Come va il mercato delle armi negli sbandierati tempi di crisi?

Fonte:http://www.pressenza.com/it/2013/01/come-va-il-mercato-delle-armi-negli-sbandierati-tempi-di-crisi/
Scritto da: : Olivier Turquet

antonio-mazzeo-600x337

Pare non tanto male. Ne parliamo con Antonio Mazzeo, giornalista da anni impegnato nella denuncia dei traffici di armi, del militarismo e dell’affarismo conseguente. Militante nella campagna No MUOS, Mazzeo è autore di numerose pubblicazioni sui saccheggi ambientali, i conflitti internazionali e i crimini delle mafie transnazionali.

Come va il commercio d’armi a livello globale?

Le importazioni e le esportazioni dei sistemi di morte non sembrano assolutamente risentire della crisi globale e strutturale che ha investito il pianeta. Anzi, il capitale finanziario internazionale ha la folle convinzione che i conflitti e le successive ricostruzioni dei paesi bombardati possano essere il motore per uscire dalla stagnazione e rilanciare la domanda, l’economia, lo sviluppo. Peccato che la crisi, le bolle speculative finanziarie e l’insostenibile espansione del debito pubblico siano stati originati in buona parte dal modello di guerra globale e permanente lanciato con la prima avventura internazionale nel Golfo contro Saddam Hussein nei primi anni ’90 e poi affermatosi con la cosiddetta “guerra al terrorismo” ovunque e comunque, dopo l’11 settembre 2001. Le armi, cioè, hanno cogenerato le crisi che adesso si vogliono “superare” con le armi. Scenari che rischiano di portare l’umanità all’olocausto, alla distruzione dell’ambiente, alla fame dei popoli.

Come può essere quantificato il giro di affari dell’odierno mercato della armi?

Fermo restando che il business dei sistemi di morte si caratterizza per la scarsissima trasparenza delle informazioni ufficiali e l’ampia area grigia dove si muovono troppo spesso illegalmente produttori, intermediari, faccendieri, militari, servizi segreti e organizzazioni criminali transnazionali, siamo in possesso di dati abbastanza attendibili. Secondo l’ultimo annuario sulla spesa militare mondiale pubblicato dal Sipri, l’autorevole centro di ricerca per la pace di Stoccolma, nel 2011 sono stati spesi a livello mondiale 1.740 miliardi di dollari in sistemi d’arma. Per l’istituto svedese si tratta della cifra più alta mai spesa dal 1989, anno della caduta del muro di Berlino. Tanto per rendersi ancora più conto della scandalosa portata del giro di affari dei mercanti di morte, per le guerre si spendono ogni minuto 3,3 milioni di dollari, ossia 198 milioni l’ora o 4,7 miliardi al giorno. Ogni abitante del pianeta viene privato in questo modo di circa 250 dollari all’anno, denaro che invece potrebbe essere utilizzato per la produzione di alimenti o per l’istruzione e la salute. Così le armi uccidono anche senza dover sparare.

Quali sono i Paesi più coinvolti?

Nel 2011 gli Stati Uniti d’America sono stati il maggiore acquirente di sistemi d’armi al mondo, con una spesa stimata in 711 miliardi di dollari. Al secondo posto si è ormai affermata la Cina, potenza mondiale emergente, con una spesa di circa 143 miliardi di dollari ma con un ritmo di crescita negli anni direi impetuoso, il 170% in termini reali nel solo periodo compreso tra il 2002 e il 2011. Molto più indietro, al terzo posto, la Russia con 72 miliardi di dollari.

