dalla necessità di estrarre minerali o petrolio, trasportare e bruciare combustibili, abolendo così molteplici cause di inquinamento. Il glorioso sole diventerà il nostro servo ubbidiente. Pace e armonia si diffonderanno sulla Terra”. (Nikola Tesla – Electrical World and Engineer 7 gennaio 1905)

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Jacopo Bassano

Fonte: http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=2947&biografia=Jacopo+Bassano

Jacopo_BassanoIl quinquennio tra il 1510 e il 1515 è indicato l’arco temporale in cui nacque Jacopo dal Ponte a Bassano del Grappa. Il nonno Jacopo di Berto trasferitosi a Bassano del Grappa nel 1464 aveva un negozio di conceria nei pressi del ponte di legno sul Brenta da cui deriva il cognome dal Ponte.

Il padre Francesco dal Ponte il Vecchio è pittore con bottega nello stesso luogo. Jacopo inizia dunque la sua formazione dal padre in cui evidenzia un vero talento. Si ipotizza che negli anni tra il 1530-1540 ci sia stato l’incontro con Tiziano Vecellio durante dei soggiorni a Venezia.

 

In laguna comunque Jacopo dal Ponte – indicato anche come Jacopo da Ponte o Jacopo Bassano – affina la tecnica pittorica presso Bonifacio dé Pitati. La “fuga in Egitto” del 1532 segna l’esordio ufficiale con i personaggi inseriti nel paesaggio veneto in una profonda atmosfera di colori brillanti e compatti. Dalla plasticità del Pordenone, Jacopo negli anni ’40 ha influenze del Manierismo.

Nel 1546 sposa Elisabetta Merzari dalla quale ha otto figli.

Gli anni centrali del Cinquecento lo vedono a un ritorno di un nuovo naturalismo, con un colore la cui luce s’incentra nei punti focali della scena e in San Giovanni Battista nel deserto questa tecnica modella le forme.

Dal 1560 approfondisce soggetti biblico-pastorali con il paesaggio preponderante nella scena. La parte finale della sua carriera artistica vede il passaggio a una pittura di tocco con la luce che compenetra i colori come nella veste del quadro di Santa Lucilla e gli splendidi notturni anticipatori del Seicento.

Jacopo Bassano muore nella sua città natale il 13 febbraio 1592.

I danni da sesso estremo

Scritto da: Andrea Sperelli
Fonte: http://www.italiasalute.it/news2pag.asp?ID=9317

