La brutta figura degli 007 inglesi in Libia

Scritto da: da Nicol Degli Innocenti
Fonte: Stampa Libera 

Le forze speciali britanniche torneranno in Libia per approfondire i legami con l’opposizione al regime del colonnello Gheddafi: lo ha dichiarato oggi il ministro degli Esteri William Hague, affermando che si tratta di “parte integrante dell’opera diplomatica e umanitaria che la Gran Bretagna svolge in Libia”. Hague tenta cosí di smorzare le polemiche sulla missione fallita delle SAS, e oggi pomeriggio riferirá al Parlamento per chiarire i molti dettagli ancora oscuri della vicenda.

Otto membri delle SAS, l’élite delle forze armate, stanno rientrando in patria a bordo di una nave della Marina britannica dopo essere stati liberati ieri sera dalle forze ribelli. Secondo voci non confermate facevano parte della missione anche due funzionari dei servizi segreti di MI6. Il team britannico era stato arrestato quando il loro elicottero era atterrato a Bengasi giovedí senza avere ottenuto il permesso dei comandanti dei ribelli, e armi, esplosivi, cartine e passaporti falsi erano stati trovati a bordo. I ribelli li avevano presi per mercenari e li avevano arrestati. Ad aumentare l’imbarazzo della cattura, la telefonata dell’ambasciatore britannico in Libia, Richard Northern, a uno dei capi dei ribelli per “chiarire il malinteso” e chiedere il rilascio dei prigionieri era stata registrata e trasmessa dalla televisione di Stato libica.

Oltre al danno per la reputazione delle forze speciali britanniche per una missione segreta fallita in modo cosí spettacolare per una serie di banali errori, l’episodio rischia di danneggiare la Gran Bretagna. Si teme infatti che il colonnello Gheddafi possa usare l’intervento delle SAS come una prova che la ribellione al suo regime non è spontanea e “indigena”, ma fomentata e finanziata da forze esterne e Governi stranieri che vogliono impadronirsi del petrolio libico.

Ieri il primo ministro David Cameron ha ribadito la posizione della Gran Bretagna che Gheddafi deve farsi da parte al piú presto per permettere la transizione a un Governo democratico in Libia. “E’ ora che Gheddafi se ne vada”, ha detto il premier.

Suor Tiziana Maule, missionaria delle Suore Dototee di Vicenza, ci comunica alcune brevi e intense notizie riguardanti la situazione in Costa D’Avorio attraverso una lettera

Ho già perduto dei messaggi informativi , oggi riprovo per cercare di inviare delle notizie aggiornate. 

Non sappiamo cosa trasmettono i media, la situazione della Costa d’Avorio sta aggravandosi, sono in aumento le rappresaglie, gli imboscamenti e gli affrontamenti in diverse città e quartieri del paese. Gli scontri più gravi si passano ad Abobo, poco lontano da Angre, ed essi avvengano tra le forze militari di Stato e i ribelli che non si contraddistinguono e i civili.

 La gente abbandona le case e a piedi o con qualche mezzo di fortuna raggiungono i villaggi vicini e si accampano presso parenti, conoscenti, parrocchie e comunità religiose. Da 2 settimane sparano e il controllo della situazione sfugge di mano

Noi di Alèpè siamo ancora preservate dalla confusione, ma siamo sollecitate a sostenere, curare gli ammalati, i bambini e agli adulti in difficoltà. Oggi le Suore di Angrè Sr Rachelle, Sr Anastasie, Sr Sylvie, e Pelagie Kodia con le novizie sono arrivate ad Alèpè, le abbiamo alloggiate in tre stanze nel foyer e con loro abbiamo programmato la giornata. Era prevvisto che le novizie con Sr Anastasie andassero a Dabrè, ma questa notte hanno bruciato a Domolon le case, le piccole boutique e in minicar dei doula presunti sostenitori del partito d’opposizione.

Ci si attende la revindicazione che non mancherà, per questo motivo le novizie sono ad Alèpè. Sr Justine con sr Pelagie Amon e Sr Adelina sono rimaste ad Angre. Sr Clara si trova in Togo e ritornerà se sarà possibile con Sr Grazia mercoledì.

Le giovani Suore e le novizie sono assicurate delle disponibilità di comunicare con i parenti che vivono nei quartieri a rischio, per il resto noi continuiamo le nostre attività. Per  le ragazze del foyer era prevvisto il ritorno per oggi alcune sono arrivate altre sono rimaste a casa, la scuola funziona a singhiozzo solo qualche ora, noi approfittiamo delle nostre giovani suore e novizie per assisterle e accompagnarle nello studio quando sono a casa.

Ci affidiamo al Signore e alle vostre preghiere un grande abbraccio Suor Tiziana Maule

Quirra, radiazioni pericolose? Sotto sequestro anche il mare

Fonte: http://www.libreidee.org/

La denuncia arriva da Bettina Pitzurra, attivista dell’Irs e componente del Comitato per la salvaguardia ambientale del Sarrabus. «Dopo un’immersione subacquea nei pressi di Capo San Lorenzo a Quirra, quattro turisti milanesi hanno perso tutti i denti nel giro di pochi mesi», ha dichiarato l’insegnante di Castiadas ai microfoni degli inviati di “Current tv”, il canale satellitare sulla piattaforma Sky di Rupert Murdoch. In più ci sono le denunce raccolte in questi giorni dalla Procura di Lanusei e dalla Squadra mobile di Nuoro: diverse persone hanno dichiarato di essersi ammalate dopo aver fatto il bagno a Quirra», dove si inabissano i missili sparati da Perdas de Fogu.

Testimonianze tutte da verificare, dice Paolo Carta dell’“Unione Sarda”, sulle quali stanno lavorando gli inquirenti che stanno cercando di far luce sull’alta incidenza di tumori nei pastori e di malformazioni negli agnelli segnalate da un rapporto dei veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari. Il sospetto è che le attività del poligono, anche quelle risalenti a vent’anni fa, possano aver determinato questa che secondo i pacifisti è una strage. Si indaga per omicidio plurimo colposo, disastro ambientale, porto abusivo di armi illegali, anche per omesso controllo. Ormai non ci sono più dubbi, scrive il “Corriere della Sera”: nel poligono di Quirra, dove si svolgono esercitazioni e test missilistici, c’è l’uranio.

Due settimane fa il procuratore Domenico Fiordalisi aveva ordinato il sequestro probatorio dei fondali marini davanti all’area di addestramento marino del Salto di Quirra. Sul fondale i subacquei avevano individuato numerosi ordigni a pochi metri di profondità. L’inchiesta è stata avviata per accertare se vi siano relazioni fra le esercitazioni militari effettuate nella zona e i casi di tumore e malformazioni. La svolta nell’inchiesta – aperta a metà gennaio dalla Procura di Lanusei per fare chiarezza sui numerosi casi di linfoma di Hodgkin che hanno colpito la popolazione e alcune malformazioni negli animali – è arrivata il 26 febbraio, al termine delle ispezioni ordinate dal procuratore Fiordalisi in due magazzini nella base e a Capo San Lorenzo, dopo che la pioggia aveva fatto affiorare dal terreno parti di missili e di radiobersagli.