Sempre gli Stati Uniti controllano il 40% del mercato mondiale delle esportazioni. Lo scorso anno i colossi del complesso militare industriale USA hanno esportato armi per il valore di 46,1 miliardi di dollari, un dato quattro volte superiore all’ammontare delle esportazioni nei primi anni del 2000. Un’ulteriore conferma che dietro la cosiddetta “guerra al terrorismo” e la ridicola propaganda sulla “difesa dei diritti umani” e l’intervento “umanitario” ci sono innanzitutto gli affari dei costruttori e dei mercanti di morte. La classifica degli esportatori vede una leggera differenza con quella riservata agli acquirenti: è la Russia stavolta a ricoprire il secondo posto, seguita dalla Cina. Considerando congiuntamente i paesi membri dell’Unione europea, si scopre però un dato poco noto. Il giro d’affari delle esportazioni dei paesi Ue è sempre più vicino a quello degli Stati Uniti, quasi 32 miliardi di euro all’anno con punte record di 41 miliardi come accaduto nel 2009. Come denunciato dalla rivista Missione Oggi in una ricerca curata da Giorgio Beretta della Rete Italiana per il Disarmo, la parte più consistente dei trasferimenti (oltre il 45%) è diretta a paesi dell’emisfero Sud. Nel quinquennio 2006-10, tra i principali destinatari di armamenti europei spiccano in particolare i regimi autoritari della penisola arabica (l’Arabia Saudita ha acquistato armi europee per 12 miliardi di euro; gli Emirati Arabi per 9 miliardi, l’Oman per 4,3 e il Kuwait per 1,6); alcuni paesi mediorientali al centro di sanguinosi conflitti interni (Pakistan per 4 miliardi, Turchia per 3,5); diverse nazioni del continente africano (Marocco per 2,5 miliardi, Algeria per 1,8 miliardi, Egitto e Sudafrica ognuno per 1,1 miliardi, Libia per 1 miliardo).

Nella speciale classifica mondiale dei “consumatori” di sistemi di guerra stanno assumendo un ruolo leader quei paesi che negli ultimi anni hanno registrato elevati tassi di crescita economica e del prodotto interno lordo: oltre alla Cina, impressiona in particolare l’India che secondo il Sipri è già oggi il principale cliente mondiale dei mercanti di morte. Ma ci sono pure Corea del Sud, Pakistan e Singapore, mentre cresce progressivamente il ruolo dei paesi dell’Africa sub-sahariana, alcuni dei quali con livelli di povertà e sottosviluppo inimmaginabili. Essi sono arrivati a spendere annualmente 18 miliardi di dollari in sistemi bellici.

E l’Italia che ruolo ricopre in questo mercato?

Dicevamo del ruolo sempre più importante nell’export mondiale di armi dell’Unione europea. L’Italia è già adesso al terzo posto tra i paesi membri UE come giro di affari, poco dietro Francia e Germania ma davanti alla Gran Bretagna. Negli ultimi cinque anni abbiamo venduto sistemi d’arma per 23,2 miliardi di euro e in buona parte il business è appannaggio delle due holding controllate in parte dal capitale statale, Finmeccanica (all’8° posto al mondo tra le società produttrici ed esportatrici di armi) e Fincantieri.

Secondo il lacunoso ed omissivo rapporto sull’esportazione di armi presentato in parlamento dal governo, nel 2011 sono state rilasciate 2.497 autorizzazioni all’export per un valore complessivo poco superiore ai 3 miliardi di euro, a fronte dei 2 miliardi e 906 milioni del 2010, con un incremento in anno del 5,28%. E questo in periodo di crisi e si sono verificati drammatici tagli occupazionali tra i dipendenti delle fabbriche di armi italiane. Determinante nell’espansione dei fatturati, l’attività di promozione del made in Italy da parte dei ministri-piazzisti d’armi dei governi Berlusconi e Monti. Essi sono stati efficientissimi nel girare in lungo e in largo il pianeta per favorire l’export di armi e stringere alleanze con i regimi più corrotti e/o responsabili di inaudite violazione dei diritti umani. Non è causale, infatti, come nel 2011 si sia riscontrato un aumento assai significativo del numero delle autorizzazioni, rispetto l’anno precedente, per i cosiddetti “programmi intergovernativi di cooperazione” e c’è da scommettere che i dati del 2012 saranno ancora maggiori, dato l’attivismo record del ministro della difesa, ammiraglio Di Paola, instancabile nelle missioni e nelle visite all’estero e nella partecipazione alle principali fiere internazionali delle industrie d’armi.

