Costa d’Avorio, di nuovo nel caos

Scritto da: Alberto Tundo   
Fonte: .peacereporter.net

Un presidente nuovo e un popolo ostaggio di un incubo vecchio. E’ questa la paradossale situazione in cui si trova la Costa d’Avorio. Da ieri pomeriggio, è ufficiale la vittoria del candidato dell’opposizione Alassane Ouattara, con il 54,1 per cento dei voti. Nessun festeggiamento, però, perché il Paese si trova di nuovo ad un passo dalla guerra civile.

L’ennesimo stallo. Lo scenario è quello di un conflitto alle porte. Ieri l’esercito ha chiuso “le frontiere terrestri, aeree e marittime”mentre le trasmissioni dei canali stranieri venivano soppresse. Questo l’epilogo di quattro giorni di tensione, durante i quali si erano succedute speculazioni sul risultato del ballottaggio di domanica 28 novembre tra il presidente uscente Laurent Gbagbo e il leader del Rassemblement des Republicans. Si sapeva che ogni minuto di ritardo nella comunicazione dei voti avrebbe esasperato gli animi e il quadro peggiore si è materializzato quando la Commissione elettorale indipendente (Cei) ha lasciato passare i tre giorni a disposizione per annunciare i risultati, senza ufficializzare nulla, a causa delle divisioni che la paralizzavano; segno che il regime aveva perso alle urne e la battaglia sulla validità del voto era già iniziata. E infatti, subito dopo l’annuncio tardivo della vittoria di Ouattara, è arrivata la dichiarazione choc del presidente del Consiglio costituzionale, Paul Yao ‘Ndrè – cui spetta la proclamazione finale – secondo il quale “i risultati diffusi dalla Commissione non sono validi”. ‘Ndrè è un uomo di Gbagbo, che ha in mano anche esercito e gendarmeria. Se il presidente non deciderà di riconoscere la sconfitta e farsi da parte, è difficile che qualcuno lo possa disarcionare, pacificamente. L’Onu lo sa e per questo ha fatto partire un intenso pressing diplomatico: le Nazioni Unite, che hanno monitorato il processo elettorale e che schierano in Costa d’Avorio circa novemila elementi (7500 soldati), hanno subito salutato la vittoria di Ouattara, cercando di blindarla. Un monito è arrivato anche dal National Security Council americano, che attraverso il portavoce Mike Hammer ha ribadito “la condanna degli Stati Uniti di ogni atto di violenza e di intimidazione diretto a far deragliare il processo democratico”.

Il gioco di Gbagbo. Parole pesate una ad una. Perché proprio questo sembrerebbe essere il vero piano di Gbagbo, una strategia che il presidente uscente ha già usato con successo diverse volte. Il suo mandato infatti è scaduto nel 2005 ma, giocando sull’impossibilità di tenere elezioni pacifiche, è riuscito a restare in sella per altri cinque anni. E adesso ci starebbe riprovando. Mercoledì notte la sede del partito di Ouattara, nella parte ovest di Abdjan, è stato attaccata da un commando di una cinquantina di uomini che, a volto coperto, sono riusciti a penetrare nell’edificio e a fare fuoco sui presenti. Il bilancio è di otto vittime e 14 feriti. Lascia pensare il fatto che alcuni dei killer indossassero divise militari, della Gendarmeria più precisamente, secondo quanto riferito dai testimoni. Così come è strano che cinquanta persone siano riuscite ad avvicinarsi ad un obiettivo a rischio, che avrebbe dovuto godere di una protezione particolare, nonostante fosse in vigore il coprifuoco. Ouattara, da parte sua, sa che queste sono ore decisive e ha scelto di non intervenire direttamente: se lo scontro dovesse degenerare, avrebbe tutto da perdere. Gbagbo può contare sulla fedeltà dell’esercito, che al momento è padrone del gioco. L’unica sua speranza è tenere sotto controllo i suoi sostenitori, anche i gruppi armati che potrebbero rispondere all’aggressione di mercoledì. Quelli fedeli al presidente, i Jeunes Patriotes, da tempo venivano segnalati come una fonte di pericolo e destabilizzazione, soprattutto nel sud e nel sud-ovest del Paese, dove il presidente ha i suoi feudi elettorali e dove a ridosso del ballottaggio erano comparsi volantini che incitavano alla cacciata dei non ivoriani. Che poi sono, in prevalenza, sostenitori di Ouattara, musulmani come lui, arrivati dai Paesi limitrofi in cerca di fortuna e stabilitisi nel nord. La zona i cui voti, secondo Gbagbo, vanno annullati. Divisioni religiose ma soprattutto etniche che nascondono una lotta feroce per l’accesso alle risorse. Il presidente uscente è alla guida di un regime che rappresenta le elites storiche, le quali non vogliono spartire la torta con i nuovi arrivati. Queste le ragioni di un conflitto che è esploso nella forma di una guerra civile nel 2002 e che ha lasciato il Paese diviso in due. Se nel partito di Gbagbo prevarranno i falchi, allora c’è da attendersi il peggio. Soffieranno sul fuoco. Lo hanno già fatto, lo rifaranno.