«Sono state sequestrate cinque cassette metalliche dove i rilevatori hanno registrato valori di radioattività cinque volte superiori alla norma e l’intero deposito dove erano custodite», scrive il “Corriere della Sera”, che aggiunge: «Sono stati portati via anche tutti i documenti (disposizioni interne, ordini di servizio, turni di lavoro, regolamento dei magazzini) con i quali si potranno accertare responsabilità, soprattutto sul fatto che sia all’ingresso del magazzino, sia sopra le casse, non erano stati posti i segnali necessari a distinguere la presenza di materiale radioattivo».

Una squadra di poliziotti e vigili del fuoco specializzati, accompagnati dalla dottoressa Maria Antonietta Gatti (responsabile del Laboratorio dei biomateriali del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Modena e Reggio Emilia) e dal fisico nucleare professor Paolo Randaccio hanno fatto un sopralluogo nella base militare facendo la scoperta che forse apre definitivamente uno squarcio sull’intera vicenda. Il materiale è ora nel bunker dell’Università di Cagliari. «Da un primo esame – continua il “Corriere” – il materiale potrebbe essere stato usato dall’Aeronautica tedesca durante esercitazioni effettuate negli anni ‘60-’70 e poi interrato dopo la bonifica, ma spetta ora agli specialisti analizzare più approfonditamente i reperti».

I controlli nei due magazzini sarebbero stati decisi dopo le deposizioni testimoniali di due militari, un siciliano e un campano, che hanno lavorato per due anni al poligono con mansioni di magazzinieri nei depositi dei materiali speciali. I due si ammalarono di linfoma non Hodgkin quando erano ancora in servizio, racconta il “Corriere”. Sottoposti a chemioterapia, erano rientrati in servizio ma sono stati riformati dopo una recidiva delle malattia. I due ex militari avrebbero segnalato agli inquirenti anche i nomi di altri colleghi colpiti dalla stessa malattia dopo il servizio al poligono di Quirra-Perdasdefogu.

Secondo “Indipendentzia Repubrica de Sardigna”, nonostante gli appelli a sospendere ogni attività per consentire lo svolgimento dell’inchiesta, nel poligono di Quirra si continua a sparare. Il movimento indipendentista sostiene di aver ricevuto allarmate segnalazioni dagli abitanti della zona di Quirra su numerosi tiri effettuati martedì 22 febbraio da un grosso cannone navale dal porto a mare di San Lorenzo. Anche nei giorni successivi sarebbe proseguita l’attività di sperimentazione, secondo gli indipendentisti condotta dall’Oto Melara, leader mondiale nella produzione delle artiglierie navali e veicoli blindati, munizioni guidate e sistemi antiaerei.

Intanto, il Senato ha dato il via libera al quarto giro di indagini conoscitive, approvando la verifica di “possibili rischi per la popolazione”  e l’eventuale sospensione delle attività di sperimentazione militare nella base sarda. Ma i tempi sono lunghi e c’è confusione sulle metodologie d’indagine da utilizzare, scrive Sirio Valent su “Diritto di critica”. Lo stop potrebbe anche non arrivare mai. «Entro il 30 giugno, il governo dovrà rendere noti i risultati delle analisi» della Commissione tecnica di esperti e consegnarli alla Regione. Ma lo stop alle attività sperimentali di armi nel Poligono di Quirra giungerà soltanto «ove dalle analisi dovessero emergere oggettive situazioni di rischio per gli abitanti e il personale della base».

Insomma, Quirra non chiude. «Resterà attivo fino all’estate, in attesa dei risultati dell’indagine», osserva Valent: «Come dire, se dimostrate che è davvero pericoloso, allora chiudiamo il poligono. Ma chi garantirà sulla validità scientifica delle analisi?». Negli ultimi otto anni, ricorda “Diritto di critica”, l’area è stata sottoposta a ben quattro indagini. La prima nel 2002, affidata dal ministero della Difesa all’Università di Siena, conclusasi con un “nulla di cui preoccuparsi”. Nel 2004, “tutto è a posto” per gli esperti chiamati ad effettuare uno studio epistemiologico a Villaputzu. Ci riprova la Regione nel 2006, varando un mega-studio su 26.000 abitanti: «Ne risulta un numero anomalo di tumori al sistema emolinfatico, ma non basta», precisa Valent. «Il nesso diretto poligono-tumori non emerge, perchè nessuno riesce a dimostrare o negare la presenza di uranio impoverito in modo irrefutabile».

Perchè tanti flop? Forse dipende da chi fa le indagini. Il fisico nucleare Evandro Lodi Rizzini lo sostiene dal 2001 (intervista sul “Corriere della Sera” del 21 marzo di quell’anno): non possono essere i medici o gli esperti ambientali a cercare il materiale radioattivo incriminato, tocca ai fisici nucleari. Quelli che ora, finalmente, sono stati incaricati dalla Procura di Lanusei di analizzare a fondo il materiale militare sequestrato nella base sarda. Da Quirra, sospettano gli ambientalisti, potrebbe venire un contributo importante per far luce sulle varie “sindromi di guerra” che colpiscono militari rimasti a contatto con proiettili pericolosi.

Un recente esame spettrometrico in Francia, aggiunge Valent, ha rilevato tracce di uranio impoverito nelle ossa del cadavere di un soldato reduce dai Balcani: il caso di Ludovic Acariès, morto nel 1997 all’età di 27 anni per un linfoma, è ora all’attenzione della giustizia francese in quanto i familiari hanno chiamato in causa, per far luce sulla morte, il ministero della Difesa. «Proprio come i nostri ragazzi tornati dalla guerra in Jugoslavia e morti nel giro di pochi mesi di tumore», conclude “Diritto di critica”: «La cosa interessante è che lo stesso cadavere di Acariès era stato analizzato nel 2005 da un’equipe italiana: non avevano trovato niente, solo metalli pesanti come cromo e ferro».

Gli antichi microscopi davano risultati paragonabili a quelli moderni

Fonte: http://www.ditadifulmine.com

Come fece Antony van Leeuwenhoek, uno dei pionieri della microscopia, a scoprire batteri, protozoi e spermatozoi nel lontano XVII° secolo?
Si è sempre pensato che i microscopi del tempo potessero fornire immagini molto sfocate, che di certo non avrebbero consentito uno studio dettagliato degli organismi osservati. Si è addirittura ipotizzato che Robert Hooke, altro pioniere del microscopio, avesse lavorato di fantasia nel ricreare ciò che vedeva con i suoi strumenti

Ma Brian Ford, specialista nella storia e nella costruzione di microscopi per l’Università di Cambridge, non crede affatto che gli antichi microscopi fossero delle macchine imprecise. Come si fa infatti a descrivere alla perfezione un protozoo o la peluria della zampa di una pulce con uno strumento che fornisce immagini sfocate?

Analizzando più a fondo le capactà dei microscopi di Leeuwenhoek e di Hooke, Ford ha ottenuto risultato che ha definito “mozzafiato”, dimostrando che è possibile ottenere immagini paragonabili a quelle dei microscopi ottici moderni.

E’ tutta una questione di luce e di focalizzazione corretta: contrariamente alle immagini mostrate nei musei, gli antichi microscopi erano in grado di fornire dettagli simili a quelli di un comune microscopio moderno.