Si registra inoltre un’escalation delle esportazioni di armi italiane verso le zone di maggior tensione del mondo, dal Nord Africa al Medio Oriente fino al sub-est asiatico. Nel 2011 oltre il 64% delle armi, per un valore di poco meno di 2 miliardi di euro, è finito a paesi extra-NATO. L’elenco dei maggiori clienti vede nell’ordine l’Algeria (477,5 milioni di euro in sistemi militari di produzione italiana), Singapore (395,28), India (259,41), Turchia (170,8). Anche il poverissimo e martoriato continente africano si sta progressivamente trasformando in un Eldorado dei mercanti d’armi italiani. Nell’ultimo quinquennio abbiamo venduto fucili e armi leggere a Camerun e Somalia e mezzi pesanti, caccia ed elicotteri a Libia, Marocco e Nigeria. Va detto però che la legge italiana che dovrebbe regolamentare l’esportazione di armamenti non impone di documentare anche i trasferimenti di armi leggere, “comuni” o “ad uso civile”, di cui l’Italia è uno dei maggiori produttori al mondo. Così ai valori sopracitati bisogna aggiungere i fatturati dell’export delle industrie produttrici di fucili, pistole e munizioni, stimati dall’Archivio Disarmo in non meno di un miliardo di euro nel solo biennio 2009-2010.

Anche in questo caso i maggiori clienti sono extra-europei ed extra-NATO. Spiccano in particolare gli stati asiatici, i quali hanno importato nell’ultimo biennio armi “leggere” per 142 milioni di euro, e persino diversi paesi sottoposti a embargo internazionale (Cina, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Armenia e Azerbaijan), belligeranti o all’indice per gravi violazioni dei diritti umani (Federazione Russa, Thailandia, Filippine, Pakistan, India, Afghanistan, Colombia, Israele, Kenya). Poco tempo prima che scoppiasse il conflitto in Libia, il regime di Muammar Gheddafi ha acquistato in Italia armi per 8,4 milioni di euro, in buona parte pistole e carabine “Beretta” e fucili “Benelli”, mentre lo Yemen, altro paese dilaniato dalla guerra civile, ha importato armi italiane per 487.119 euro. Secondo quanto denunciato dall’Osservatorio sulle armi leggere di Brescia (OPAL), nel 2011, l’anno delle rivolte della cosiddetta Primavera araba, solo dalla provincia di Brescia sono state esportate in Nord Africa armi e munizioni per un valore complessivo di 6,8 milioni di euro, mentre ai paesi del Medio Oriente sono finite armi per 11 milioni di euro. OPAL ha pure evidenziato che nello stesso anno sono state esportate armi “bresciane” per più di un milione di euro alla Bielorussia, appena prima che l’Unione Europea la ponesse sotto embargo per le innumerevoli violazioni e le repressioni messe in atto dal regime del presidente Lukashenko. In troppe parti del pianeta si spara sulle folle utilizzando armi e proiettili italiani, ma questo non sembra proprio indignare i politici, i sindacati, i media, gli intellettuali.

Cosa “va” di più in questo momento?

Di tutto. Le guerre e le repressioni popolari, sempre più numerose, hanno bisogno di armi “leggere”, gas lacrimogeni, carri armati, cingolati, elicotteri d’assalto, cacciabombardieri, armi chimiche, batteriologiche a nucleari (per queste ultime è stato lanciato un costosissimo programma di ammodernamento e miniaturizzazione per renderle più flessibili e utilizzabili in scenari geograficamente “limitati”). Per i loro costi stratosferici sono però soprattutto i sistemi di guerra aerea e spaziale quelli che stanno divorando immense risorse finanziarie e umane. Inoltre, per rispondere alle nuove strategie d’intervento militare e d’intelligence, gli aerei senza pilota, i famigerati droni, sono oggi un pozzo di san Patrizio per armieri e faccendieri. Si spiega così come mai nella speciale classifica delle industrie produttrici, per fatturato, compaiono ai primi posti i colossi statunitensi ed europei attivi nel settore aerospaziale, missilistico e nucleare. Nel 2010 l’ammontare delle commesse di Lockheed Martin (il principale esportare di armi al mondo, impegnato tra l’altro nella realizzazione del cacciabombardiere F-35 e del sistema di telecomunicazioni satellitari MUOS) ha toccato i 26,6 miliardi di euro. Al secondo posto c’è BAE Systems (24,8 miliardi) e poi, a seguire, Boeing (23,4), Northrop Grumman (21,3) e General Dynamics (18,1). All’ottavo posto, come dicevamo, c’è l’italiana Finmeccanica con esportazioni per 10,9 miliardi di euro.