Attenzione alla rottura del pene

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La posizione dell’Amazzone è un killer per il pene dell’uomo. Lo dice uno studio dell’Università di Campinas di San Paolo, in Brasile, secondo cui la posizione che prevede la donna sopra all’uomo causa la maggior parte delle fratture all’organo riproduttivo maschile.
I ricercatori hanno esaminato 42 casi con un’età media di 34 anni che hanno ricevuto una diagnosi di frattura dopo una serie di valutazioni cliniche e radiologiche. In 28 casi la frattura è stata il risultato di un rapporto eterosessuale, in 4 casi di rapporto omosessuale, in 6 casi a seguito di “manipolazioni” di varia natura e in 4 casi, infine, per circostanze non chiare.
“Il tempo di arrivo in ospedale varia dalle 0,5 alle 6 ore. Si tratta di una condizione clinica relativamente rara che è frequentemente fonte di imbarazzo per il paziente, fattore che porta ad un ritardo nella ricerca di assistenza medica”, hanno riferito i medici brasiliani. “Quando la donna è sopra, controlla il movimento dell’atto sessuale con tutto il suo peso. Se però la penetrazione avviene in modo sbagliato, la donna difficilmente se ne rende conto e questo può portare alla rottura dell’organo maschile. Al contrario, quando è l’uomo a controllare il movimento, come avviene in tante altre posizioni, ha la possibilità di fermarsi durante la penetrazione quando avverte dolore”.
La lacerazione dell’involucro rigido chiamato tunica albuginea, dove si gonfiano i corpi cavernosi, colpisce circa 100 italiani all’anno ed è dovuto a traumi da rapporti sessuali intensi, concentrati soprattutto nel periodo delle vacanze.
La frattura del pene anche detta sindrome del chiodo piegato è un insolito trauma del pene, dovuto a un colpo violento verificatosi durante l’erezione. Il rumore di uno schiocco e un dolore rilevante sono spesso associati all’evento. La frattura del pene è generalmente considerata un’emergenza, e va trattata con un intervento chirurgico d’emergenza. Ogni ritardo nel chiedere soccorso accresce la probabilità di peggioramento. Cure che evitano il ricorso alla chirurgia portano a problemi nel 10%-50% dei casi, portando a un incurvamento permanente del pene, danno all’uretra, difficoltà ad urinare, dolore durante il rapporto sessuale e, nei casi più gravi, all’amputazione del moncone distale.
Edoardo Pescatori, responsabile dell’Unità operativa di andrologia dell’Hesperia Hospital di Modena, afferma: “una precisa casistica nazionale non esiste, perché non c’è un monitoraggio di tutte le strutture sanitarie della penisola. Certo è che i casi di frattura del pene nei maschi italiani sono una realtà”.
La frattura del pene si verifica prevalentemente per traumi derivanti da rapporti sessuali troppo “vigorosi” e colpisce particolarmente gli uomini non sposati. “Ma – prosegue il dott. Pescatori – , in generale, ogni trauma subito nel momento dell’erezione è a rischio e può determinare una lacerazione dell’albuginea: il pene in erezione infatti è fragile se esposto a traumi: come un palloncino gonfio che, se pestato, esplode”.
“Le lesioni del pene possono avvenire in qualsiasi momento – continua il medico – e in qualsiasi circostanza perché, non dimentichiamolo, l’organo genitale maschile, anche se ‘rigido’, è molto fragile e gli uomini non dovrebbero scordarlo”. E non è tutto. Circa il 7% dei maschi italiani soffre di “curvatura del pene” (congenita o acquisita, come nel caso della frattura). “Un recente studio – spiega il responsabile del Reparto di andrologia dell’Hesperia Hospital – ha fatto luce sui numeri di questa patologia che prende il nome di induratio penis plastica o malattia di La Peyronie. E che, come sempre accade per le problematiche sessuali maschili, è troppo sottovalutata”. Tanto che, in casi seppur rari, alcuni uomini presentano curvature di 90 gradi e non si rivolgono a nessuno specialista. Le soluzioni? “Intervenire chirurgicamente, con ottimi risultati”, conclude l’andrologo, invitando i maschi italiani a un maggior “controllo” sotto le lenzuola.

GRECIA: LA TEORIA DEI GIOCHI!

Fonte: http://icebergfinanza.finanza.com/2015/02/13/grecia-la-teoria-dei-giochi-2/

“E’ meglio concentrare tutti i dolori in un breve periodo, piuttosto che spalmarli in un periodo più lungo” Nassim Nicholas Taleb

Cosa può dirci la matematica della complessa (e molto pericolosa) partita a scacchi in corso tra Grecia, Bce ed Eurogruppo?

(…) Per capire perché bisogna ricorrere alla cosiddetta “teoria dei giochi”: una scienza matematica che studia le situazioni di conflitto partendo dall’analisi delle scelte decisionali di individui che si trovano in situazioni di interazione con altri soggetti rivali, tali per cui le decisioni di uno possono influire sui risultati conseguibili dagli altri secondo un meccanismo di retroazione, arrivando a soluzioni competitive o cooperative. Coppola cita uno scritto dell’economista francese Jacques Sapir dove si ricorda che Varoufakis è un fine intenditore di questa teoria (ha scritto ben due libri sul tema).

