L’infinito scandalo degli stupri nell’esercito Usa

Fonte: http://www.linkiesta.it/usa-army-rape

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Le denunce sono state 3.192 in un anno, ma l’86% delle vittime (anche uomini) sceglie il silenzio

NEW YORK – Dal momento in cui Kimberly ha deciso di parlare, tutto «è andato molto peggio». Indossa la divisa dell’Aviazione americana e conta i giorni che la separano dalla pensione, quando dopo ventidue anni di servizio e undici di inferno, potrà, forse, tornare a vivere. Una sera di gennaio del 2001, è stata violentata dal responsabile della sua squadriglia, ma per paura delle conseguenze ha resistito otto anni prima di fare rapporto al proprio comandante. «Era una donna, e mi ha fissato con uno sguardo vuoto, come se stessi solo aggiungendo altri problemi al suo lavoro», racconta. Dopo la denuncia fatta nel 2009 per lei ci sono stati solo umiliazione e isolamento. «Il comando ha fatto di tutto per insabbiare la questione, mi hanno trattato come se fossi pazza e bugiarda. Hanno creduto al mio aggressore e gli hanno permesso di andare in pensione con tutti i benefici, mentre io ho perso il mio lavoro e la dignità».

C’è un’epidemia di abusi che da decenni dilaga all’interno delle forze armate americane. Secondo i dati del Dipartimento della Difesa, nel 2011 le denunce per casi di violenza sono state 3.192, l’un per cento in più dell’anno precedente e solo la punta di un iceberg immenso. Il Dipartimento stima che l’86% delle vittime scelga il silenzio e un sondaggio condotto dal Pentagono ha rivelato che nel 2010 il numero reale di aggressioni ha superato i 19 mila casi. In proporzione la maggior parte delle vittime sono donne, ma in numeri assoluti i più colpiti sono gli uomini. Marina, Aviazione, Esercito, ogni corpo militare ha avuto il suo scandalo importante, e nel giugno del 2011 la denuncia per stupro fatta da una recluta dell’Aviazione della base di Lackland, Texas, ha dato il via a un’indagine non ancora conclusa che a fine gennaio contava 59 vittime e 32 istruttori accusati di violenze o molestie. E se gli abusi traumatizzano provocando senso di isolamento, è la cultura dell’impunità a rappresentare il cuore del problema. Nel 2011 solo 240 indagini sono sfociate in un processo, e le condanne sono state 191. Ogni corpo gestisce i propri casi dall’interno e spesso chi deve svolgere le indagini è troppo vicino agli aggressori, o, a volte, è l’aggressore stesso. I comandanti in genere preferiscono adottare azioni disciplinari per evitare di portare gli accusati davanti alla corte marziale, e il risultato è un paradosso di vittime costrette a dimostrare di essere innocenti e assalitori sempre più convinti che nelle forze armate sia possibile abusare senza dover rispondere delle proprie azioni.

Il Service Women’s Action Network (SWAN) (http://servicewomen.org/) è l’organizzazione nata per offrire aiuto alle donne che hanno subito violenza mentre servivano all’interno di un corpo militare e lo scorso maggio ha riunito in un hotel di Washington 250 veterane per il primo “Truth and Justice Summit”, un incontro nazionale in cui condividere esperienze e discutere delle strategie per continuare a chiedere giustizia. Tra loro c’erano anche Kori Cioca e Ariana Klay, due delle protagoniste di The Invisible War), il documentario premiato dal pubblico del Sundance con cui il regista Kirby Dick ha raccontato la guerra invisibile che nelle forze armate colpisce una donna su cinque. Ma la violenza sessuale non è una questione di genere e i veterani invitati al summit hanno applaudito con forza quando uno di loro ha descritto il senso di vergogna che lo ha accompagnato per anni dopo l’aggressione e la mancanza di assistenza sanitaria o psicologica da parte della Difesa. Le donne e gli uomini che Kirby Dick ha incontrato per il film sono persone che hanno dovuto reimparare a vivere, affette da disturbo post-traumatico da stress e con un forte senso di solitudine. «Molti di loro hanno vissuto le interviste come un’esperienza positiva perché per la prima volta qualcuno ha creduto alle loro storie», afferma il regista. A Washington quel giorno c’erano anche deputati e senatori che da anni lottano perché il Pentagono applichi la “tolleranza zero” di cui nella realtà non c’è traccia, e parlando alla platea l’allora senatore del Massachusetts e oggi neo segretario di Stato americano, John Kerry, ha affermato che «le Camere devono lavorare assieme al Pentagono per fare ciò che è giusto» e che «nessuno dovrebbe essere vittimizzato una seconda volta dalla mancanza di assistenza e di giustizia».

 

Nell’ultimo anno però qualcosa si è sbloccato. Il 13 febbraio è stato proposto il Ruth Moore Act, una legge che potrebbe aiutare le vittime a dimostrare la connessione fra le violenze e l’insorgere di disturbi psicologici, che prende il nome dalla ex marine, stuprata a 18 anni da un supervisore, che ha lottato per oltre vent’anni per ottenere giustizia.
Greg Jacob, il responsabile strategico di SWAN, ha definito il testo «un sforzo potente per correggere un sistema guasto», e ha avuto parole positive anche a gennaio, quando il segretario alla Difesa uscente, Leon Panetta, ha annunciato che le soldatesse verranno ammesse in combattimento. Secondo Jacob eliminare le politiche di esclusione provocherà un cambiamento abissale nella cultura dell’esercito, e una maggiore parità tra i sessi contribuirà a ridurre le violenze. Ma il primo vero gesto dirompente per cambiare lo status quo il Pentagono l’ha fatto nell’aprile del 2012. Abc ha scritto che la decisione di Leon Panetta è arrivata dopo aver visto The Invisible War e Dick afferma «che il Segretario e il suo staff sono rimasti molto colpiti dal documentario», ma qualunque sia stato il movente Panetta ha smosso le acque annunciando nuove misure contro l’emergenza abusi, dall’affido dei casi a ufficiali di grado più alto per evitare parzialità nei giudizi, fino alla creazione di unità speciali per la raccolta delle denunce. Anu Bhagwati, ex capitano della Marina e direttore esecutivo di SWAN, allora l’ha definito «un passo enorme, il più importante fatto fino ad ora dalla Difesa», ma Rachel Natelson, direttore del ramo legale di SWAN ricorda che «l’ideale per noi resta l’istituzione di veri e propri uffici penali per sottrarre la gestione dei casi alla catena di comando militare».

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