Quali sono le relazioni tra banche, speculazione finanziaria e commercio d’armi?

Senza il sistema finanziario e bancario internazionale non sarebbe possibile l’esistenza del complesso militare industriale né sarebbe possibile assicurarne le produzioni, le transazioni e le esportazioni. Le banche investono direttamente nelle industrie belliche, rilevano sempre più imponenti pacchetti azionari, offrono le necessarie anticipazioni e le coperture all’export. I fondi sovrani, gli innumerevoli fondi d’investimento, perfino i cosiddetti “fondi pensione” gestiti dagli istituti statali di previdenza e dalle maggiori centrali sindacali sono andati all’assalto delle azioni delle principali holding del settore. Un flusso di denaro sottratto all’economia reale, alla produzione di beni e al welfare che alimenta immense bolle speculative e accelera e deteriora i processi di crisi sistemica. Un paradigma della complessità e della perversità della globalizzazione dei mercati e della finanza, dove tra i grandi azionisti dei produttori di arma ci sono i regimi che potrebbero domani essere bombardati e abbattuti con le armi prodotte dalle aziende “controllate”. Dove non esistono né limiti, né frontiere, e dove vengono pesantemente condizionate le scelte di politica economia ed estera dei singoli stati, subordinandole ai profitti dei manager e dei titolari delle fabbriche di morte. Mi convinco sempre più che per comprendere a fondo le ragioni della totale sudditanza di tutti i nostri recenti governi (Prodi, Berlusconi, Monti, ecc.) alle avventure e ai progetti militari di Washington si debba guardare al peso specifico assunto da Finmeccanica & C. nel sistema Italia. Sempre al seguito delle forze armate statunitensi nelle guerre nei Balcani, in Iraq e in Afghanistan, abbiamo accettato di trasformare Vicenza, patrimonio Unesco, nella più grande base-alloggio dell’esercito Usa in Europa. Abbiamo trasformato lo scalo siciliano di Sigonella nella capitale mondiale dei droni  e stuprato un’intera riserva naturale, a Niscemi (Caltanissetta), per installare uno dei quattro terminai terrestri del pericolosissimo sistema di telecomunicazioni satellitari MUOS della US Navy. E c’indebitiamo pesantemente e indebitiamo il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti acquistando un centinaio di bombardieri a capacità nucleare F-35 che altri paesi partner NATO ritengono inutili e obsoleti oltre che supercostosi. E tutto questo per assicurare privilegi e vantaggi alle aziende di Finmeccanica, a cui finalmente il Pentagono apre le porte assicurando lucrose commesse e licenze di fabbricazione. A riprova dell’intreccio ormai inestricabile tra banche, finanza e mercanti di morte, il fatto che i fondi d’investimento e i risparmi italiani vengono utilizzati per acquistare i pacchetti azionari delle holding armiere d’oltreoceano, come ben documentato dalla ricerca di IRES Toscana su Finanza e Armamenti. Istituti di credito e industria militare tra mercato e responsabilità sociale (Firenze, 2010).

Apparati militari, guerre, commercio d’armi: relazione perversa?

Sì una relazione perversa, immorale, criminale e criminogena, come del resto è provato dalle numerose inchieste aperte dai magistrati italiani sul sistema di corruzione pubblica generatosi attorno a Finmeccanica e aziende controllate. Una holding che sembra sempre più un bancomat da cui prelevare le tangenti per alimentare la voracità di partiti e politici o la generosa dispensatrice di lauti stipendi e prebende ai familiari, alle amanti e ai clienti dei soliti noti.

