Palestina, Siria e Iran, le crisi mediorientali si collegano?

Scritto da: G.Colonna
Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1869/Palestina-Siria-e-Iran-le-crisi-mediorientali-si-collegano

La situazione del Vicino Oriente diventa sempre più complessa, per l’intreccio nel quale si stanno collegando le diverse aree di crisi di una regione progressivamente libanizzatasi nel corso di un decennio: per rendersene conto è sufficiente una visione di insieme, che evidenza la gravità dei rischi che si stanno qui accumulando per la pace mondiale.
Iniziamo con le ragioni per cui Israele ha improvvisamente interrotto l’operazione Pillar of Defense (più precisamente Pillar of Cloud, “pilastro di nubi”, con riferimento ad un testo biblico): a quanto pare, gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a garantire con proprie truppe il controllo della Penisola del Sinai, il nuovo fronte meridionale che Israele ha ripetutamente indicato nel corso degli ultimi anni come una seria minaccia per la propria sicurezza, in quanto area “grigia” sfuggita al pieno controllo del governo egiziano, attraverso la quale passerebbero armi e munizioni destinate alle forze di Hamas nella Striscia di Gaza.
Ma lo Stato ebraico deve avere ottenuto anche altro in cambio dell’interruzione di un’azione militare della cui pericolosità in questo momento i vertici israeliani erano comunque consapevoli fin dall’inizio: molta attenzione si dovrebbe infatti prestare alla notizia, che il premier turco Erdogan ha voluto personalmente confermare durante una conferenza stampa, degli incontri ad altissimo livello fra esponenti dell’intelligence turca e israeliana tenutisi al Cairo nel corso delle trattative sulla tregua – un evento che deve essere motivato da ragioni molto solide, dato che interrompono il gelo calato sulle relazioni turco-israeliane dopo la strage della Freedom Flottilla.
Non è azzardato perciò pensare che la Turchia abbia definito degli accordi politico-militari con Israele sulla questione siriana e iraniana, alla vigilia dell’ormai deciso spiegamento dei missili Nato Patriot lungo il confine turco-siriano, una decisione che mostra la volontà occidentale di farla finita con l’imprevista tenace resistenza di Assad e dei suoi sostenitori, evidentemente più numerosi e motivati di quanto non si potesse inizialmente pensare.

Intervento occidentale in Siria?

I sintomi di un possibile intervento, sul tipo di quello attuato in Libia, si moltiplicano. Il 17 novembre, infatti, gli Usa hanno deciso lo spostamento verso le coste siriane e libanesi di un gruppo aeronavale di pronto intervento guidato dall’unità anfibia USS Iwo Jima. Il neo-eletto presidente Obama ha poi accolto la richiesta turca di schierare lungo il confine con la Siria le batterie di missili Patriot della Nato ed ora non rimane che l’approvazione, data per scontata, da parte della Nato stessa. Contemporaneamente, Obama ha anche autorizzato lo schieramento nell’area degli aerei da controllo elettronico Awacs, un fatto che in genere prelude al lancio di massicce operazioni aeree.
Il 23 novembre, invece, come annunciato pochi giorni prima, sono giunte al largo della Striscia di Gaza alcune delle più importanti unità della flotta russa del Mar Nero, che comprendono l’incrociatore lanciamissili Moskva, il caccia Smetlivy, le unità da sbarco Novocherkassk e Saratov, oltre al rifornitore di squadra Ivan Bubnov e al rimorchiatore MB-304, in attuazione di una decisione assunta dal governo russo l’11 novembre.
Il 3 dicembre, poi, lo stesso Putin avrà un attesissimo incontro con il premier turco Erdogan, il cui tema principale non potrà che essere la situazione siriana: ciò dimostra che il quadro pre-bellico che abbiamo poco fa sinteticamente descritto non è un’invenzione, ma rappresenta una concreta preoccupazione anche per il governo della Russia, l’unico paese presente nell’area ancora schierato in difesa del regime di Assad, insieme all’Iran.

L’Iran e la “linea rossa” di Obama

Il 24 novembre, appena entrata in vigore la tregua, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha telefonato al primo ministro di Hamas, Ismail Haniya, garantendo personalmente la continuità dei rifornimenti militari iraniani ai Palestinesi di Gaza, mentre, secondo i servizi segreti israeliani, il portavoce del parlamento iraniano Ali Larijani avrebbe incontrato il presidente Bashar Assad a Damasco il 23 novembre ed il 24 novembre il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, per concordare una politica di risposta comune a quanto si va preparando in Medio Oriente.
Poiché molti osservatori indipendenti ritengono che anche nell’attacco a Gaza fosse ben presente ai decisori israeliani l’obiettivo primario iraniano, per accettare la tregua è da presumere che Israele abbia avuto qualche contropartita relativa anche all’Iran.
Il 16 novembre, l’AIEA ha emanato il suo rapporto periodico, nel quale si afferma che “non si è raggiunto un accordo su di un approccio strutturato per risolvere le importanti questioni relative alla possibile dimensione militare del programma nucleare iraniano né ottenere l’adesione del governo iraniano all’accesso, richiesto dall’Agenzia, al sito di Parchin”.
Sulla base di questo rapporto, la cui analisi di dettaglio rivela per altro l’oggettiva assenza di elementi tecnici che dimostrino la prosecuzione di un programma nucleare militare da parte dell’Iran, la nuova amministrazione Obama ha lanciato un vero e proprio ultimatum, a cui la stampa occidentale non ha prestato tutta la dovuta attenzione. Il 28 novembre scorso, infatti, il rappresentante Usa nel consiglio direttivo di AIEA, il diplomatico Robert A. Wood, ha espressamente dichiarato: “Se entro marzo l’Iran non avrà iniziato un’effettiva cooperazione con l’AIEA, gli Stati Uniti lavoreranno insieme ad altri membri del consiglio per sviluppare un’azione adeguata e solleciteranno il consiglio stesso a riferire della mancanza di qualsiasi progresso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. (…) Non si può consentire all’Iran di ignorare all’infinito i suoi obblighi. (…) In poche parole, l’Iran deve agire subito”.
L’attenzione si appunta adesso sull’incontro di AIEA con l’Iran previsto per il prossimo 13 dicembre, sul quale, tuttavia, il diplomatico Usa ha già lasciato cadere una pesante ipoteca: “Ho i miei dubbi sulla sincerità dell’Iran”.
Ecco dunque la famosa red line (la linea rossa) temporale che Netanyahu aveva finora insistentemente chiesto all’amministrazione Obama e che il presidente Usa, non appena rieletto, si è affrettato a concedere allo Stato ebraico, probabilmente nella speranza, ora che si trova libero da condizionamenti elettorali, di poter operare con maggiore decisione sulla questione iraniana.

