La lista nera che protegge le foreste

Fonte: http://www.salvaleforeste.it/taglio-illgale/4087-la-lista-nera-che-protegge-le-foreste.html

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Il governo brasiliano da alcuni anni pubblica la “lista nera” dei comuni-motosega, quelli col più alto tasso di taglio illegale. Secondo uno studio scientifico, questa sorta di gogna virtuale ha abbassato del 26% la deforestazione nei comuni incriminati.
Le autorità pubbliche del Brasile, partire dal 2008, pubblicano regolarmente “liste nere” di comuni con alti tassi di deforestazione illegale. Questo strumento di politica ambientale funziona: gli scienziati del Center for Development Research (ZEF) e dell’Università di Bonn hanno scoperto che la strategia del “pubblico disonore” ha ridotto la distruzione della foresta nei distretti incriminati. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PLoS One.
Nel corso degli ultimi anni, la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è declinata (anche se nel corso dell’ultimo anno si è registrato un ritorno alla crescita). Tra il 2009 e il 2004, la superficie di foresta abbattuta illegalmente è calata da 27.000 a 10.000 chilometri quadrati. Le ragioni di questo calo sono numerose, tra queste, il calo dell domanda internazionale di prodotti agricoli e forestali a causa della crisi economica.  Ma le politiche messe in campo dal governo brasiliano hanno svolto un ruolo chiave nel proteggere ampie fasce di foresta pluviale: nuove aree protette, controlli più severi e non ultima la lista nera dei comuni-motosega
I ricercatori hanno studiato l’effetto delle cosiddette liste nere pubblicate dalle autorità brasiliane, che elencano i comuni con i tassi di deforestazione più alti. Il risultato è che “le associazioni ambientaliste e i media possono aumentare la pressione verso i responsabili della deforestazione”, sostengono i ricercatori. Quando i ricercatori hanno confrontato lo sviluppo della deforestazione nei comuni in lista nera con quella in comuni dalle caratteristiche similari, ma non listati, hanno individuato un netto calo della deforestazione tra i primi. Secondo gli studiosi, la lista nera avrebbe portato alla protezione di oltre 4.000 chilometri quadrati di forse, circa 40 volte l’area del Parco della Foresta Nera in Germania.

Roundup Monsanto e cancro: i due coraggiosi agricoltori che hanno portato la multinazionale in tribunale

Scritto da: Lisa Vagnozzi
Fonte: http://www.greenme.it/informarsi/agricoltura/17877-roundup-monsanto-cause-tribunale-usa

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Il Roundup finisce ufficialmente sul banco degli imputati: due cittadini americani hanno denunciato Monsanto, sostenendo di essersi ammalati di cancro proprio a causa del controverso erbicida. Secondo le denunce, inoltre, la multinazionale agrochimica statunitense avrebbe intenzionalmente ingannato consumatori e autorità di vigilanza riguardo alla pericolosità del prodotto.

 

A voler portare Monsanto in tribunale sono un uomo di 58 anni, Enrique Rubio, che ha lavorato per aziende agricole di Texas, Oregon e California e il cui compito era proprio quello di spargere sui campi il Roundup e altri pesticidi, e Judi Fitzgerald, una donna di 64 anni, che per alcuni anni è stata impiegata in un’azienda ortofrutticola. Rubio si è ammalato di cancro alle ossa nel 1995, mentre a Fitzgerald è stata diagnosticata la laucemia nel 2012.

Le due denunce, presentate indipendentemente l’una dall’altra e presso due tribunali diversi, arrivano sei mesi dopo che l’OMS ha classificato ufficialmente il glifosato – un diserbante totale, non selettivo, tra i più utilizzati al mondo (e alla base del Roundup e di altri prodotti analoghi) – come probabilmente cancerogeno per l’uomo: in parole povere, ciò significa che è più che plausibile considerare questa sostanza cancerogena, anche se al momento non vi sono abbastanza prove per asserire che lo sia.