Si è creato un sistema dove ormai sono saltati tutti i meccanismi per differenziare il pubblico e il privato e controllori e controllati, esautorando ogni qualsivoglia controllo dal basso che invece in una democrazia reale sarebbe doveroso poiché sono in gioco i beni comuni e immense risorse pubbliche e pure perché tra gli attori ci sono le borghesie mafiose transnazionali che riciclano denaro, moltiplicano profitti ed entrano prepotentemente nel controllo delle relazioni politiche, militari ed economiche planetarie. Uno degli esempi più emblematici del livello di degrado raggiunto nel complesso finanziario-industriale-militare è rappresentato dall’inarrestabile trasmigrazione verso i consigli di amministrazione delle fabbriche d’armi di (ex) generali, ammiragli e capi militari. Un recente rapporto delle ONG statunitensi Citizens for Responsibility and Ethics e Brave New Foundation ha rilevato che dal 2009 al 2011 il 70% dei generali Usa a tre e quattro stelle andati in pensione, ha trovato lavoro nelle holding armiere come funzionari o consulenti (si tratta di 76 alti ufficiali su 108). Nei Cda dei cinque maggiori contractor delle forze armate Usa (ancora una volta Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, Raytheon e Northrop Grumman),compiono oggi ben 9 ex rappresentanti delle massime gerarchie militari. Con l’aggravante che due di essi continuano ad operare direttamente nel Dipartimento della difesa (il generale James Cartwright, membro del board di Raytheon e l’ammiraglio Gary Roughead di Northorp Grumman, contestualmente funzionari della direzione per la politica di difesa del governo statunitense). In Italia avviene purtroppo lo stesso: non c’è Cda delle industrie belliche che non veda la presenza di ex capi di stato o alti ufficiali. Così è possibile promuove nel migliore dei modi i “gioielli” di morte ai militari sino a qualche giorno prima subordinati. Ovvio che piovano i Signorsì! anche per le spese più folli e ingiustificate.

A volte assale un senso di impotenza. Cosa possono fare le persone, cosa possiamo fare io e te conto questa situazione?

Il panorama internazionale è purtroppo sconfortante. I diversi tentativi di costringere le Nazioni Unite ad adottare politiche e trattati di limitazione e controllo nella produzione e nell’export di sistemi d’arma sono falliti nella maggior parte dei casi o sono stati più che edulcorati dall’azione delle potentissime lobby dei fabbricanti e delle banche armate. I governi e l’intera comunità internazionale è sempre più ostaggio dei signori delle guerre. Per questo, credo, che la parola e l’azione debba passare direttamente ai singoli cittadini, alle organizzazioni non governative, alle associazioni e ai gruppi di base dell’altromondismo, cioè di quella straordinaria comunità transnazionale che spera e crede che un altro mondo è ancora possibile. Vanno moltiplicati gli sforzi e le campagne contro tutte le guerre e i processi di militarizzazione dei territori e dello spazio, contro le spese militari e la produzione di armi, da quelle leggere a quelle superpesanti. Bisogna liberare l’economia, la politica, le università, i centri del sapere dal sempre più asfissiante controllo dei poteri militari. Bisogna intervenire per colpire nelle sue fondamenta il complesso finanziario-militare-industriale, impedendo che i propri risparmi o i fondi d’investimento e pensione vadano a foraggiare i mercanti di morte, imponendo alle banche di “disarmarsi” ed eticizzarsi. Le grandi questioni internazionali devono tornare ad essere al centro del dibattito politico generale, nei parlamenti, nelle fabbriche, nei posti di lavoro, nelle scuole e nelle università. Bisogna riconquistare spazi di cultura e di pensiero di pace, ponendo il diritto-dovere di risolvere le controversie e i conflitti attraverso il dialogo e non con la forza. I movimenti del Sud del mondo e, qui in Italia, quelli che in val di Susa si oppongono alla TAV o che a Niscemi contrastano l’eco MUOStro, con le loro pratiche di lotta, di azione  diretta e disobbedienza civile, ci indicano quotidianamente i metodi più efficaci per un percorso di liberazione e disintossicazione dai miti dei facili profitti, del saccheggio dei territori e della guerra. L’obiezione di coscienza diffusa, al militare, alla militarizzazione, alla produzione di armi; l’obiezione fiscale non più mera testimonianza dei singoli ma fenomeno di denuncia di massa; il disinvestimento finanziario dagli istituti bancari che promuovono i sistemi di guerra, possono essere strumenti importanti e risolutori per ribaltare i rapporti di forza donne-uomini/capitale e impedire la sempre più rapida e folle corsa dell’umanità verso il genocidio. Dobbiamo provarci. Subito.