Queste, ad esempio, sono due immagini di una pulce. Quella è sinistra è in esposizione al Whipple Museum for the History of Science dell’Università di Cambridge, ed è stata ottenuta con un microscopio del XVIII° secolo.
Ma anche l’immagine a destra è stata ottenuta con lo stesso tipo di tecnologia (una perfetta replica, per essere esatti, dello stesso microscopio antico), ma focalizzando l’immagine in modo corretto.

Questa, invece, è un’altra coppia di immagini che mostra come un utilizzo non corretto degli antichi microscopi abbia portato ad avere una concezione sbagliata dell’abilità dei nostro avi.

A sinistra, la ricostruzione della prima osservazione di cellule vegetali condotta da Robert Hook. Il documentario della BBC THe Story of Science sostenne che non era possibile fare di meglio con uno strumento dell’epoca, ma Ford ha ottenuto l’immagine a destra utilizzando lo stesso microscopio.

Ford è giunto a questi risultati dopo che gli fu concesso l’accesso ai microscopi originali di Leeuwenhoek, custoditi all’ Utrecht University Museum.
Ricordo che gli strumenti di Leeuwenhoek avevano una sola lente, una piccola sfera di vetro che di certo era più difficile da utilizzare e da creare rispetto ai microscopi a lenti multiple di oggi, ma dava risultati migliori in termini di risoluzione (tecnica sfruttata di recente per migliorare il microscopio ottico moderno).
“L’abilità di questi pionieri della microscopia erano molto più grandi di quanto sia stato riconosciuto loro” conclude Ford.

Confiscato in Argentina un velivolo cargo militare USA di una operazione coperta in Sud America; agenti della CIA sotto inchiesta

Scritto da : Andrade Mario Traduzione di Alessandro Lattanzio per http://sitoaurora.xoom.it/
Fonte: DeadlineLive   

Le autorità dell’Argentina non restituiranno la merce confiscata ai militari degli Stati Uniti, nonostante le proteste diplomatiche dell’amministrazione Obama e del Dipartimento di Stato. Il governo argentino ha rilasciato ulteriori informazioni sul cosiddetto ‘carico d’addestramento alla sicurezza’ che è stato sequestrato la scorsa settimana.
Tra i quasi mille metri cubi di merci confiscate, i funzionari doganali hanno trovato diverse armi, attrezzature per intercettazioni, sofisticati localizzatori GPS, uniformi di sicurezza fasulli e psicofarmaci, tra cui dosi di morfina scaduta. Tutto il carico sequestrato era contenuta in casse di legno contrassegnate ‘7° Gruppo Forze Speciali, Ft. Bragg, North Carolina’, secondo il giornalista argentino Walter Goobar .
Alcuni dei farmaci trovati, secondo Tercera Información News Service, erano adrenalina, ketamina, solfato alcaloide di morfina, midazolam, naloxone, OxyContin e l’oppioide semi-sintetico nalbufina.
MercoPress News Agency ha riportato che in dogana hanno trovato anche “dispositivi di comunicazione altamente sensibili – e una lettera che diceva in spagnolo: ‘Io sono un soldato americano, lasciate che il mio paese sappia che sono stato arrestato’.” Questa è una lettera standard che i militari degli Stati Uniti utilizzano quando vengono catturati in paesi stranieri, e sembra indicare che almeno una parte del carico era stato consegnato alle truppe statunitensi impiegate in qualche parte del Sud America.
Alla luce di questo incidente di contrabbando, le autorità in Argentina hanno scoperto un importante anello di operazioni coperte di contrabbando, coinvolgendo diversi funzionari del governo, giudici e agenti federali che ricevono e danno il via libera a tali spedizioni, ricevendo ordini direttamente dai militari degli Stati Uniti del SOUTHCOM (Southern Command). Molte delle attrezzature erano classificate ’segrete’.
Il carico illegale era stato apparentemente richiesto da ex agenti dell’FBI e della CIA, che starebbero lavorando nel settore privato, in Argentina. Lo scopo presunto delle attrezzature sarebbe addestrare le forze militari argentine per ‘le situazioni con ostaggio’. Questi ex (o apparentemente ancora attivi) agenti di CIA e FBI sono oggetto di indagine.
L’aereo militare, apparentemente un C-17 Globemaster III dell’USAF, con la matricola AMC-77184, è ancora sequestrato all’interno dell’aeroporto di Ezeiza, in Argentina.
Nel settembre del 2010, c’è stato un incidente simile, dove la stessa ambasciatrice statunitense, Vilma Martinez, ha dovuto rifiutare una spedizione perché vi era un carico non dichiarato di attrezzature sospette. A quanto pare, questa volta, le autorità in Argentina hanno avuto una svolta nel caso della black operation del contrabbando di armi. Molti commentatori ritengono che il materiale era diretto alla vicina Bolivia.

A ciascuno il suo Eichmann

Scritto da: Christian Elia
Fonte: http://it.peacereporter.net 

Uno degli assassini di Srebrenica arrestato in Israele, dove viveva dal 2006

Ormai pensava di averla fatta franca. Quindici anni dopo la strage di Srebrenica lo zelante soldato Aleksander, il boia Aleksander, pensava di potersi godere la sua nuova vita, con moglie e figli, quando il governo israeliano aveva concesso la cittadinanza israeliana. Adesso è stato arrestato, a Gerusalemme, in attesa di estradizione verso la Bosnia – Erzegovina.

Ha sbagliato i suoi calcoli, però. Perché il governo di Sarajevo, come il vecchio Simon Wiesenthal faceva con i nazisti, non ha mai smesso di dare la caccia ai criminali di guerra. Aleksander Cvetkovic é uno di loro. Tra gli esecutori materiali del massacro più grande della storia recente d’Europa. Miliziano delle formazioni serbo-bosniache durante la guerra in Bosnia, nel 1995 era tra coloro che massacrarono in poco più di ventiquattro ore almeno ottomila civili musulmani dell’enclave di Srebrenica e dintorni.

Alla fine della guerra, nel 1995, ha fatto perdere le sue tracce, come tanti altri. Molti, in questi anni, sono stati catturati. Lo stesso Radovan Karadzic, leader politico dei serbi di Bosnia, langue nel carcere dell’Aja in attesa che il Tribunale Internazionale per la ex Jugoslavia emetta la sua sentenza. Manca all’appello ancora il generale Ratko Mladic, comandante militare dei serbo-bosniaci, ma si spera che arriverà presto il suo turno.

Cvetkovic, oggi, ha 43 anni. Ha sposato una donna ebrea e, in base alla Legge sul Ritorno israeliana, che permette a ogni ebreo del mondo di chiedere e ottenere la cittadinanza d’Israele se si trasferisce a vivere nel Paese, ha ottenuto anche lui la regolarizzazione. Il mandato di cattura della magistratura bosniaca è stato recepito da quella israeliana e sarà una corte distrettuale di Gerusalemme a stabilire, nei prossimi giorni, se il fermo di polizia possa tramutarsi in estradizione.

Un problema non da poco, per Israele. In quanto cittadino israeliano, infatti, le accuse di Cvetkovic potrebbero non rientrare nella fattispecie dei crimini riconosciuti da Israele per l’estradizione. Tel Aviv, infatti, non ha mai ratificato i tribunali internazionali. Temendo di vedere, un giorno, i suoi militari o i suoi politici inquisiti per gli stessi crimini.