La seconda presidenza Obama e la strategia di potenza di Israele

La presa di posizione dell’amministrazione Usa contro il riconoscimento del nuovo status giuridico della Palestina all’Onu, dimostra una volta ancora che le amministrazioni americane, indipendentemente da uomini e partiti, seguono ormai pedissequamente le scelte israeliane. Il voto dell’Onu, infatti, da un lato rappresenta per lo Stato ebraico un reale pericolo politico, perché dà la possibilità all’Autorità Palestinese di svolgere un ruolo internazionale che non aveva più da decenni, con tutti i rischi che questo potrebbe comportare sul piano giuridico per le politiche israeliane di guerra preventiva, di assassinii mirati e di repressione delle popolazioni civili nei territori occupati.
Ma certamente rafforza la linea di Sharon e di Netanyahu, che considera superata la prospettiva degli accordi di Oslo. L’immediata risposta israeliana, di incrementare la costruzione di insediamenti ebraici a Gerusalemme est, chiara e diretta ritorsione al voto dell’Onu, dimostra che Israele prosegue nella strategia inaugurata nel settembre 2000 da Ariel Sharon con la passeggiata sulla spianata del “nobile santuario” (al-Haram ash-Sharif) di Gerusalemme, una strategia basata sull’uso della forza in difesa a oltranza dello status quo demografico e militare dello Stato ebraico.
L’impressione è che Israele abbia voluto colpire Gaza, partendo proprio dall’uccisione di Hamed Jabari, la personalità di Hamas con cui erano in corso in realtà trattative per consolidare la tregua, allo scopo di imprimere un’accelerazione alla soluzione complessiva delle crisi in atto: siriana, iraniana e palestinese insieme. Se è vero infatti che l’attuale momento presenta dei rischi non indifferenti per lo Stato ebraico nel dopo Assad in Siria e nel dopo Mubarak in Egitto, l’enorme instabilità che le cosiddette “primavere arabe” hanno impresso alla regione favoriscono la possibilità di assestare dei colpi decisivi per consolidare la posizione israeliana, senza più bisogno di un compromesso sulla Palestina.
La nostra ipotesi è che Usa e Turchia abbiano accolto il messaggio israeliano ed abbiano rassicurato Israele sul fatto che la soluzione di Gaza verrà da sola, dopo la caduta della Siria ed un possibile colpo chirurgico contro l’Iran che disarmerebbe definitivamente Hamas. In un progetto del genere, Israele e gli occidentali possono godere anche del sicuro consenso dell’Arabia Saudita che conta in tal modo di poter allargare la propria cintura di sicurezza non solo nel Golfo Persico ma anche in Siria e Libano, circondandosi di entità arabo-islamiche ideologicamente e finanziariamente sotto stretto controllo.
Gli sviluppi sul terreno dimostrano fra le altre cose la creazione di un “canale” di libero accesso per gli aerei israeliani dal Mediterraneo all’Iran, attraverso il sud della Siria e il Kurdistan. Nel primo caso, clarissa.it ha già raccontato che i “ribelli” siriani hanno distrutto una delle tre principali stazioni radar siriane, nota come M-1, posizionata nel sud del Paese, a copertura del confine con Israele, Giordania ed Arabia Saudita, oltre che del Libano meridionale, l’area presidiata dal movimento filo-siriano shiita Hezbollah: un evidente regalo allo Stato ebraico, oltreché alle forze aeree occidentali che potranno così operare indisturbate dalle basi aeree giordane e saudite.
L’area curda dell’Iraq settentrionale è di fatto già indipendente dal governo centrale di Baghdad al punto che questo ha dovuto creare un comando militare ad hoc per il nord del paese e schierare proprio nelle ultime settimane le proprie truppe nel distretto di Salahuddin, difronte a quelle kurde, mentre i colloqui tra il primo ministro iracheno Nuri al Maliki e il presidente curdo Massoud Barzani non hanno dato alcun risultato. Visti i buoni rapporti di Israele con il governo curdo, un altro tratto del percorso di avvicinamento aereo all’Iran è oggi disponibile in sicurezza per gli arei con la stella di David.
Il fallimento dell’interventismo occidentale e le esigenze di ridispiegamento delle forze statunitensi a livello mondiale stanno contribuendo in modo determinante a creare la storica opportunità per lo Stato ebraico di diventare, con la caduta dei suoi ultimi avversari, la vera potenza egemone in Medio Oriente, obiettivo lucidamente perseguito da trent’anni a questa parte.

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