Gli addetti ai lavori pensano che le due denunce siano solo l’inizio di una lunga serie e non escludono la possibilità di future class action: il Roundup è infatti un erbicida estremamente diffuso, il cui utilizzo va avanti da anni e anni, e le affermazioni dell’OMS non hanno fatto altro che confermare dei timori di tossicità che circolavano da tempo.

Dal suo canto, Monsanto ha fatto sapere che ritiene le denunce infondate e che si difenderà strenuamente dalle accusa e, a dispetto della posizione dell’OMS, ha ribadito il proprio punto di vista: se il glifosato viene utilizzato correttamente, seguendo le istruzioni, è di fatto innocuo per l’uomo.

Ma le denunce di Rubio e Fitzgerald vanno ancora oltre, accusando la multinazionale statunitense di essere stata al corrente sin dall’inzio dei rischi legati all’utilizzo del prodotto, di non aver messo in guardia in modo adeguato i consumatori e di avere esercitato pressioni sulla Environmental Protection Agency, ente del Governo federale americano, affinché modificasse la classificazione del glisofato, portandola da “probabilmente cancerogeno per gli uomini” a “evidenza di non-cancerogenità per gli uomini”. Un’accusa, quest’ultima, che, se dimostrata, proverebbe tutta la malafede dell’azienda.

Da consumatori, non possiamo che attendere gli sviluppi di una battaglia legale che si preannuncia già molto accesa.

Infowars: i media promuovono i diritti pedofili

Scritto da: Cristina Bassi
Fonte : http://thelivingspirits.net/societa-orwelliana/infowars-i-media-promuovono-i-diritti-pedofili.html

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 “Usando le stesse tattiche usate dagli attivisti per i diritti dei “gay”, i pedofili hanno cominciato a cercare un simile status discutendo sul fatto che il loro desiderio di bambini è un orientamento sessuale non diverso da quello degli omosessuali o eterosessuali”.

Questa “civiltà” presenta sempre piu’  temi da shock, di violenza sulla vita, di follia. Come questo tema sui “diritti dei pedofili”. E’ una “civiltà” malata, quella in cui stiamo transitando. L’individuo connesso con la Coscienza (o proteso verso di essa) non è abitudine, nemmeno “informazione culturale” . I poteri in essere (e che “in essere” non dovrebbero essere) reclutano leader che ne sono lontanissimi. Il politically correct modaiolo si occupa di …”idee di diritti e slogans” e ignora spesso la realtà nella carne e nell’anima. Destra e sinistra… marionette gestite dallo stesso unico filo, tuttavia la “sinistra” mi par sempre piu’ “sinistra”, depositaria di una sorta di “extra programmazione mentale” per essere migliore schiava dei controllori. Ignorandolo, molto spesso. Ma non è una giustificazione. Solo la Coscienza ci toglie dai guai, ci eleva di vibrazioni,  non rendendoci cosi accessibili alle manipolazioni del  “sistema di controllo” .

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Kit Daniels
Prison Planet.com
September 21, 2015

I media “di sinistra”  ora stanno promuovendo “i diritti pedofili”  come prossimo movimento di “giustizia sociale”  e non è passato molto tempo da quando la Corte Suprema [USA] ha decretato in favore dei matrimoni tra lo stesso sesso.

Salon.com ha pubblicato un articolo di opinione autoprodotto da chi si descrive pedofilo e chiede agli Americani di “imparare ad accettare” i pedofili  ed essere “comprensivi e di sostegno” del loro orientamento sessuale.

“Dunque, per favore siate comprensivi e sostenetici ,” ha scritto il pedofilo Todd Nickerson  “E’ veramente tutto cio’ che vi chiediamo”.

Ha biasimato la  “preferenza sessuale” del suo cervello e allo stesso tempo dichiara di “non essere un mostro”.