Uno strano senso del diritto, questo. Nel 1960, a Buenos Aires, un commando del Mossad (servizio segreto israeliano) sequestrò Adolf Eichmann, gerarca nazista e ufficiale delle SS, con un ruolo di primo piano nello sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra mondiale, che si era rifugiato nell’America Latina dopo la guerra. Eichmann, senza che il governo argentino venisse coinvolto, venne trascinato in Israele, giudicato e condannato a morte.

Lo spirito di quell’iniziativa era lampante. Non deve esistere nessun posto sicuro, al mondo, per chi si è macchiato di un crimine orrendo come quello della Shoah. Non è da meno il massacro di Srebrenica e lascia per lo meno esterrefatti che un Paese come Israele, noto per le sue procedure di sicurezza, non sapesse chi era Aleksander Cvetkovic quando questi ha richiesto la cittadinanza israeliana. Lascia ancora più perplessi, però, il mancato riconoscimento dei tribunali internazionali che proprio da quello di Norimberga presero la loro legittimazione etica e giuridica.

Madagascar, quando paga la foresta

Scritto da:Alberto Tundo
Fonte: http://it.peacereporter.net 

Nell’isola africana la crisi politica ha rimesso in moto il commercio illegale del legname pregiato. E in Somalia al Shabaab brucia gli alberi

Un pezzo alla volta, ampie aree di foresta sono sparite e con la stessa velocità scompariranno ancora se il trend non viene arrestato. In Madascar e Somalia l’abbattimento illegale degli alberi, una piaga in tutto il continente, ha avuto un nuovo e improvviso boom, che ha alla base un contesto politico segnato dal caos e dalla tensione e da gruppi che hanno bisogno di fare cassa.

In Madagascar, dopo che negli ultimi anni si erano registrati forti progressi nella gestione e nella protezione di un patrimonio forestale quasi unico, nel 2010 si è tornati indietro, alla pratica dell’abbattimento selvaggio degli alberi di palissandro che crescono nelle aree protette dell’isola, i quali danno un legno pregiato che viene rivenduto con ottimi margini di guadagno. Come ogni forma di contrabbando, anche quello del legname fiorisce soprattutto in un contesto di instabilità e disordine e il caso del Madasgar non fa eccezione. Il ritorno alle pratiche che l’ultima amministrazione aveva combattuto – e vinto – coincide con la violenza elettorale del 2009 e con il colpo di stato di Andry Rajoelina: in poco più di un anno, sono spariti 20 mila ettari di foresta, oltre centomila alberi ad alto fusto sono caduti in alcune delle zone più ricche e preziose dal punto di vista della biodiversità. Rajoelina aveva promesso ad una opinione pubblica sempre più nervosa e ai gruppi ambientalisti sempre più preoccupati di porre un freno all’attività dei disboscatori. Aveva promesso di destianre risorse economiche all’implemantazione di un piano di salvaguardia della foresta e che avrebbe chiesto ai principali acquirenti – Cina in testa – di non comprare legname pregiato di contrabbando. Belle parole che non hanno avuto seguito, denuncia il Wwf. Difficile che il presidente golpista possa attivarsi realmente, perché il suo regime è isolato ed economicamente alla canna del gas.

Il traffico di legname è l’ultima risorsa alla quale hanno fatto ricorso i miliziani somali di al Shabaab. Non è proprio la legna ciò a cui sono interessati, in realtà, ma il carbone che ricavano dalla combustione degli alberi. Il governo di transizione federale aveva vietato questa attività, che comunque è rifiorita nelle parti del Paese in mano alla milizia filo-qaedista. Una volta la merce veniva imbarcata nei porti di Kisimayo, Mogadiscio e Merka e di fatto in queste ultime due località adesso è considerata illegale e non viene movimentata: resta Kisimayo, per il cui porto passa tra l’80 e il 90 per cento del carbone in uscita dalla Somalia. E’ qui, nella città in mano da al Shabaab, che bisogna venire per toccare per vedere quali gruppi alimentino un traffico che rende, non c’è che dire: una busta di carbone costa a chi lo vende cinque dollari e rende tre volte tanto. Raccontano testimoni oculari che ogni settimana sono almeno tre, spesso quattro, le navi cariche di carbone che lasciano il porto di Kisimayo dirette verso i Paesi del Golfo e verso l’Arabia Saudita. Una volta, racconta l’agenzia Irin in una sua corrispondenza, questo traffico era a bassa tecnologia e a bassa rendita. Ora non è più così, ora i gruppi che abbattono gli alberi e li bruciano possono contare su motoseghe di ultima generazione e su un equipaggiamento all’avanguardia. Ma anche nella poverissima e ingovernabile Somalia, non sono pochi quelli che credono che in questo modo al Shabaab stia infliggendo un danno inestimabile al Paese e alla sua popolazione, soprattutto perché la crescita della deforestazione comporta quella del rischio siccità. “E’ un’attività molto più pericolosa della pirateria – si dispera il deputato Ibrahim Abeb – questi criminali vanno fermati”. Sarebbe bene farlo subito, perché secondo l’International Fund for Agricultural Development presto i danni saranno irreversibili.

Affari e misteri sulla rotta Italia – Libia

Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/

 

Sono ancora tante le zone d’ombra nella storia delle relazioni politiche e militari tra Italia e Libia. Il 31 ottobre scorso, il ministro degli Esteri libico Abdurrahman Shalgam, ha ulteriormente complicato il lavoro di storici ed analisti, rivisitando gli eventi di guerra della primavera 1986, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, diede l’ordine di bombardare Tripoli e Bengasi. La notte del 14 aprile decine di cacciabombardieri F-111 schierati in due basi britanniche e gli aerei della VI Flotta di stanza nel Mediterraneo distrussero caserme militari e abitazioni civili, causando la morte di 37 persone. Obiettivo del blitz Usa l’assassinio del colonnello Muammar Gheddafi, accusato – senza prove – di finanziare il terrorismo internazionale.

“Avvisate il colonnello!”

“Gheddafi si salvò – ha dichiarato Abdurrahman Shalgam – perché due giorni prima dell’aggressione Craxi mi mandò un amico comune italiano per dirmi: ‘Attenti, il 14 o il 15 aprile ci sarà un raid americano contro di voi’. In quell’occasione gli Stati Uniti utilizzarono la base di Lampedusa, ma contro la volontà del governo italiano, perché Roma era contraria all’uso dei cieli e dei mari nazionali per l’aggressione”.

Per il ministro libico, l’Italia faceva il doppio gioco. Nel nome dei comuni interessi (principalmente le forniture petrolifere all’Eni), l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi avrebbe chiesto al proprio consigliere diplomatico, l’ambasciatore Antonio Badini, di preavvertire il governo libico delle intenzioni di guerra del partner Nato. Allo stesso tempo Palazzo Chigi sosteneva l’intervento “anti-terrorismo” di Washington. Un equilibrismo sul filo del rasoio. Se è pur vero, infatti, che in occasione dell’attacco Usa del 14 aprile 1986 l’Italia non autorizzò i bombardieri Usa a sorvolare lo spazio aereo nazionale, gli aerei cisterna per rifornire in volo gli F-111 partirono da una base Usa in Italia (probabilmente Sigonella), mentre tutti i porti civili e militari siciliani ospitarono le soste tecniche delle unità navali della VI flotta, alla vigilia e dopo i bombardamenti su Tripoli e Bengasi.