 

 

 

In Germania il primo treno ibrido con frenata rigenerativa

Fonte: http://www.soloecologia.it/03012013/germania-il-primo-treno-ibrido-con-frenata-rigenerativa/4881
Scritto da: Nicoletta

treno-ibrido-germania

Le auto e gli autobus ibridi sono ormai da tempo una scelta per la mobilità disponibile anche per il grande pubblico. In teoria, anche per i treni passare alla trazione ibrida dovrebbe essere semplice, specialmente in paesi come gli Stati Uniti dove molti treni sono muniti sia di motori diesel che elettrici, usati a seconda delle necessità e del percorso. Tuttavia, esistono problemi di investimento di capitali, a cui si sommano le condizioni spesso estreme che devono affrontare i treni nei loro percorsi: per questo la tecnologia ibrida non ha ancora fatto il suo ingresso sui binari.

Ora però le cose potrebbero iniziare a cambiare, con l’introduzione in Germania di un progetto pilota che presenta il primo treno ibrido degno di questo nome. Il treno in questione porterà i passeggeri tra Aschaffenburg e Miltenberg, cittadine situate a sudest di Francoforte sul Meno. Il percorso conterà 14 fermate in appena 37 km – e consentirà perciò molte possibilità di ricaricare le batterie con potenza rigenerata in frenata. Per l’implementazione del progetto è stata scelta una locomotiva Siemens Desiro Classic VT 642 in cui i due motori diesel da 275 Kilowatt sono stati sostituiti da due pacchetti ibridi da 315 Kilowatt. Il sistema di guida è stato fornito dall’azienda MTU e mira a ridurre il consumo di carburante e le emissioni di gas a effetto serra del 25%, grazie all’accumulazione in batterie a ioni di litio dell’energia generata durante la frenata e al suo successivo sfruttamento per la partenza, l’accelerazione e l’alimentazione elettrica dei vagoni. Le batterie sono posizionate sul tetto, dove vengono raffreddate naturalmente dall’aria mentre il treno è in movimento.

 

 

 

Il silenzio degli intellettuali: quando la StaSi spiò De Felice

Fonte: http://www.storiainrete.com/

150px-Emblema_Stasi.svg

Stasi. Un acronimo da Ministerium fur Staatsicherheit che evoca un’istintiva angoscia, che risuona come un ordine secco che impone immediata obbedienza. E che indica forse il peggior Moloch della già livida Germania comunista (Ddr), quella dei drammi del “Muro”, delle esecuzioni sommarie nei sotterranei della centrale di polizia, dei controlli spietati delle “vite degli altri”. Al momento del crollo del “Muro”, simboleggiato dalle libere picconate popolari che, trasmesse dalle televisioni del mondo, rimangono fotogrammi imperituri del museo virtuale della libertà, la Stasi provvide a fare quello che ogni organo di spionaggio fa in circostanze analoghe: distruggere e incenerire la maggior parte della documentazione “sensibile”. Provvide così a tritare documenti ma non fece in tempo a incenerirli tutti. Giunti i “colleghi” dell’Ovest l’azione di autotutela ebbe termine. Jorge Stoye, direttore dell’odierno Archivio della Stasi ha ricordato che circa un terzo della documentazione complessiva, essenzialmente relativa ad “attività occidentali”, è andata distrutta. Tuttavia la parte tritata ma non ancora incenerita della documentazione è stata recuperata ed è attualmente oggetto di un programma straordinario di ricomposizione che si annuncia inevitabilmente lento, ma che, pur con tempi lunghi, darà i suoi frutti. Come che sia, e con tutte le cautele e incertezze determinate da una simile residualità archivistica, alcuni protocolli di ricerca avviati con la collaborazione di Veronica Arpaia stanno dando dei risultati, il primo dei quali è qui offerto ai nostri lettori.

di Paolo Simoncelli da Avvenire del 14 dicembre 2012 LogoAvvenire

Che la Stasi controllasse i propri sudditi all’estero era ampiamente noto; molto probabile che seguisse all’interno della Ddr anche le attività di intellettuali di altri Stati. Poco noto o affatto ignoto che la Stasi seguisse comunque attività di intellettuali non tedesco-orientali anche nei loro stessi paesi. Renzo De Felice tra questi. Il primo documento reperito che lo riguarda è del novembre 1977, ma non sembra davvero essere il primo, il primo di un eventuale dossier intestatogli. Lo si può congetturare dalla “scheda” della Stasi, riportata nella foto accanto, che omette le caratteristiche elementari di ogni schedatura: data di nascita, residenza, segni particolari ecc., che pure risultano richieste nello stampato; se ne dovrebbe dedurre che dunque altre schede e tra queste la prima con i relativi dati biografici possano essere ancora conservate e forse anche reperibili.

