«IO, SOPRAVVISSUTO A UN NAUFRAGIO»

Scritto da: Luca Valente
Fonte: Mensile “Schio” di febbraio 2012

 

Dopo la tragedia della “Costa Concordia”, ecco i ricordi di Bruno Dalla Croce, che a 94 anni ricorda ancora bene il siluramento e l’affondamento, nel ’41, della nave sulla quale era imbarcato. «Mi salvai per miracolo».

La recente tragedia della Costa Concordia, la nave da crociera incagliatasi davanti all’isola del Giglio, ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Solo chi ha vissuto un’esperienza simile, però, sa cosa significhi trovarsi sul ponte di un gigante galleggiante in procinto di affondare. Un’esperienza che può ben raccontare lo scledense Bruno Dalla Croce, anche se risale al lontano 1941.

L’affondamento della nave che lo trasportava in Africa è rimasto impresso in modo indelebile nei suoi ricordi, drammaticamente risvegliatisi nel vedere in televisione le immagini della Concordia sbandata su un fianco, il terrore dei passeggeri, l’assalto alle scialuppe di salvataggio: «So cosa si prova, sono stato un naufrago anch’io. Viaggiavo a bordo della motonave Oceania, i sottomarini inglesi ci hanno silurato prima che raggiungessimo la Libia. Rimasi in balia delle onde, da solo, per molte ore. Solo per un miracolo riuscii a salvarmi».
Dalla Croce, 94 anni, abita a Magrè (Vicenza). Sulla parete del salotto due Croci al merito di guerra e una foto di quando era prigioniero negli Stati Uniti, nel cassetto decine di altre immagini della sua vita da militare, iniziata nella Guardia alla frontiera all’epoca dell’attacco alla Francia, nel giugno 1940. Poi vennero il trasferimento al 5° Parco automobilistico di Verona e l’imbarco per il Nordafrica, il 13 settembre 1941, con destinazione Tripoli.
Quella notte da Taranto salparono le grandi motonavi Oceania e Neptunia da 19.500 tonnellate ciascuna e Vulcania da 24.500, scortate dai cacciatorpediniere Da Recco, Pessagno, Da Noli, Usodimare e Gioberti. Avvistato dalla ricognizione nemica, il convoglio cadde in un agguato tesogli nella notte tra il 16 e il 17 settembre da quattro sottomarini britannici partiti da Malta: l’Unbeaten, l’Upright, l’Ursula e l’Upholder. Quest’ultimo lanciò una salva di siluri che fece colare a picco il Neptunia e danneggiò l’Oceania. L’Upholder, unità leggendaria (il suo comandante, David Wanklyn, fu il primo ufficiale inglese sommergibilista ad essere decorato con la Victoria Cross durante la seconda Guerra mondiale), mise a segno però altri due siluri al centro della nave, decretandone la fine: l’Oceania affondò verticalmente di poppa. Sulle due navi erano imbarcati 5818 militari: le vittime furono 384.
«Eravamo in attesa da quattro mesi ad Afragola – racconta Dalla Croce -, quando finalmente giunse l’ordine di imbarcarci. Al largo di Malta i nostri aerei abbandonarono la copertura, lasciandoci al nostro destino. Girava voce che gli inglesi ci aspettassero e io, quella sera, non me la sentii di scendere sottocoperta, mentre un mio compaesano, Lucio Fioretto, preferì il caldo della cuccetta alla scomodità del ponte e del giubbotto di salvataggio: non lo rividi più. Verso le quattro del mattino la nave fu squassata da un’esplosione e cominciò a sbandare, ma dicevano che c’era tutto il tempo di mettersi in salvo. Vidi scene surreali: soldati che scattavano fotografie ricordo, il furiere che distribuiva le paghe».Settant’anni dopo situazioni simili le abbiamo riscontrate sulla Concordia: molti membri dell’equipaggio si sono lamentati che diversi passeggeri pensavano più a scattare foto e a fare riprese con il telefonino invece che a mettersi in salvo. Ma torniamo al racconto di Dalla Croce: «Ci fu un’altra esplosione, ci avevano colpito ancora. Il mare era in burrasca: presi una fune per calarmi dalla fiancata e nel farlo mi scorticai completamente le mani. In acqua le onde mi sbattevano continuamente contro lo scafo: non riuscivo ad allontanarmi e non so come sfuggii al risucchio quando la nave s’inabissò. Riuscii ad issarmi su una piccola zattera, mentre si faceva giorno e le onde mi portavano a chilometri di distanza. Persi i sensi e mi svegliai in ospedale, a Tripoli, il 18 settembre: mi raccontarono che un idrovolante mi aveva scorto tra i flutti, al tramonto, ed era ammarato per raccogliermi».