Secondo Sapir, il negoziato Grecia-Bce-Eurogruppo al momento sta seguendo una dinamica da “dilemma del prigioniero”, il più famoso dei problemi della teoria dei giochi, in cui sostanzialmente il risultato (in termini di costi e benefici) per un decisore non dipende solo da ciò che sceglie quel decisore ma anche da ciò che scelgono gli altri, il che lo porta a cercare di prevedere quello che faranno gli altri, sapendo che anch’essi faranno altrettanto. È un esperimento teso a dimostrare come in certi casi individui puramente “razionali” possono scegliere di non cooperare anche se questo sarebbe nel migliore interesse di tutti. Sapir fa inoltre notare che il dilemma del prigioniero può facilmente degenerare in quello che, sempre nella teoria dei giochi, è noto come “gioco del coniglio”: un esempio di gioco in cui sono ammesse solo due soluzioni: la vittoria assoluta di un soggetto sugli altri o la sconfitta (o peggio) di tutti i soggetti coinvolti. L’esemplificazione classica è basata sulla sfida del film Gioventù bruciata in cui due ragazzi fanno una corsa automobilistica lanciando simultaneamente le auto verso un dirupo. Se entrambi sterzano prima di arrivarvi, faranno una magra figura con i pari; se uno sterza e l’altro continua per un tratto di strada maggiore, il primo farà la figura del coniglio, mentre il secondo guadagnerà il rispetto dei pari. Se entrambi continuano sulla strada, moriranno.

Se avete tempo leggetevi l’intero pezzo su Eunews  Varoufakis, la Bce e la teoria dei giochi c’è molto di più in gioco nella teoria dei giochi… aspettando l’ennesimo cigno nero!

Amaranto, una nuova risorsa per le famiglie argentine che vivono in povertà

Fonte: http://www.informasalus.it/it/articoli/amaranto-famiglie-argentine.php

fiori amaranto

Amaranto, una nuova risorsa per le famiglie argentine che vivono in povertà.

Nel 2009 in Argentina, nella provincia di Salta, la Federazione Agraria Argentina (in partenariato con il Ministero degli Affari Esteri Italiano) ha dato il via al progetto “Kiwicha”, che in dialetto andino significa Amaranto. Con il sostegno delle autorità locali e delle famiglie della zona è stata così riproposta quest’antica coltura al fine di migliorare la dieta e quindi la salute dei bambini in una zona dove molte famiglie contadine vivono al di sotto della soglia di povertà e riescono a provvedere alla propria sussistenza soltanto grazie ai sussidi pubblici.

A cinque anni dall’inizio del progetto questa pianta è divenuta parte integrante dell’alimentazione dell’intera regione di Salta, tanto che il governo ha emanato un decreto definendo il progetto Kiwicha “prioritario per il paese”.

Il progetto avviato nella provincia di Salta, un’area delle Ande a Nord dell’Argentina, prevede la coltivazione di sei diverse varianti di Amaranto, per ottenere foglie e semi molto apprezzati nella cucina familiare. Per sviluppare questa “nuova” piantagione viene coinvolta tutta la popolazione dell’area, a partire dai bambini delle scuole. Sono coinvolte complessivamente 1.800 famiglie, 12 scuole e una cooperativa di produttori che gestisce la nuova fabbrica di trasformazione per realizzare barrette, pasta o pane.

Il progetto prevede inoltre attività di educazione e divulgazione sul valore nutritivo della pianta nonché lo sviluppo di nuovi utilizzi dell’Amaranto. Proprio in virtù di questo aspetto educativo, il progetto “Kiwicha”ha il primo premio come miglior progetto scolastico.

L’Amaranto ha risorse nutritive molto spesso non conosciute: è ricco di proteine e ha un elevato contenuto di calcio e fosforo. Grazie alla mancanza di glutine, è anche un prodotto ideale per la dieta di persone celiache e diabetiche.

Questa pianta è adattabile a diversi tipi di terreni e di clima; ciò rende l’iniziativa replicabile in altre nazioni con situazioni climatiche differenti da quelle dell’area di Salta.

La diffusione di questa nuova coltivazione, inoltre, ha diminuito l’impatto ambientale rispetto a piantagioni di tabacco e canna da zucchero, che sono altamente inquinanti sia per l’utilizzo di pesticidi sia per la produzione di scarti che inquinano le acque.