“In sostanza, il vostro cervello sa cosa gli piace e non accettereà un no come risposta,” ha continuato Nickerson

“Per questa ragione, la domanda della natura relativamente alla preferenza sessuale è del tutto irrilevante : è tutt’altro che programmato..fino al punto in cui è cio’ che sai e questo ti da forza, non importa quanto tu voglia portarlo alla luce.”

“Poi si invischia con tutto il resto di cio’ che sei”

Numerosi commentatori politici hanno predetto che i pedofili avrebbero cercato di dirottare la decisione della Corte Suprema del 26 giugno sui matrimoni tra lo stesso sesso, per discutere sul fatto che anche loro stanno “soffrendo ” una discriminazione sul loro normale orientamento sessuale.

“Usando le stesse tattiche usate dagli attivisti per i diritti dei “gay” ,  i pedofili hanno cominciato a cercare un simile status discutendo sul fatto che il loro desiderio di bambini è un orientamento sessuale non diverso da quello degli omosessuali o eterosessuali ” ha scritto Jack Minor per la Northern Colorado Gazette.

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Minor ha anche aggiuntro che  “gli psichiatri stanno ora iniziando a propugnare  una ridefinizione della pedofilia, nello stesso modo in cui fu ridefinita l’omosessualità molti anni fa.”

Questa tendenza è cominciata nel 1998 quando la American Psychiatric Association affermò che “ il potenziale negativo” del sesso di un adulto con i bambini era stato “troppo enfatizzato”,  e che la grande maggioranza sia delle donne che degli uomini  adulti, non riportavano effetti sessuali negativi da esperienze di abuso sessuale nella loro infanzia”  [ affermazione che pare una misura della totale follia, distruttività e decadenza di quella che ancora chiamiamo “civiltà”…ndt]

E nel maggio 2014 Margo Kaplan, una assistente professoressa di giurisprudenza  alla Rutgers University, già discusse in favore dei diritti civili per pedofili in un articolo di opinione pubblicato dal New York Times.

“Discutere a favore dei diritti  di gruppi che vengono equivocati e disprezzati, non è mai popolare, particolarmente quando sono collegati ad un danno reale, ma il fatto che la pedofilia sia cosi disprezzata, è precisamente la ragione per cui le nostre risposte ad essa, nella giustizia penale e nella salute mentale, sono state cosi controproducenti e  discordanti”  ha affermato.

Tradotto in modo semplice, la pedofilia sta emergendo come prossima rivoluzione “dei diritti sessuali”.

fonte: http://www.prisonplanet.com/media-promotes-pedophile-rights.html

traduzione Cristina Bassi per www.thelivingspirits.net

pedofilia

SVEGLITEVI A VEDERE IL MALE

La pedofilia è una epidemia globale, che coinvolge alcune delle persone piu’ famose sulla terra.
Almeno alcuni stanno cominciando a capirlo, alla luce delle rivelazioni.
Ma lo stesso vale anche per i sacrifici umani , il sacrificio dei bambini nel satanismo.

Quell’Icke è matto? No.. sta solo dicendo la verità.
www.davidicke.com

VEDI ANCHE:

Dolphin Square, Londra: luogo di macabre orge pedofile di VIP politici

Il padre di Nicole Kidman trovato morto. Accuse di pedofilia, infanticidi e controllo mentale?

La biologia dei pedofili e la loro presenza ai vertici del potere

Pedofilia e mondi paralleli, ma sulla stessa terra…

Corone, satanisti…e parassiti

We heard them screaming’: US troops told to ignore Afghan soldiers abusing boys – report

Satanic Influences In Education By Norman Dodd:
Norman Dodd Revealing The Tax Exempt Foundation Agenda in 1980 – Radio Liberty Interview

Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa

Fonte: http://www.libreidee.org/2015/10/volkswagen-scandalo-made-in-usa-guai-se-berlino-scappa/

Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.

Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda Putin e Merkelrivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».

La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, GiugiaroSeat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».

Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.

Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon Martin Winterkornche nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.

«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.

«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e Kissingergli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».

A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».

«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è Tsipras con Junckerpresto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».

Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».

Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: Prodi«Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».

Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».

Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro La Merkel e Putinaumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».

Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.

Scavata una tomba a forma di tartaruga in Cina

Fonte: http://news.xinhuanet.com/english/2015-10/04/c_134683662.htm
Traduzione: http://ilfattostorico.com/2015/10/07/scavata-una-tomba-a-forma-di-tartaruga-in-cina/

(China Xinhua News)

In Cina gli archeologi hanno scavato una rara tomba di mattoni a forma di tartaruga. È stata datata a circa 800 anni fa, e si trova nella provincia di Shanxi.

Bai Shuzhang, al lavoro insieme all’istituto provinciale di archeologia, ha dichiarato che la tomba risale alla media-tarda Dinastia Jīn (1115 – 1234). Era stata scoperta ad aprile da un abitante del villaggio di Shangzhuang, mentre stava costruendo le fondazioni della sua casa.

Localizzazione della dinastia Jīn (wikimedia)

Alta ben otto metri, la tomba consiste di una camera ottagonale e cinque piccole stanze agli angoli. Vista dall’alto, il disegno sembra quello di una tartaruga.

All’interno, sette lati della camera sono caratterizzati da 21 riquadri di mattoni (tre per ogni lato). Su ogni riquadro sono raffigurati racconti popolari che parlano dei figli.

Le analisi sui resti umani rinvenuti suggeriscono che la tomba sia stata utilizzata da diverse generazioni di persone.

Bai spiega che la forma della tomba è insolita, mentre le raffigurazioni sui riquadri di mattone sono importanti per conoscere le abitudini funerarie dell’epoca.

Africa: più dighe, più casi di malaria

Scritto da:Marco Boscolo
Fonte: http://oggiscienza.it/2015/10/02/africa-piu-dighe-piu-casi-di-malaria/

Oltre un milione di abitanti dell’Africa sub-sahariana si ammaleranno quest’anno solamente perché vivono vicino a una diga. Delle 78 nuove dighe, intanto, 60 saranno costruite in zone malariche

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RICERCA – Un milione di africani quest’anno si ammalerà di malaria solamente per il fatto di vivere vicino a una grande diga. Poco più degli abitanti di Torino, tre volte quelli di Bari o cinque volte quelli di Trieste. Lo mostra uno studio condotto dall’International Water Managment Institute, un ente di ricerca scientifico che si occupa di studiare l’uso sostenibile delle acque nei paesi economicamente meno avanzati. Secondo quanto riportato nello studio, pubblicato sul Malaria Journal, delle 1268 dighe esistenti nel continente, 723 si trovano in aree malariche e più di 15 milioni di persone vivono a meno di 5 chilometri da una di esse, cioè nella zona in cui è più alta la probabilità di essere punti da zanzare infette.

Il plasmodio, il piccolo organismo protista responsabile della malattia, si propaga nella popolazione umana usando come vettore alcune specie di zanzara. Queste ultime trovano nelle aree umide e ricche di acqua il loro habitat naturale per proliferare. Non stupisce, quindi, immaginare che ci possa essere una relazione tra i bacini artificiali creati dalle dighe e una maggiore diffusione della malattia. Ciononostante questa è la prima volta che un ricerca scientifica riesce a mostrare in modo diretto la correlazione tra dighe e infezioni.

I ricercatori hanno messo a confronto mappe dettagliate dell’incidenza della malaria con i punti dove si trovano le dighe. Il numero annuo di casi associati a queste ultime è stato, quindi, stimato per differenza tra il numero di casi rilevati nelle comunità a meno di 5 chilometri di distanza con quelle più lontane. A questo si sono aggiunti anche gli studi epidemiologici che sono stati condotti in 11 siti di dighe. Il milione di persone calcolato deriva dal fatto, sottolineano i ricercatori, che chi vive a meno di 5 chilometri da una diga ha una probabilità quattro volte maggiore di contrarre la malattia. L’autore principale dello studio, Solomon Kibret dell’Università del New England (Australia) ha addirittura sottolineato che le loro previsioni sono prudenti: il numero potrebbe essere più alto.