Il Neptunia e l’Oceania furono solo due delle decine di navi colate a picco nel Canale di Sicilia tra il 1940 ed il 1943, durante quella che venne definita la battaglia dei convogli e che fu il compito principale della Marina italiana durante la 2ª Guerra mondiale: garantire il rifornimento dell’esercito italo-tedesco in Nordafrica. La loro perdita fu comunque uno degli episodi più tragici della guerra del traffico, al pari degli affondamenti del transatlantico Conte Rosso, del trasporto truppe Esperia, dei convogli Tarigo e Duisburg, degli incrociatori Da Barbiano e Di Giussano e Armando Diaz.
I viaggi di rifornimento alla Libia dallo scoppio della guerra alla perdita della colonia, nel gennaio 1943, furono quasi duemila: raggiunsero i porti il 92% del personale militare imbarcato e l’86% degli equipaggiamenti, a fronte della perdita di 227 navi. Quasi mezzo migliaio, invece, i convogli partiti per il fronte tunisino fino al maggio 1943: arrivarono a destinazione il 93% degli uomini e il 70% dei materiali, anche se andarono perdute 101 navi. Numeri che fanno dire a diversi storici che la Regia marina, sostanzialmente, vinse la battaglia dei convogli. Quel cimitero di navi che copre il fondo del mare assieme a migliaia di cadaveri resta però fredda testimonianza del cruento scontro con le forze aereonavali inglesi, favorite dalla tecnica (radar e sonar) e dalle decrittazioni di Ultra, che permetteva alla Mediterranean Fleet di conoscere in anticipo i movimenti dell’Asse.
Quanto a Dalla Croce, una volta ristabilitosi rientrò in servizio come capo motorista in un reparto officina, raggiungendo il grado di sergente maggiore alla fine della campagna d’Africa. «Ho combattuto a Tobruk, a Sidi Barrani, ad El Alamein. Eravamo sballottati da una parte all’altra del fronte, aggregati una volta alla Divisione Ariete, una volta alla Folgore, o nelle retrovie battute dai raid degli inglesi. Intervenivamo sul campo di battaglia per recuperare gli automezzi recuperabili, compresi quelli del nemico, che al contrario dei nostri non si insabbiavano. Una volta riparai l’autoblindo del comandante di un reparto tedesco, che nessuno riusciva a mettere in moto: mi fecero una gran festa e mi regalarono una montagna di viveri. Ero già stato preso prigioniero una volta, sulla Sirte, ma i coloni trevisani di Barce mi avevano passato attraverso i reticolati degli abiti civili ed ero riuscito a fuggire. Si mise male dopo la ritirata in Tunisia: eravamo in 30 mila, compresi molti generali, e gli inglesi mandarono un caporale e due soldati a chiedere la resa. Una vera umiliazione».
L’odissea del sergente di Magrè, già naufrago e per la seconda volta catturato, non era ancora finita: dopo dure settimane in cattività nei fortini della Legione straniera nel Sahara, i prigionieri furono divisi tra inglesi, francesi e americani. Dalla Croce ebbe la fortuna di finire tra questi ultimi: al termine della quarantena a Casablanca fu imbarcato per Boston e in America accettò di divenire, come tanti altri italiani, collaboratore di guerra. Rientrò in Italia, sbarcando a Napoli, il 20 ottobre 1945. Oggi, come tutti quei prigionieri-lavoratori, aspetta ancora che lo Stato gli versi la sua parte dei miliardi che gli Stati Uniti consegnarono all’Italia come pagamento di quell’impegno, non secondario per l’industria bellica americana. Ma questa è un’altra storia.

Nelle foto: Bruno Dalla Croce oggi, nel 1940 circa, in Africa (quarto da sinistra in piedi) e collaboratore di guerra negli Usa (ultimo a destra); l’affondamento del Neptunia; naufraghi del Neptunia e dell’Oceania raccolti dal cacciatorpediniere Da Noli.

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