9 inquietanti cose che non vuoi sapere su L’Esorcista

Fonte: http://www.studentville.it/blog/spettacolo-2/9_inquietanti_cose_che_non_vuoi_sapere_su_lesorcista-2168.htm

A 40 anni dall’uscita nelle sale cinematografiche, il capolavoro di William Friedkin, L’Esorcista, continua a terrorizzare gli spettatori. Il film da sempre avvolto da leggende metropolitane e rilevazioni di dettagli inquietanti, deve il suo successo alla capacità del regista di mettere in scena il Male in una dimensione domestica, e al tema della possessione demoniaca, da sempre considerato un tabù. Ci sono dei fatti realmente accaduti, però, che hanno contribuito ad accrescere il senso di disagio e tensione voluto dal regista.

Oggi è il giorno giusto per conoscere 9 fatti molto inquietanti sul film L’esorcista.

1. La croce caduta durante la prima italiana

La sera della prima italiana, Roma era nel pieno di un tempesta. Un fulmine colpì un’antica croce di ferro di una chiesa vicina, che cadde al centro della piazza. Gli spettatori in fila per il biglietto, assistettero in prima persona alla caduta della croce e, scossi, decisero di non vedere il film.

2. L’incidente sul set

Ellen Burstyn, l’attrice che interpreta il ruolo di Chris MacNeil, si rifiutò più volte di pronunciare la battuta “ Io credo nel demonio”.  Ellen subì un brave danno alla colonna vertebrale durante le riprese del set. Nella scena in cui la ragazzina sposta violentemente la madre, l’urlo della donna è suscitato da un dolore reale.

3. Tratto da una storia vera

Il libro da cui il film è tratto, è stato ispirato da un fatto realmente accaduto. Nel 1949 fu praticato l’esorcismo su un ragazzino di 13 anni del Maryland. Sembra che dopo l’esorsismo il ragazzo non ricordò più nulla della possessione e che intraprese una brillante carriera alla NASA.

4. I morti

Sono almeno dieci le persono legate alla produzione del film morte durante le riprese e prima del rilascio dell’horror. Pare siano morti il guardiano notturno del set, uno dei tecnici, il fratello di  Max Von Sydrow e il nonno di Linda Blair. Jack MacGowran come il suo personaggio (Burke Dennings che muore nel film precipitando da una scalinata)  venne stroncato dalle conseguenze di un’epidemia influenzale.

5. L’incendio sul set

Durante le riprese del film unincendio distrusse l’intero set, tranne la camera da letto di Regan.

6. Linda Blair

Linda Blair fu scelta tra 5000 bambine per il ruolo di Regan. La truccatrice ha raccontato che la bambina era terrorizzata dalla maschera da posseduta che ha dovuto indossare per gran parte delle riprese, tuttavia, una volta indossata, il suo animo si tranquillizzava. L’attrice, nonostante il successo del film, non riuscì mai a far decollare la sua carriera. L’alone macabro che la circondava non le fu mai perdonato. A 40 anni dall’uscita del film Linda è ancora in terapia.

7. Un serial killer sul set

L’attore che compare nelle vesti del tecnico degli rx è Paul Bateson, sospettato di essere un serial killer dalla polizia americana. Secondo alcuni nella scena in cui i tecnici stanno per “studiare” con dei macchinari adatti il cervello di Linda, una minuscola croce pare si intraveda sulla fronte della ragazza.

8. La voce del diavolo

Friedkin ordinò a Mercedes McCambridge, la doppiatrice della Blair in versione indemoniata, ovvero la voce del diavolo, di fumare 3 pacchetti di sigaretta al giorno, bere alcolici, e mangiare mele acerbe. La Produzione, nonostante il suo eccellente lavoro, non voleva inserire il suo nome tra i titoli di coda. Alla fine il nome di Mercedes comparve, e la sua famiglia subì gravi lutti nel giro di pochi mesi.