Lo studio pubblicato nelle scorse settimana getta una luce sinistra sulle 78 nuove dighe che saranno costruite nei prossimi anni nel continente. Secondo le analisi di Kibret e dei suoi colleghi, infatti, 60 di esse si trovano in aree malariche e potrebbero portare a 56 mila ulteriori contagi all’anno. “Le dighe sono essenziali per lo sviluppo economico dell’Africa”, ha dichiarato ai media Solomon Kibret, “ma oltre a portare benefici economici, alleviare la povertà e migliorare la sicurezza alimentare, con il loro ruolo nella propagazione della malaria possono minare la capacità dell’Africa di sostenere il proprio percorso di sviluppo”.

Le aree a maggiore rischio sono quelle dove la malaria ha un andamento stagionale: è quando una diga si trova in queste regioni che il rischio aumenta maggiormente. Ma gli autori dello studio e lo stesso IWMI non si sono limitati allo studio, ma hanno invitato gli organismi regolatori a prendere in considerazione una serie di accorgimenti che potrebbero ridurre sensibilmente la possibilità di diffusione delle zanzare vettore. Si possono progettare le dighe in modo che le zone dove riescono a riprodursi sia minimo e si può chiedere ai costruttori di organizzare programmi di intervento contro la malaria nelle aree che, a causa delle nuova opera, saranno più pericolose. In attesa di un vaccino davvero efficace, la speranza è che queste indicazioni vengano prese in considerazione dalla World Commision on Dams, la commissione mondiale sulle dighe, l’organismo internazionale che pubblica le linee guida su come devono essere costruite le dighe.

 

Nyt: gli Usa hanno speso miliardi di dollari all’estero in operazioni militari fallimentari

Scritto da : Andrea Barbuto
Fonte: http://america24.com/news/nyt-gli-usa-hanno-speso-miliardi-di-dollari-all-estero-in-operazioni-militari-fallimentari

Gli Stati Uniti hanno investito decine di miliardi di dollari in campagne militari finalizzate all’addestramento delle forze di sicurezza straniera in paesi quali Iraq, Siria e Afghanistan. Soldi che, secondo il New York Times, hanno sostenuto “con allarmante frequenza” campagne “fallimentari” soprattutto in questi tre paesi, dove negli ultimi anni si sono affrontate le “maggiori sfide”.

Si tratta di un approccio, quello dell’amministrazione Obama, messo duramente in discussione dal quotidiano newyorchese che evidenzia come “migliaia di forze di sicurezza” addestrate dagli Stati Uniti in Medio Oriente, Nord Africa e Asia sono in “fase di stallo”, “hanno disertato” o, peggio ancora, sono “crollate” sotto i colpi del nemico.

Lo stesso quotidiano sottolinea poi come soprattutto nei tre paesi sopracitati ci siano state le battute d’arresto più gravi: “Nella provincia di Anbar, in Iraq, una roccaforte dello Stato Islamico, l’esercito e la polizia addestrati dal Pentagono, hanno a malapena impegnato le proprie forze”. Peggio ancora è accaduto nella provincia afghana di Kunduz dove “dopo l’attacco di diverse centinaia di combattenti talebani, diverse migliaia di forze governative sostenute dagli americani sono state costrette a ritirarsi”.

Il Nyt ricorda anche i 500 milioni di dollari spesi in Siria dal governo statunitense per il programma di addestramento dei ribelli locali, che ha prodotto solamente “un piccolo gruppo” capace di fronteggiare i militanti dell’Isis. Nello stesso articolo, si afferma che le forze addestrate dagli americani “affrontano problemi diversi in ogni luogo, alcuni dei quali sono al di fuori del controllo degli Stati Uniti”. Secondo alcuni funzionari militari e dell’antiterrorismo statunitense interpellati dal quotidiano americano, ciò che “molti di loro hanno in comune è la mancanza di leadership”.