“Quell’attacco americano fu un’iniziativa impropria, un errore di carattere internazionale”, ha commentato Giulio Andreotti, al tempo ministro degli Esteri del governo Craxi. “E credo proprio che dall’Italia partì un avvertimento per la Libia”, ha aggiunto il senatore a vita, confermando le “rivelazioni” libiche. Ancora più esplicita la vecchia guardia del partito socialista italiano. “Gheddafi salvato da Craxi?”, ha dichiarato Gianni De Michelis, più volte alla guida della Farnesina e ministro del lavoro nei giorni del conflitto Usa-Libia. “Si sapeva da tempo che i rapporti tra Roma e Tripoli erano più che buoni. Se c’è un filo conduttore tra la Prima e la Seconda Repubblica è senza dubbio il rapporto tra Roma e Tripoli. Da Andreotti a Craxi fino a Berlusconi, Prodi e D’Alema, si è sempre mantenuto saldo il rapporto. La Libia è quasi parte d’Italia e noi non abbiamo fatto mai mistero delle nostre idee e dei nostri contatti coi libici (…) Craxi fece avvertire il governo libico e anche gli americani subito dopo cercarono agganci, tant’è che alla fine hanno trovato una composizione anche per la strage di Lockerbee”. Anche l’allora responsabile esteri del Psi, Margherita Boniver, ha confermato l’“aiuto” di Bettino Craxi: “L’operazione militare non era condivisa e per questo il governo italiano mise in guardia Gheddafi. Ed usò tutti i mezzi a sua disposizione…”.

La rivisitazione storica di quegli eventi era già iniziata, sempre in casa dell’(ex) garofano, durante la campagna di beatificazione del defunto leader socialista. “Fu Craxi a informare Gheddafi dell’imminente blitz americano, permettendo al leader libico di salvarsi”, rivelò nel 2003 Cesare Marini, senatore Sdi. Non è stato dunque uno scoop quello di Abdurrahman Shalgam. Del doppio canale diplomatico si sapeva da tempo.


Giochi di guerra nel Mediterraneo

Ecco perché le dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’esecutivo libico hanno prodotto forti perplessità e qualche risentimento tra alcuni dei protagonisti politici che nel biennio 1985-86 si opposero alla campagna di guerra nel Mediterraneo, denunciando altresì l’asfissiante processo di militarizzazione della Sicilia che ne derivò. Gli esponenti dell’allora forte movimento pacifista siciliano ricordano che l’Italia era in prima linea contro la Libia a fianco di Washington e che proprio Bettino Craxi e l’intero partito socialista erano tra i più accesi denigratori dei pacifisti, accusati tutti di essere manovrati e finanziati da Gheddafi. L’on. Agostino Spataro, ex componente Pci delle Commissioni Affari esteri e Difesa della Camera dei Deputati, ricorda su Aprile che nonostante l’“avviso”, sotto le bombe statunitensi morì la figlioletta adottiva di tre anni del colonnello libico. “In realtà – spiega l’ex parlamentare – quella notte è accaduto quello che da tempo si temeva, e si sapeva, ovvero che l’amministrazione Reagan aveva già pianificato l’attacco alla Libia”.

Spataro aggiunge che a seguito dell’attacco, il 15 aprile 1986, la Libia rispose con il lancio di due missili Scud contro la stazione Loran dell’Us Guard Coast ospitata nell’isola di Lampedusa. “Gheddafi, infuriato per la vile, indiscriminata aggressione, non indirizzò la rappresaglia verso uno dei tanti possibili obiettivi Usa, ma scagliò i suoi missili contro l’Italia ovvero contro il paese-amico il cui capo del governo l’aveva avvisato dell’imminente pericolo. Ma quei due missili partirono dal suolo libico e soprattutto raggiunsero effettivamente Lampedusa? Già allora affiorarono seri dubbi, sia per la scarsa potenzialità ed efficienza della tecnologia militare libica e sia per fatto, non secondario, che i lampedusani non si accorsero dell’arrivo dei due potenti ordigni. Ancora oggi si sconosce il punto esatto dell’impatto. Nessuno è in grado di dimostrare che i due missili siano arrivati a Lampedusa e o nelle sue immediate vicinanze”.
 

Per il socialista Cesare Marini si trattò di mera “finzione”: il lancio dei missili su Lampedusa fu solo un espediente depistante, “utilizzato per coprire l’amico italiano” d’avanti agli Stati Uniti. “Di certo io non mi sono spaventato”, ha dichiarato l’immancabile Giulio Andreotti. “La mia sensazione è che i missili furono lanciati ma volutamente fuori bersaglio: non c’era nessuna volontà di causarci dei danni”. Una vera e propria fiction di guerra, dunque.
 

Il pomeriggio del 15 aprile 1986, gli abitanti di Lampedusa avvertirono due boati a largo dell’isola. Il primo dispaccio di agenzia parlò di “cannonate sparate da una motovedetta libica”. Qualche minuto dopo si parlò del “Bang” dovuto al passaggio a bassa quota di aerei supersonici. Intorno alle 18 le autorità americane informarono il ministro della Difesa italiano, Giovanni Spadolini, del lancio di due missili contro l’isola. Gli ordigni però erano caduti a un paio di chilometri dalla costa. Il giorno successivo l’ambasciatore libico a Roma confermò l’attacco: “I missili sono venuti dalla Libia. Ma non abbiamo cercato di colpire l’Italia ma una base Usa”.

Due missili che si sono persi nel nulla

Ma che accadde realmente quel giorno? A rendere più torbidi i contorni della vicenda ci ha pensato l’ex generale, Basilio Cottone, siciliano originario del comune di Raccuia (Messina), capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare dal 1983 al 1986. In un’intervista al quotidiano Pagine di Difesa del 20 settembre 2005, Cottone, si è detto scettico del lancio dei missili libici. “Sono stato responsabile dell’approntamento della reazione italiana al lancio dei missili su Lampedusa”, ha esordito l’ex militare. “Personalmente non ho mai creduto che siano stati lanciati missili da parte libica contro il territorio italiano. Ma, poiché allora tutti lo credevano, ho ritenuto di operare di conserva. La notizia del lancio dei missili per me era falsa e le azioni messe in atto volevano accreditarla. Molte organizzazioni extranazionali erano allora interessate al fatto che il governo italiano adottasse una politica di più forte chiusura nei confronti della Libia. È da tener presente che negli anni ‘70 e gli inizi degli ’80, gli attentati terroristici contro obiettivi occidentali erano numerosi. Tra questi: dirottamenti di aerei passeggeri, abbattimenti di velivoli commerciali, strage alla Olimpiade di Monaco del ‘72 e attentato di Fiumicino della fine del ‘73. In questo quadro si inserisce la missione in Libia di Argo-16 con la quale sono stati fatti rientrare i terroristi palestinesi arrestati a Fiumicino mentre preparavano un attentato a un velivolo di linea israeliano. Questi, e altri eventi successivi, portarono a un irrigidimento politico da parte degli occidentali verso la Libia di Gheddafi”. Basilio Cottone sostiene che “qualcuno” tentò di creare le condizioni per incrinare irrimediabilmente le relazioni Roma-Tripoli. “Da qui alle notizie dei missili su Lampedusa la strada fu breve. Penso, sia stata un’azione di ‘servizi’ che hanno montato la cosa, però il fatto ha assunto credibilità internazionale ed è rimasto nell’immaginario collettivo il lancio concreto”.
 