9. Esorcismi veri

Dopo l’incendio, il regista ha chiesto al prete che svolgeva il ruolo di consulente sul set di fare un esorcismo. Tutti i membri della trouppe credevono nelle possessioni demoniache, ma il prete rifiutò, e benedì il set per tranquillizzare gli animi. Nelle sequenze dedicate all’esorcismo vero e proprio, William Friedkin scelse di aggiungere in sottofondo le urla registrate di presunti posseduti.

Seoul, i rifugiati dal Nord “disoccupati e trattati sempre peggio”

Fonte: http://www.asianews.it/notizie-it/Seoul,-i-rifugiati-dal-Nord-disoccupati-e-trattati-sempre-peggio-33426.html

Lo rivela un sondaggio compiuto dalla Fondazione coreana Hana, che aiuta gli esuli in fuga dal regime dei Kim a trovare una situazione dignitosa nella parte sud della penisola. Aumenta il tasso di chi non trova un impiego, aumentano le ore di lavoro imposte e calano gli stipendi. La Chiesa cattolica in prima fila per l’integrazione.

Seoul (AsiaNews) – I rifugiati dalla Corea del Nord che trovano riparo nella parte sud della penisola vivono sempre peggio: aumentano il tasso di disoccupazione e le ore di lavoro imposte da chi fornisce loro un impiego, mentre calano gli stipendi rispetto alla media dei lavoratori sudcoreani. Lo rivela un sondaggio relativo al 2014 compiuto dalla Fondazione coreana Hana, che aiuta gli esuli (chiamati in coreano “saeteomin”) a rifarsi una vita dopo la fuga dal regime dei Kim.

I numeri relativi alla popolazione nordcoreana che ha abbandonato il proprio Paese non sono ufficiali: il governo di Seoul, infatti, si ritiene “capitale legittima” di tutta la penisola e quindi accetta chi fugge dal Nord come proprio cittadino. Tuttavia le stime indicano in circa 500mila i nordcoreani residenti in maniera stabile nel Sud. Di questi, solo il 53% ha lavorato nel corso del 2014: si tratta di un aumento di quasi l’8% rispetto al tasso di disoccupazione nazionale.

Il 19,8% dei rifugiati lavora su base quotidiana, senza contratto e senza garanzie: il dato relativo ai sudcoreani trattati allo stesso modo si aggira intorno al 6%. Inoltre, i nordcoreani “imprenditori” (ovvero in grado di fornirsi in maniera autonoma un impiego) sono soltanto il 6%, contro il 16,2% dei sudcoreani. Gli esperti spiegano che questo dato nasce dalle difficoltà burocratiche e dall’impossibilità di ottenere un prestito bancario da parte degli esuli, visti tradizionalmente in maniera molto negativa al Sud.

Anche i salari di coloro che hanno un impiego dimostrano un trattamento diverso: su una media di 47 ore lavorative a settimana (circa 3 ore in più rispetto ai sudcoreani), i nordcoreani guadagnano circa 750 dollari in meno rispetto alla controparte. Il periodo medio di occupazione di un esule nello stesso posto di lavoro è di 19 mesi, contro i 67 mesi del resto della popolazione.

Nonostante questi dati il 67,6% degli intervistati dice di essere “soddisfatto” della propria vita: il 47,4% lo spiega con il fatto che al Sud “si ha molta più libertà di fare ciò che si vuole” rispetto al Nord, mentre il 42,3% risponde con un semplice: “Sempre meglio qui che lì”. Eppure il 58,4% dei rifugiati ammette di essere “riluttante” all’idea di dichiarare la propria provenienza (un aumento di 4 punti percentuali rispetto al 2012) e il 25,3% parla di “chiari atti discriminatori” subiti da parte dei sudcoreani.

Saeteomin in coreano significa “rifugiati, coloni”, ed è il termine con cui i sudcoreani chiamano coloro che riescono a scappare dal regime di Pyongyang per stabilirsi dall’altra parte del confine. Col tempo, dato il bassissimo livello di integrazione degli esuli, è divenuto un termine dispregiativo. Sin dai tempi dell’armistizio che ha interrotto la Guerra di Corea (1953), la Chiesa cattolica del Sud porta avanti programmi di inserimento e di sensibilizzazione sociale per cambiare questo atteggiamento discriminatorio nei confronti degli esuli.