Per gli stessi funzionari, bisogna poi considerare “la necessità di operare davanti a problemi politici irrisolvibili con poco sostegno”. Per tale motivo, “le forze locali hanno dato dimostrazione di avere difficoltà a combattere senza i loro consiglieri americani”. “Negli ultimi quindici anni, la nostra capacità di costruire – e addestrare – forze di sicurezza si è rivelata infelice”, ha dichiarato allo stesso Nyt Karl Eikenberry, ex comandante dell’esercito e ambasciatore degli Stati Uniti in Afghanistan.

Negli ultimi decenni l’esercito americano ha addestrato soldati in decine di paesi stranieri, una missione che ha assunto un significato diverso dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Dopo quel momento, infatti, gli Usa hanno avuto l’ambizione – soprattutto in Iraq e Afghanistan – di sostituire il proprio esercito con le forze locali. Sempre secondo i funzionari americani, tale volontà è costata al governo di Washington 25 miliardi di dollari in Afghanistan. Uno sforzo enorme e rapidamente crollato dopo il ritiro degli stessi americani poi seguito dalla politicizzazione dell’esercito afghano – sotto il primo ministro Nuri al-Maliki – che ha “eroso l’efficacia dei militari a tutti i livelli”.

In un discorso a West Point, nel maggio dello scorso anno, il presidente americano Barack Obama aveva sottolineato il bisogno di “costruire una strategia” che espandesse la portata americana “senza l’invio di forze che suscitano risentimenti locali o creano problemi ai nostri militari”. In quell’occasione Obama aveva anche affermato che gli Usa “hanno bisogno di alleati che combattano i terroristi” al loro fianco.

Secondo il New York Times, però, questa strategia ha già rivelato diverse battute d’arresto e senza “l’appetito della maggior parte dei repubblicani o dei democratici” di voler inviare un gran numero di truppe, l’amministrazione sta regolando la propria strategia “rivolgendosi spesso ad alleati regionali per un aiuto nel sostegno delle forze locali”.

ANTONIO PIGAFETTA

Fonte: http://www.parodos.it/books/antonio_pigafetta.htm

pigafetta

Si conosce molto poco della vita di Antonio Pigafetta. Nacque tra il 1480 e il 1491 a Vicenza, forse da nobile famiglia. Trovandosi in Barcellona fu raccomandato perché seguisse la spedizione di Magellano, che stava apprestandosi a circumnavigare il mondo.

Non bene accettato da quest’ultimo, il Pigafetta seppe conquistarne gradualmente la stima, fino a diventare il suo criado (uomo di fiducia). Sorte volle tuttavia che la loro amicizia non durasse: il 27 aprile 1521 Magellano venne ucciso sulla piccola isola di Mactan dagli indigeni dell’isola di Cebu, nell’arcipelago delle Filippine. Anche Pigafetta rimase ferito, ma non mortalmente, negli scontri.

Morto Magellano, Pigafetta assunse ruoli di maggiore responsabilità nell’equipaggio, in particolare gestendo le relazioni con le popolazioni nelle quali si imbatterono. Tornato in patria con gli altri diciassette superstiti della spedizione, scrisse la “Relazione del primo viaggio intorno al mondo”. L’opera oggi è considerata uno dei più preziosi documenti sulle grandi scoperte geografiche del XVI secolo.

Pigafetta morì probabilmente intorno al 1534.


Cosa nasconde l’ansia di aver sempre tutto pulito e in ordine?

Fonte: http://www.riza.it/psicologia/ansia/2434/cosa-nasconde-l-ansia-di-aver-sempre-tutto-pulito-e-in-ordine.html
 Cosa nasconde l'ansia di aver sempre tutto pulito e in ordine?
Questa forma d’ansia è molto diffusa e alla sua origine nasconde un forte bisogno di controllo e un distorto desiderio di pulizia mentale; ma di quest’ansia ci si può liberare.