Alle parole dell’ex capo di stato maggiore, hanno fatto seguito quelle del generale Mario Arpino, successore di Cottone alla guida dell’Aeronautica. In un’intervista a L’Espresso (25 novembre 2005), Arpino ha ammesso che le forze armate non raccolsero mai nessuna prova evidente dell’attacco missilistico. “I nostri radar non erano in grado di scoprire missili di quel genere”, ha aggiunto il generale. “Avevamo chiesto alla Nato di fornirci degli Awacs, radar volanti molto potenti, ma ci furono concessi mesi dopo. Io ero responsabile della sala di crisi e gli americani non mi comunicarono nulla. Se informavano qualcuno, lo facevano a livello politico. So con certezza che non venimmo nemmeno avvisati del raid contro Tripoli. Ricordo la sorpresa quella notte quando i nostri radar scoprirono gli aerei diretti in Libia”.

Prima della nomina ai massimi vertici dell’AMI, Basilio Cottone era stato comandante della 5° Ataf di Vicenza, la forza aerotattica della Nato, e successivamente rappresentante militare italiano presso il Comitato dell’Alleanza Atlantica di Bruxelles. Dimessosi dalle Forze Armate, l’alto ufficiale fu nominato, il 14 aprile 1993, presidente del consiglio d’amministrazione dell’Agusta Spa, società leader nella produzione di elicotteri da guerra. Ai vertici dell’industria di elicotteri, Cottone ci resterà ininterrottamente per sette anni, per poi divenirne consigliere. L’ingresso del generale in Agusta avvenne quattordici giorni prima della caduta del primo governo di Giuliano Amato (Psi), ministro della difesa il siciliano Salvo Andò (Psi) e sottosegretari due potenti politici della provincia di Messina, Salvatore D’Alia (Dc) e Dino Madaudo (Psdi). La nomina del generale Cottone fu adottata dall’allora commissario liquidatore dell’Efim, Alberto Predieri, dopo l’arresto del manager Roberto D’Alessandro, ex presidente Agusta – poi prosciolto – nell’ambito dell’inchiesta sul pagamento di tangenti a favore del Partito socialista per la fornitura di 12 elicotteri alla Protezione civile (ministro, allora, Nicola Capria, Psi e anch’egli messinese).

L’1 settembre 1993, un’altra inchiesta, “Arzente Isola”, avrebbe coinvolto l’Agusta relativamente ad una transazione di armi gestita da alcuni faccendieri messinesi sulle rotte Italia-Antille Olandesi-Perù-Siria. Nello specifico, nella primavera del 1992 fu avviata la trattativa per il trasferimento di dodici elicotteri CH47 “Agusta” alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita. Tra gli intermediari dell’affaire, il noto trafficante d’armi arabo Adnan Kashoggi ed imprenditori vicini all’entourage dell’odierno presidente del consiglio italiano. Alla fine, però, l’inchiesta giudiziaria si arenò nelle sabbie mobili della Procura di Messina.

Armi e cemento per i partner nordafricani

L’Agusta, oggi AgustaWestland, è con l’Eni una delle prime società italiane tornate ad operare in Libia dopo il riavvicinamento Roma-Tripoli. Nel gennaio del 2006 sono stati forniti alle forze armate libiche, 10 elicotteri A109 Power, valore 80 milioni di euro, destinati al “controllo delle frontiere”. La società italiana ha pure sottoscritto un accordo con la Libyan Company for Aviation Industry per costituire una joint venture (la Libyan Italian Advanced Tecnology Company – Liatec), per lo sviluppo di attività nel settore aeronautico e dei sistemi di sicurezza. L’anno successivo è stata la volta di Finmeccanica, la holding che detiene il controllo di AgustaWestland, a firmare un accordo con il governo libico per la creazione di una joint venture nel campo dell’elettronica e dei sistemi di telecomunicazione per la difesa, con target il mercato libico e parte del continente africano. Nel gennaio 2008, Alenia Aeronautica, altra società del gruppo Finmeccanica, ha siglato con il ministero dell’Interno libico un contratto del valore di oltre 31 milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP “Surveyor”.

L’industria bellica italiana attende trepidante la ratifica del Trattato di cooperazione italo-libico sottoscritto da Silvio Berlusconi e dal colonnello Gheddafi. All’articolo 20 del Trattato si prevede infatti “un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari”, nonché lo sviluppo della “collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate”, mediante lo scambio di missioni di esperti e l’espletamento di manovre congiunte (anche se è dal 2001 che le marine militari di Italia e Libia effettuano annualmente l’esercitazione “Nauras” nel Canale di Sicilia). I due paesi s’impegnano altresì a definire “iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori”.
 

Non è stata certo una coincidenza che le dichiarazioni del ministro Shalgam sul pre-avvertimento del bombardamento Usa nel 1986 siano coincise con il convegno organizzato a Roma dalla fondazione guidata dall’ex ministro Beppe Pisanu, presenti Giulio Andreotti, il ministro degli Esteri Franco Frattini, il figlio primogenito del leader libico, Saif El-Islam, e il gotha dell’imprenditoria italiana (Eni, Enel, Telecom, Unicredit, Trenitalia, Bnl, Fondiaria-Sai, Impregilo, ecc.). In cantiere ci sono opere “compensatorie” dei crimini coloniali italiani per 5 miliardi di dollari da realizzare in Libia nei prossimi 20 anni. Il Trattato di cooperazione Italo-libico prevede espressamente che saranno le aziende italiane a realizzare i progetti infrastrutturali.

Intanto il capitale libico fa incetta di pacchetti azionari delle maggiori società italiane. Acquisito il 4,9% di Unicredit, la Central Bank of Libya starebbe per rilevare una quota tra l’1 e il 2% di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. I libici starebbero pure per fare ingresso in Impregilo, il colosso delle costruzioni italiane, general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, del Mose di Venezia e di importanti tratte della TAV ferroviaria. I libici punterebbero ad acquistare circa il 5% del capitale, ottenendo pure un posto nel consiglio d’amministrazione d’Impregilo. In Libia, del resto, il gruppo italiano ha costituito qualche mese fa una joint venture per realizzare tre università nelle città di Misuratah, Tarhunah e Zliten (valore del contratto, 400 milioni di euro).
 

Al convegno di Roma del 31 ottobre, l’amministratore delegato d’Impregilo, Massimo Ponzellini, è comparso accanto a Saif El-Islam. Cresciuto all’ombra dell’ex presidente del consiglio Romano Prodi, dopo aver ricoperto l’incarico di direttore generale del centro studi Nomisma e dirigente superiore dell’IRI, Massimo Ponzellini passò a sedere nel consiglio d’amministrazione di Finmeccanica. Amministratore delegato della holding di controllo del complesso militare industriale italiano è stato pure Alberto Lina, amministratore delegato d’Impregilo sino al 2007.

Armi e cemento segnano la strategia di penetrazione in nord Africa del capitale finanziario nostrano. “Italiani? Brava gente…”.