Si legge nel testo del breve rapporto fatto da chissà quale “fiduciario”, agente o referente diplomatico che fosse, che «nel periodo compreso tra il 25 e il 28 novembre 1977 si è svolto a Roma un Sacharow-Hearing [udienza del Tribunale internazionale Sacharov], nel corso del quale, tra l’altro, la Ddr è stata accusata di violazione dei diritti umani. Nella fase preparatoria e nello svolgimento di questo Hearing è intervenuta attivamente la persona summenzionata [Renzo De Felice] in veste di membro del direttivo, e in particolare di una Commissione». Non è molto, ma è sufficiente a dimostrare che De Felice era seguito, e che la notizia di quella sua partecipazione al Tribunale internazionale Sacharov (nato per denunciare pubblicamente le violazioni dei diritti umani, non per giudicare Stati e governi che se ne rendessero responsabili), non poteva essere desunta solo dai giornali dato che il breve rapporto della Stasi fa riferimento alle attività di De Felice nella “fase preparatoria”, dunque non pubblica, dei lavori.

La sessione romana fu la seconda seduta del Tribunale Sacharov dopo quella tenutasi nell’ottobre ’75 a Copenahgen in un’aula del Parlamento danese. I lavori romani, sotto la presidenza di Simon Wiesenthal, aperti da un messaggio video registrato nella casa moscovita dello stesso Sacharov, cadevano in un momento in cui il blocco sovietico si trovava a far fronte ad una campagna occidentale, esemplata dalla concomitante Biennale del dissenso tenuta a Venezia sul tema «Socialismo e libertà»; in seria difficoltà la stessa Ddr a causa degli strascichi dei casi dei due dissidenti, il fisico Havemann e il cantautore Biermann (costretto all’inerzia intellettuale il primo, espulso il secondo) tanto da dover pianificare una specifica controffensiva politico-culturale.

Eppure i giornali italiani non dettero eccessivo risalto all’iniziativa romana del Tribunale Sacharov. Minimalisti “l’Unità” e il “Manifesto”; non oltre l’essenzialità (pur con l’autorevole firma di Valiani) il “Corriere” di Piero Ottone… Comprensibilmente prodigo di notizie “il Giornale” di Montanelli che (con “La Stampa” e “Avvenire”), riservò ampia attenzione ai lavori del Tribunale Sacharov citando espressamente De Felice (e lamentando, a fine lavori, il silenzio degli intellettuali). Un De Felice, ricordiamo, che in quell’anno accademico aveva vissuto sulla propria pelle le violenze di ritorno (dal ’68) della contestazione studentesca: fatto bersaglio di aggressioni, di interruzione delle lezioni presso l’Università di Roma, non diversamente da altri colleghi della stessa Università poco proclivi a sottostare a imposizioni ideologiche, come Rosario Romeo, Armando Saitta ed altri ancora. A quelle violenze, che alimentavano la spirale tragica del terrorismo brigatista, De Felice dedicò un paio di interventi che, riletti oggi, acquisiscono uno spessore straordinario: in un suo articolo, “I nuovi figli del caos”, pubblicato sul “Giornale” del 13 aprile ’77 e in un’intervista a Gianluigi degli Esposti, Perché la rivolta, poi edita nel ’78, parlò di «cause che vengono dall’esterno», di rivolta non capita dalla cultura, dalla politica, dai partiti. Nell’articolo richiamava fin nel titolo la definizione di “figli del caos” data da Hitler a gruppi della sinistra nazista; una genealogia richiamata anche nell’intervista, come «condizione psicologica (…) alla base di un certo nazismo di sinistra». Proprio quello che lo contestava duramente e che dalla Germania comunista, a quanto pare, lo spiava.