Una forma d’ ansia da non sottovalutare

Mamme che continuano a mettere a posto i giochi dei figli; mariti che ripassano con metodicità sulle cose già riordinate dalla moglie; donne che non riescono ad andare a letto la sera se non hanno concluso tutte le faccende domestiche; persone che sul lavoro tengono la scrivania libera e pulita come un tempio. Sono quattro esempi che parlano dell’ ansia dell’ordine, un problema così diffuso che forse nessuno di noi può dire di non averlo mai incontrato.

Quando l’ansia ci parla di emozioni ipercontrollate 

Certo, saper tenere in ordine l’ambiente in cui si vive o si lavora denota equilibrio interiore e chiarezza mentale; ma c’è un punto superato il quale questa capacità diventa ansia, fino all’ossessione: quando cioè non si può fare a meno di mettere sempre tutto a posto, quando non si riesce a smettere, quando un po’ di disordine può rovinare la giornata creando una sgradevole sensazione di “incompiutezza” che porta dritti all’ ansia.

Più vorremmo controllare tutto, più ci assale l’ansia: un circolo vizioso

Si tratta a tutti gli effetti di una forma d’ ansia acuta, nella quale si scarica un fortissimo bisogno di controllo. Di solito è un modo inconsapevole per impedire alle emozioni di emergere, o per gestire insicurezze radicate, o per sentirsi a posto con la coscienza: in questo caso l’ordine, ad esempio della casa, diventa per analogia un ordine morale, un senso di “pulizia interiore”, e le geometrie con cui si risistemano le cose offrono l’idea di “rettitudine”. In pratica la persona sta tenendo a bada qualcosa e al contempo sta mantenendo il suo equilibrio grazie a queste azioni rituali, che però hanno un prezzo alto: la mancanza di libertà nel vivere il proprio tempo e l’impossibilità di lasciarsi andare pienamente al relax, alle emozioni, ai cambiamenti.

I segnali da non sottovalutare: scopri se sei a rischio ansia da disordine

 Più agiamo per rimuovere il disordine, più la dimensione del “caos” si farà strada dentro di noi in modi inaspettati: è quindi inutile cercare di fuggirla; molto meglio accoglierla e imparare a viverla un po’ alla volta. Per prima cosa prestiamo attenzione ai seguenti segnali, che si affacciano nella vita di tutti i giorni. Testimoniano di una situazione psicologica particolare, che può trovare proprio nella ricerca spasmodica di ordine un suo tentativo di sfogo. Per ognuno, vi proponiamo una possibile via d’uscita più produttiva.

– Hai spesso reazioni scomposte e irritate per nulla.

La causa: probabilmente stai accumulando aggressività.

Cosa fare: esprimi subito le tue contrarietà, non covare astio, sii diretto.

– Ti distrai sempre, non sai stare “sul pezzo”.

La causa: forse hai riempito il tuo tempo di attività che non ti interessano davvero.

Cosa fare: arricchisci la tua vita di elementi interessanti, pescandoli anche nel tuo passato (cose che ti piacevano fare ma che ora hai abbandonato).

– Ti capita spesso di provare ansia

La causa: ti sei imposto una morale troppo rigida, specialmente in ambito sessuale.

Cosa fare: sii più elastico e cedevole, concediti qualcosa senza eccedere nei sensi di colpa.

– Hai frequenti sintomi fisici, anche se di poca importanza.

La causa: un eccesso di autocontrollo impedisce il fluire libero delle emozioni.

Cosa fare: dedicati di più al tuo corpo, fai uno sport che ti piace, vai in palestra, fai attività che ti procurano piacere.

– Fai pensieri caotici e logorroici, continui a rimuginare.

La causa: hai paura di incontrare il tuo vuoto interiore.

Cosa fare: rallenta le tue azioni, prova a vivere momenti in cui non fai nulla, senza domandarti il perché.