Fra le varie opere, spiccano il Centro cattolico nei pressi del confine con il Nord – dove i primi rifugiati vengono addestrati agli usi e costumi del Nord, all’uso di internet e alla ricerca di un lavoro – e i vari programmi che a livello diocesano accompagnano queste persone verso un ingresso dignitoso nella società.

 

Il riso di Fukushima ora è sicuro? Facciamo il punto

Fonte: https://oggiscienza.wordpress.com/2015/02/05/il-riso-di-fukushima-ora-e-sicuro-facciamo-il-punto/
Scritto da: Federico Baglioni

Per la prima volta dopo l’incidente del 2011, tutto il riso coltivato a Fukushima ha superato i test di radioattività ed è sicuro per il consumo alimentare. Ne abbiamo parlato con il biologo Mauro Mandrioli

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APPROFONDIMENTO – L’11 Marzo 2011 uno tsunami devastò le coste del Giappone provocando circa 18 mila morti e un grave danneggiamento alla centrale nucleare di Fukushima-1. Oggi, dopo quasi quattro anni, il riso della zona è stato definito sicuro per l’alimentazione.

Dopo l’incidente di Fukushima si parlò molto del pericolo radiazioni dovute al rilascio di Cesio nell’ambiente. Nonostante nessuno abbia perso la vita per colpa delle radiazioni, quasi 100 mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case. Comunque, a distanza di 4 anni da quell’incidente e dopo numerosi controlli negli anni passati, sembra davvero che il peggio sia passato e che il riso possa di nuovo essere commercializzato e consumato.

Per avere un quadro più chiaro, ne abbiamo parlato con Mauro Mandrioli, Professore associato in genetica al Dipartimento di scienze della vita dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

Innanzitutto, questa notizia la stupisce?

Non più di tanto. Lavorando con gli afidi, dei parassiti di interesse agrario, avevo notato che quelli di Fukushima presentavano molte meno malformazioni già due anni dopo l’incidente. Questo attestava che l’entità del danno era stata molto forte il primo anno (2012), ma andava scemando l’anno successivo (2013). Stesso discorso per altri modelli, come roditori e farfalle: è probabile che le mutazioni del secondo anno fossero dovute alla trasmissione di mutazioni avvenute il primo a livello germinale.

Qualcosa di simile è stato osservato anche col riso. Su milioni di sacchi controllati, nel 2012 erano 71 quelli con valori di radioattività superiori alla norma, mentre nel 2013 erano già diminuiti a 28.

Eppure è proprio il caso del riso che sorprende. In una pubblicazione di qualche anno fa, infatti, si era visto come il riso fosse piuttosto sensibile alle radiazioni, tanto che era sufficiente coltivare in laboratorio riso su suolo prelevato da Fukushima, per avere circa 1800 geni con un espressione alterata a livello delle foglie. Molti di questi avevano a che fare con processi importanti e complicati, come la replicazione del DNA o la fotosintesi.

Ma come si valuta il livello di radioattività?

Solitamente si calcola il tempo di dimezzamento degli isotopi radioattivi (il Bequerel è l’unità di misura della radioattività), ovvero il tempo necessario perché la metà degli atomi decadano in un altro elemento. Le analisi più comuni riguardano gli isotopi del Cesio, poiché sono quelli che vengono emessi in quantità maggiore e che per quanto riguarda Fukushima si teme possano essere ancora emessi, visto che alcune barre radioattive sono ancora calde. Ma esistono diversi isotopi del Cesio, il 134 e il 137. Il primo ha un tempo di dimezzamento di circa due anni, mentre il secondo arriva ai trent’anni.

Si tende spesso a paragonare Fukushima al disastro di Chernobyl del 1986. Cosa c’è di diverso?