Articolo pubblicato in Agoravox.it il 5 novembre 2008

SIAE commissariata, gestione imbarazzante

 

Scritto da:Dario D’Elia
Fonte:  http://www.tomshw.it/cont/news/siae-commissariata-gestione-imbarazzante/29922/1.html  

A breve la SIAE avrà un commissario straordinario per ripristinare le attività amministrative e strategiche. Da tempo l’assemblea non riesce a raggiungere il numero legale per le votazioni. Intanto il debito nei confronti di autori ed editori ha raggiunto gli 800 milioni di euro.

La SIAE da tempo ha congelato ogni attività, a livello amministrativo e strategico, poiché l’assemblea degli associati non riesce a raggiungere il numero legale per le votazioni. Tutto questo “ha impedito l’esame ed ogni deliberazione circa le rilevanti questioni poste all’ordine del giorno”, si legge nella lettera del Ministero per i Beni e le Attività culturali. 

Per questo motivo a breve sarà nominato  un commissario straordinario che “provveda, in sostituzione di tutti gli organi deliberativi della Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE), al ristabilimento di condizioni di stabile funzionalità degli organi e di efficiente ed efficace gestione della Società”.

SIAE, attività congelata

Da quando ha rassegnato le dimissioni il presidente Giorgio Assumma, il 30 novembre scorso, tre votazioni sono andate a vuoto. Di fatto non è stato approvato il bilancio 2011 che riguarda il piano strategico triennale e non sono state effettuate le modifiche previste dello statuto (“con particolare riguardo alla riduzione del numero dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo”).

Alcune associazioni di autori ed editori “hanno chiarito che la mancata partecipazione dei loro rappresentanti alle assemblee convocate era dovuta ad una precisa scelta voluta, per la contestazione del modello di governance della Società (SIAE criticata dagli stessi autori ed editori)”. Una “governance” che a tutti gli effetti ha portato il debito nei confronti di autori ed editori a circa 800 milioni di euro.

E dire che malgrado l’inefficienza conclamata della SIAE (SIAE inefficiente e costosa, uno studio lo conferma), il Governo ha deciso di premiarla (Tassa sull’elettronica, per SIAE ecco 300 milioni). E gli italiani quest’anno si sono ritrovati anche l’aumento programmato (Tassa sull’elettronica ancora più alta nel 2011).

L’unica speranza come al solito è che intervenga l’Unione Europea (La UE boccia l’equo compenso italiano, SIAE nei guai).

Neonati africani cavie del vaccino di US Army Africa e Glaxo

Fonte:http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/l

 Per lo sviluppo del programma sono già stati investiti più di 500 milioni di dollari e lavorano fianco a fianco i ricercatori di un colosso mondiale del settore farmaceutico e i migliori medici delle forze armate USA. Sponsor, l’onnipotente padrone delle nuove tecnologie informatiche. Si tratta della sperimentazione di un nuovo vaccino contro la malaria, nome in codice “RTS,S/ASO2”. Una speciale unità dell’esercito statunitense in Kenya (USAMRU-K) e la multinazionale britannica GlaxoSmithKline (GSK) stanno eseguendo decine di migliaia di test su bambini e neonati in alcuni dei villaggi più poveri del continente africano. Il tutto sotto l’occhio vigile di US Army Africa, il comando delle forze militari terrestri in Africa istituito a Vicenza che tra gli scopi annovera il “supporto delle missioni mediche di US Army nel continente nero”.È nel Muriithi-Wellde Clinical Research Centre di Kombewa, città della provincia di Nyanza (Kenya), che i dati della sperimentazione del vaccino vengono raccolti ed analizzati dal team di USAMRU-K. “La nostra unità dipende dal Comando per la Ricerca Medica dell’US Army (USAMRMC) che ha sede a Fort Detrick, Maryland, ma noi stiamo coordinando le attività nel continente con l’US Africa Command (AFRICOM) di Stoccarda e US Army Africa di Vicenza”, spiega il portavoce di USAMRU-K. “A Kombewa è in avanzata fase di sviluppo la ricerca sull’efficacia del vaccino contro la malaria, malattia trasmessa da zanzare infette. USAMRU-K partecipa alla sperimentazione di quello che potrebbe diventare il primo vaccino anti-malarico per bambini.