Siria e Isis: quante bugie sui bombardamenti di Putin

Scritto da: Giacomo Cangi
Fonte: http://www.wakeupnews.eu/siria-isis-quante-bugie-sui-bombardamenti-di-putin/

Siria

L’inizio dei bombardamenti in Siria da parte della Russia di Putin con obiettivo l’Isis ha suscitato grandi polemiche in Occidente e non solo. Nessuna, però, è basata su qualcosa di concreto. Ecco un elenco delle bugie da cui occorre diffidare per capire cosa sta accadendo veramente in Siria.

1. Il bombardamento di Putin in Siria è illegale. No, i bombardamenti della Russia sono il frutto di un accordo fra due governi, quello di Damasco e quello di Mosca. I bombardamenti in Siria che non hanno giustificazione alcuna secondo il diritto internazionale sono quelli francesi avvenuti pochi giorni fa. Le Nazioni Unite, infatti, non avevano autorizzato tale operazione ma ciò non ha impedito a Hollande di andare a bombardare uno Stato sovrano.

2. Putin non ha bombardato l’Isis. Dove sarebbero le prove? Finora l’unica foto circolata su twitter che mostrava delle vittime civili causate dai raid russi si è dimostrata essere un fake in quanto risaliva a ben prima dei bombardamenti di Putin.

3. Putin ha bombardato i ribelli moderati. Anche se la Russia non avesse bombardato l’Isis ma i ribelli, avrebbe fatto benissimo. I cosiddetti ribelli moderati siriani, infatti, non sono dei sant’uomini ma dei terroristi. Il Daily Mail nel 2012 parlò di «un numero crescente di resoconti di atrocità effettuate da elementi criminali dell’Esercito Siriano Libero». Il thedailybeast.com del 2013 raccontò che in Siria i rapimenti, gli stupri e le esecuzioni dei cristiani avvenivano anche per mano degli affiliati dell’Esercito Siriano Libero. Nel 2013 una madre di tre bambini disse al New York Times che stava scappando dai ribelli e che non voleva essere nominata nell’articolo perché aveva paura di rappresaglie dei ribelli contro i suoi parenti. Sempre al New York Times un uomo disse di essere stato derubato e picchiato dai ribelli a causa della sua fede cristiana. Nel 2013 il The New American parlò di un villaggio cristiano i cui residenti vennero massacrati dai ribelli. E chi considera i miliziani di al-Nusra dei ribelli moderati forse non sa che al-Nusra altro non è che la costola siriana di Al-Qaida. Non si capisce, quindi, per quale motivo questi ribelli vengano chiamati “moderati”.

4. La Russia bombarda i ribelli addestrati dalla Cia. I ribelli addestrati dagli Stati Uniti sono appena 60, e sono costati 500 milioni di dollari. A dirlo non è stato Bashar Assad ma Ashton Carter, Segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America. Oltre ad essere pochi non sono neanche tanto buoni. Un portavoce del Pentagono ha infatti fatto sapere che l’unità New Syrian Forces «ha comunicato di avere consegnato sei camioncini e una parte delle munizioni di cui era in possesso a presunti esponenti del Fronte al-Nusra». Insomma, non c’è bisogno di bombardarli, i ribelli addestrati dagli Stati Uniti in Siria si stanno sgretolando da soli.

5. L’Arabia Saudita è preoccupata per le vittime civili (tutte da dimostrare) causate da Putin in Siria. Maddai. E da quando l’Arabia Saudita ha così a cuore i diritti umani? Solo pochi giorni fa proprio in Arabia Saudita un ragazzo di vent’anni è stato condannato alla decapitazione e alla crocifissione per aver partecipato ad una manifestazione anti-governativa. Con che coraggio l’Arabia Saudita osa parlare dei presunti morti causati da altri? Certo, se le Nazioni Unite evitassero di nominare, dopo poche ore dalla condanna a morte del ragazzo, proprio l’ambasciatore dell’Arabia Saudita, Faisal bin Hassan Trad, a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu nel 2016, sarebbe decisamente meglio.