A parte una minor trasparenza nel processo, a differenza di Fukushima, a Chernobyl il tetto era collassato. Questo ha comportato un’emissione di radiazioni enormemente più grande di quella che ha riguardato la centrale giapponese. Ma a essere diversi sono soprattutto gli isotopi coinvolti. Nel caso di Fukushima sono stati trovati sia Cesio 134 che Cesio 137, mentre a Chernobyl unicamente Cesio 137, quello con tempo di dimezzamento più lungo.

Quindi possiamo considerare questo riso davvero sicuro?

Direi di sì. Ogni nazione si dà regole guida con quantità massime di isotopi radioattivi negli alimenti. In passato in Giappone tutto quello che aveva valori sopra i 500 Bq non poteva essere commercializzato come cibo. Dopo il caso di Fukushima, le linee guida sono state rese molto più selettive e stringenti: i valori soglia non devono superare i 100 Bq. Una misura precauzionale utile, ma che è per certi versi paradossale, al punto che vi sono molti più controlli a Fukushima che in aree sospette o inquinate, anche vicine a noi, come alcuni paesi dell’Est Europa. Addirittura c’è chi ha fatto notare che alimenti che mangiamo comunemente come le banane, che contengono un isotopo del Potassio, non sarebbero commercializzabili in Giappone.

Come potrebbero reagire i mercati?

Difficile dirlo. Dall’incidente di Fukushima il commercio di frutta e verdura del Giappone è crollato. Molte derrate mandate in Unione Europea sono state rispedite subito indietro, non perché superassero i limiti di legge, ma per una questione di sfiducia. Il consumatore è molto diffidente e spaventato, perché teme una nuova Chernobyl. Questo è anche abbastanza logico:  ai tempi  in Italia era stato addirittura vietato ai bambini di prendere il latte che veniva dal campo o le insalate in foglia e vi sono dati che indicano come persone che avevano 10-15 anni nel 1986 abbiano sviluppato in età adulta molti più tumori alla tiroide della fascia di età di 5 anni più giovane o più vecchia. A distanza di decenni. La paura che qualcosa di simile possa ricapitare è forte, anche se, per fortuna, le condizioni sono molto diverse.

Che dire invece di quello che si può imparare a livello scientifico?

A livello scientifico l’interesse è davvero tanto. Su Chernobyl, come detto, non c’erano molte informazioni e i ricercatori impiegarono tanto tempo per ottenere un numero limitato di campioni. A Fukushima, invece, se si escludono le zone più a rischio, il governo giapponese non ha posto vincoli: i primi articoli successivi all’accaduto (Marzo 2011) fanno riferimento a campionamenti effettuati a Maggio. In questo modo è stato possibile da allora fino a oggi studiare suolo, insetti, uccelli e piante, potendo finalmente fare un confronto tra le situazioni dei due incidenti. In un articolo dell’anno scorso si è cercato di capire quali potessero essere dei buoni bioindicatori e vedere la diversa sensibilità delle specie alle radiazioni. Ad esempio si è visto che le rondini avevano subito all’incirca le stesse mutazioni, mentre alcune farfalle mutanti riscontrati a Fukushima non erano state trovate a Chernobyl. Lo stesso vale per il riso: sappiamo che le radiazioni attivano dei geni legati allo stress, ma ora si è capito che esistono dei geni specifici non attivati per gli altri tipi di stress. Dunque Fukushima può essere visto come una grande stazione sperimentale all’aperto dove poter studiare gli effetti delle radiazioni sui sistemi biologici e costruire dei modelli per eventuali incidenti futuri, che si spera ovviamente di non dover mai applicare.

La storia dei diamanti – nascita e fine del monopolio De Beers

Fonte: http://investirediamanti.org/la-storia-del-diamante

Un diamante allo stato grezzo è puro carbonio che milioni di anni fa si è trasformato in maniera naturale in un cristallo trasparente cristallizzandosi grazie alla sinergia di pressione e calore elevatissimo.