I partecipanti ricevono cure gratuite per la durata di tre anni scolastici. Una volta provata la sua sicurezza ed efficacia, il vaccino potrà essere immesso sul mercato. Lo studio odierno nasce da una partnership con la PATH Malaria Vaccine Initiative (MVI) e la compagnia farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK)”. Per lo sviluppo del vaccino, GSK ha già investito 300 milioni di dollari e altri 100 verranno spesi nei prossimi due anni. Al finanziamento delle ricerche ha contribuito con 107,6 milioni di dollari l’organizzazione statunitense “no-profit” Path, utilizzando un fondo ad hoc della Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione “umanitaria” del magnate di Microsoft, Bill Gates.
Il vaccino RTS,S/AS02 è stato creato nel 1987 nei laboratori del Belgio di GSK Biologicals (una partecipata Glaxo) ed è stato testato la prima volta nel 1992 su “alcuni volontari” negli Stati Uniti d’America, grazie alla collaborazione dell’US Walter Reed Army Institute of Research, l’istituto di ricerca medica dell’esercito USA con sede a Washington. La prima campagna di sperimentazione ad ampio raggio dell’RTS,S ha però preso via in Africa nel 1998 e nel biennio 2002-2003 i test sono stati eseguiti sulla popolazione “adulta” dei villaggi di Kombewa nel Centro clinico co-gestito da USAMRU-K. “I test fornirono dati incoraggianti in termini di sicurezza e immunogenicità, così a partire della fine del 2003 è stata avviata la fase sperimentale “Ib” su 90 bambini della stessa aerea geografica, che ha prodotto risultati ancora una volta incoraggianti”, si legge in un report della GlaxoSmithKline. “Subito dopo è partita la fase “II”, condotta su oltre 2.000 bambini nel sud del Mozambico. I risultati di questo test, pubblicati dalla rivista medica The Lancet nel 2004 e 2005, hanno mostrato che l’RTS,S è stato efficace per un periodo di 18 mesi nel ridurre la malaria clinica nel 35% dei casi, e la malaria grave nel 49%”. Ignoto, ovviamente, cosa sia accaduto nel restante numero di casi, 1.300 bambini cioè in carne ed ossa.
Qualche tempo dopo è stata avviata la fase sperimentale “”IIb” per determinare l’efficacia “a lungo termine” del vaccino anti-malarico. A far da cavie, stavolta, più di un migliaio di neonati di Kenya e Tanzania e un imprecisato numero di bambini in Mozambico. I risultati sono stati pubblicati l’8 dicembre 2008 dal New England Journal of Medicine: “In 340 bambini di età compresa tra i 5 e i 17 mesi, l’RTS,S/AS01 ha ridotto il rischio di episodi clinici di malaria del 53%, su un periodo di follow-up di otto mesi, quando è stato amministrato a 8, 12 e 16 settimane di età con un vaccino comune contenente antigeni per la difterite, il tetano la pertosse e l’haemophilus influenzae B (Hib). Lo studio ha inoltre riportato il 65% in meno nell’insorgenza delle nuove infezioni su un periodo di follow-up di tre mesi dopo la somministrazione delle tre dosi vaccinali”.
Negli stessi mesi veniva realizzato un ulteriore test in Kenya e Tanzania su 894 bambini tra i 5 e i 17 mesi di età. “Si è valutata la sicurezza e l’efficacia dell’RTS,S/AS, combinato ad un altro Sistema Adiuvante di proprietà della GSK, noto con il codice AS01”, spiegano i responsabili della società farmaceutica. “Sono state somministrate ad ogni bambino altre tre dosi del vaccino sperimentale RTS,S/AS01 o il vaccino anti-rabbico. È stato provato che la formula RTS,S/AS01 riduce gli episodi di malaria clinica del 53% in un periodo medio di otto mesi. Studi successivi in Mozambico con l’utilizzo del vaccino RTS,S congiuntamente ad un Sistema Adiuvante differente della GSK (AS02) hanno provato il 35% di efficacia contro la malattia clinica per 18 mesi in bambini di età compresa tra uno e quattro anni”.
Nel maggio 2009 ha infine preso il via la fase sperimentale “III” che ha visto la somministrazione del vaccino a più di 16.000 bambini di sette paesi dell’Africa Sub-Sahariana (Gabon, Mozambico, Tanzania, Ghana, Kenya, Malawi e Burkina Faso). Secondo US Army, nel centro clinico di Kombewa sarebbero stati sottoposti a test più di un migliaio di bambini di età compresa tra i cinque mesi e tre anni. “Il passo successivo sarà quello di trovare un altro migliaio di partecipanti che abbiano non più di sei settimane di vita”, spiega la responsabile del presidio militare. “Ciò significa ottenere la fiducia di nuove madri nei villaggi rurali, dato che esse partoriscono sempre in casa”.
Un comunicato della GlaxoSmithKline in data 21 aprile 2010 afferma che “se sarà provata l’efficacia sui bambini tra i 5 e 17 mesi d’età, il nuovo vaccino sarà sottoposto ai controlli delle autorità sanitarie internazionali nel 2013”. Ulteriori dati sulla sicurezza e immunogenicità “saranno presentati quando essi saranno pronti”. “Se tutto andrà bene – prosegue GSK – la somministrazione generale dell’RTS,S ai bambini di età compresa tra le 6 e le 12 settimane di vita sarà possibile entro cinque anni”. Se tutto andrà bene, dunque. Male che va si potrà pensare di estendere la sperimentazione ad altre decine di migliaia di piccolissime cavie umane in tutto il continente africano.
Se appare incredibilmente spregiudicata e priva di etica la massiccia sperimentazione del vaccino in aree del continente dominate dalla fame, dal sottosviluppo, dall’analfabetismo e dall’assenza di qualsivoglia servizio primario, desta profonda inquietudine il ruolo assunto nella vicenda da un’unità “sanitaria” d’élite delle forze armate USA. USAMRU-Kenya vanta però una lunga tradizione nel campo della “ricerca scientifica” e della “prevenzione” delle infermità tropicali. In qualità di task force operativa estera del Walter Reed Army Institute of Research, l’unità fu inviata in Kenya nel lontano 1969 per avviare uno studio sulla tripanosomiasi, un’infezione parassitica trasmessa dalla mosca tse-tse. Nel 1973 USAMRU stabilì una propria sede permanente a Nairobi grazie ad un accordo con il Kenya Medical Research Institute. Negli anni successivi furono aperti laboratori nella capitale e nel Kenya occidentale (Kisumu, Kisian, Kombewa e Kericho) per la sperimentazione di farmaci contro malaria, tripanosomiasi, “malattie infettive globali emergenti” e l’HIV/AIDS. Proprio all’AIDS sono stati destinati gli sforzi maggiori più recenti: nell’ambito dell’United States Military HIV Research Program (USMHRP), lo staff di US Army sta sviluppando il vaccino HIV-1 ad efficacia globale e testando e valutando altri vaccini sperimentali contro l’AIDS. La sede del programma HIV è stata stabilita ancora una volta in Kenya, a Kericho, alla fine del 2000.
Coincidenza vuole che a fine dicembre 2000 nasceva pure in Gran Bretagna la GlaxoSmithKline (GSK) grazie alla fusione di due grandi società farmaceutiche, Glaxo Wellcome e SmithKline Beecham. Con oltre 100 mila dipendenti e un fatturato di 34 miliardi di euro, GSK si colloca al secondo posto nel mondo con una quota di mercato del 5,6%, dietro il gruppo Pfizer. Il comportamento “etico” della multinazionale è stato duramente stigmatizzato da più parti e non sono mancati gli scandali che l’hanno vista direttamente coinvolta. Tra le fondatrici di EuropaBio, l’associazione-lobby che raggruppa le industrie che promuovono la legalizzazione della produzione e dell’impiego di cibi geneticamente modificati, GlaxoSmithKline è stata messa sotto inchiesta dalle autorità argentine a seguito della morte nel 2008 di 14 bambini sottoposti alla sperimentazione di un nuovo vaccino contro la polmonite e l’otite. Altri due bambini sarebbero morti durante analoghi test a Panama e Cile. Agli inizi del 2007 la GSK aveva cominciato la somministrazione di 15.000 vaccini contro lo pneumococco ad altrettanti bimbi minori di un anno in tre regioni del nord argentino, Mendoza, San Juan e Santiago dell’Estero. Secondo gli organi di stampa locali, i genitori, di origini umili, “firmavano senza sapere che si trattava di una sperimentazione in fase tre, direttamente su umani, di un farmaco che poteva comportare dei rischi”. Nonostante l’indagine, GSK ha iniziato a distribuire in tutto il continente africano il vaccino Synflorix “per combattere le malattie pneumococciche invasive”. Si tratta di un programma “umanitario” dal costo di 1,3 miliardi di dollari voluto da G8, Banca Mondiale e UNICEF, finanziato in buona parte dall’Alleanza pubblico-privato internazionale GAVI (Global Alliance for Vaccines and Immunisation), da cinque paesi donatori (Gran Bretagna, Canada, Russia, Norvegia e Italia) e dall’immancabile Bill & Melinda Gates Foundation. È prevista la distribuzione fino a 300 milioni di dosi prodotte da un impianto aperto dalla multinazionale a Singapore. Proprio un bell’esempio di mercato globale.
Mentre fatturati e guadagni si moltiplicano inverosimilmente, il management di GSK ha varato un piano che prevede la chiusura a breve termine del Centro ricerche e produzione antibiotici di Verona, uno dei due impianti posseduti in Italia dalla società. A rischiare il licenziamento sono più di 600 lavoratori. Delocalizzazioni nel sud-est asiatico, test sui bambini africani, smantellamento dell’apparato produttivo in Europa. E nello sfondo la guerra, altro crimine del capitalismo dal volto sempre più disumano. Nell’ultima decade, la GlaxoSmithKline ha sottoscritto con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America ben 61 contratti per la fornitura di vaccini, farmaci e attrezzature sanitarie, per un importo complessivo di 75.555.579 dollari. Assai meno di quanto fatto però dal partner e “mecenate” Bill Gates: in computer, programmi e war games, Microsoft-Gates ha fatto affari con il Pentagono per 278.480.465 dollari. Due volte e mezzo in più di quello che è stato reinvestito per i nuovi vaccini contro la malaria.