Queste gemme  hanno diverse applicazioni, grazie alle eccezionali caratteristiche fisiche del materiale di cui sono composte. Le caratteristiche più rilevanti sono l’estrema durezza, l’indice di dispersione ottica, l’elevata conducibilità termica.

Le prime testimonianze della sua esistenza risalgono al quarto secolo a.C. . Ben presto il diamante assunse un alto valore, anche soprannaturale. La pietra era considerata la più preziosa e la più dura. Per questa ragione assunse  un significato simbolico importante e veniva utilizzata nei riti religiosi.

miniera diamanti

Fino al XVIII secolo l’India è stato l’unico produttore. La corsa ai diamanti è nata alla fine dell’800 dopo la scoperta di importanti miniere nel sud dell’Africa.

La scoperta diede l’avvio a successive scoperte e alla corsa ai diamanti che sconvolse l’economia del luogo.  Dopo questa scoperta infatti il Sudafrica divenne un importante centro di estrazione del diamante, e a livello mondiale, sostituì l’India che ormai aveva esaurito i propri centri di estrazione.

I terreni  interessanti erano parte di grandi fattorie agricole che non accolsero di buon grado i ricercatori di diamante che invadevano i loro poderi . Fra questi anche i fratelli De Beers, i quali vendettero i loro terreni entro i cui campi furono individuate le cinque più famose miniere.

Cecil Rhodes, fiutò il nuovo business e iniziò a comprare molte di queste miniere, inclusi i terreni della famiglia De Beers. A inizio ‘900 Rhodes  aveva acquisito così tante proprietà da detenere la maggioranza della fornitura mondiale di diamanti grezzi. Chiamò la sua società De Beers Consolidated Mines Limited.

I diamanti divennero noti soprattutto nel XIX secolo, periodo che coincise con il progressivo miglioramento del taglio della gemma. Il diamante assunse notevole importanza nella gioielleria grazie alla capacità di conservare la propria lucidatura per lunghi periodi.

Nel 1925 il finanziere Ernest Oppenheimer rilevò la maggioranza della società e sotto la sua proprietà De Beers rafforzò ulteriormente il controllo di tutta la filiera. Infatti anche tutti gli altri produttori di diamanti grezzi si servivano dei canali di De Beers per la vendita sul mercato. Era nato un vero e proprio cartello, che consentiva a Oppenheimer di influenzare l’offerta e quindi il prezzo.

La Russia, ai tempi il maggior produttore in termini di valore, all’inizio si accordò per vendere tramite la CSO di De Beers, mantenendo quindi intatto il cartello. La produzione russa era caratterizzata da grandi quantità e bassa qualità. Per De Beers questo era un problema perché anticipava i pagamenti ai russi rispetto alla vendita di un prodotto che non aveva ai tempi un grande mercato. Fu proprio in questo periodo che coniò il famoso slogan “Un diamante è per sempre” trasformando ed espandendo il mercato alla classe media americana e mondiale al fine di assorbire la nuova produzione.

Il collasso dell’Unione Sovietica determinò la fine del monopolio di De Beers. Il caos politico e finanziario e la debolezza del rublo indussero le miniere russe ad uscire dall’accordo. Poco dopo ruppe le intese anche quella che era ai tempi la maggiore produttrice di diamanti in termine di volumi, l’australiana Argyle Mine. In pochi anni altre società minerarie uscirono e anche le nuove miniere canadesi rimasero indipendenti.

Da una quota di mercato del 90% degli anni ’80, De Beers scese a meno del 60% alla fine dei ’90. Nel 2000 De Beers non aveva più il controllo del mercato! Quali effetti potrà avere questo sul mercato dei diamanti e sul tuo investimento è illustrato nella Guida “Investire in Diamanti“.

Oltre alla semplice storia dei diamanti, è interessante conoscere la storia commerciale di questa pietra, vale a dire le motivazioni commerciali e psicologiche che nel corso dell’ultimo secolo hanno spinto l’acquisto di queste gemme e come questo sia stato costruito grazie anche al contributo della pubblicità.  La storia completa la potrai leggere nella Guida.