Caso Moro. L’ombra dei servizi dietro la primula rossa Alessio Casimirri

Fonte:http://www.articolotre.com/2014/06/caso-moro-lombra-dei-servizi-dietro-la-primula-rossa-alessio-casimirri/

aldo-moro-Gea Ceccarelli- Lo chiamano la “primula rossa” delle Br. Si parla di Alessio Casimirri, condannato nell’89 con l’accusa di aver partecipato al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro ma mai finito in carcere. Il motivo è semplice: l’uomo si trova infatti in Nicaragua da anni. Si è rifatto una vita, ha una famiglia, un buon lavoro, un passato fumoso alle spalle, in quell’Italia che aveva contribuito a destabilizzare.

Lo considerano un superprotetto dai servizi: le voci attorno alla sua persona resistono negli anni e difficilmente la nuova commissione d’inchiesta parlamentare sarà in grado di diradarli. E dire che era pure stato arrestato: in Francia, dove si era inizialmente nascosto. Sembrava che tutto stesse andando come avrebbe dovuto, era un criminale ed era finito in manette. Impensabilmente, però, riuscì a fuggire grazie un passaporto falso, per molti consegnatogli proprio dai servizi segreti o da ambienti ecclesiastici, anche a fronte delle sue entrature con il ministero della Difesa italiano e con il Vaticano.

I tentativi di riportarlo in Italia naufragarono tutti miseramente. Così come quelli di farlo collaborare. Si comincia dal dicembre del ’93, quando tre agenti del Sisde sarebbero dovuti tornare in Nicaragua per incontrarlo: erano riusciti ad avviare un dialogo e, in quell’ultimo viaggio, avrebbero dovuto raccogliere rivelzioni “molto più importanti della questione di via Montalcini”. Non se ne fece niente, alla fine Casimirri si tirò indietro, dopo che la stampa italiana aveva a lungo speculato su di lui, rivelando, tra l’altro, dettagli riservati di quei colloqui, evidentemente sfuggiti proprio da ambienti istituzionali.

La lunga fatica di convincerlo a parlare veniva così vanificata: non si sarebbe saputo da lui altro di quello non già detto. Che era già di per sé abbastanza scottante. Durante questi incontri, Casimirri (nome di battaglia “Camillo”), iniziò infatti ad ammere quanto sapeva: soprattutto, parlò di “tradimenti” in seno alle Br, alludendo ai giochi di potere e alle ingerenze che accompagnarono la sua esperienza nel terrorismo rosso. Spiegò di aver iniziato ad intuire tali voltafaccia già dopo l’omicidio del presidente della Dc, quando, nel ’79, avrebbe dovuto organizzare un assalto all’Asinara.

Tutto era pronto: un ritorno in grande stile delle Br, poco più di un anno dopo dalla morte di Moro. Tanto sarebbe bastato per far sprofondare nuovamente l’Italia nel terrore. Casimirri era convinto che tutto si sarebbe risolto secondo i programmi, ma così non fu: il piano da lui stesso messo a punto venne annullato all’ultimo. A deciderlo, Mario Moretti, che, giunto in Sardegna, valutò la situazione e stabilì che non si sarebbe fatto niente. Non c’era, a suo dire, il volume di fuoco sufficiente. Per Casimirri si trattò di una decisione assurda, che lo portò a iniziare a dubitare della trasparenza delle Br.
La conferma dei suoi sospetti giunse poi con la scoperta che i vertici dell’organizzazione avevano deciso di non pubblicizzare gli scritti di Moro, alcuni dei quali trovati nascosti in un pannello del covo di via Montenevoso, a Milano.

Questo è quello che raccontava. Ma, nello stesso periodo, i media italiani galoppavano e le indiscrezioni sui colloqui segreti fioccavano. Alcune di queste sostenevano che Casimirri avesse rivelato la vera identità dell’ingegner Altobelli, il cosiddetto “quarto carceriere”. Secondo quanto riportato dalla stampa, il nome fatto era Germano Maccari. Eppure, Casimirri non poteva saperlo con esattezza: nei 55 giorni dopo via Fani, infatti, era stato estromesso dall’operazione.
Di fatto, al massimo, nei suoi colloqui con gli agenti segreti, il latitante aveva solo descritto un individuo che si sarebbe occupato degli aspetti logistici dell’operazione contro la Dc. Si trattava di un ragazzo in procinto di partire per il servizio di leva e, per tale motivo, Gallinari, decise di presentarlo a Casimirri: con le entrature di quest’ultimo, infatti, sarebbe stato possibile ottenere l’esonero dal militare per il misterioso uomo, senza il quale il piano ai danni di Moro non si sarebbe potuto veder compiuto.

Presto, però, l’identificazione in Maccari si rivelò errata. Scrisse il Sisde dopo il viaggio in Nicaragua: “Altobelli aveva il nome di battaglia di Germano, alto circa 1,80 mt, forse più, corporatura snella, con baffetti radi (…) era particolarmente stimato per le sue ‘qualità militari’ [secondo tutti i testimoni non possedute da Germano Maccari, il quale difficilmente avrebbe scelto come nome di battaglia quello che aveva nella realtà]: Savasta [Antonio, brigatista poi pentito] in particolare ne subiva il fascino (…). Altobelli ad un certo punto va a vivere nell’appartamento di via Montalcini insieme alla Braghetti”. “Dagli accertamenti esperiti”, scrivevano ancora nel rapporto, “l’Altobelli dovrebbe identificarsi”, piuttosto, “in Giovanni Morbioli, romano”. Versione, questa, poi confermata da Casimirri, che lo riconobbe in foto.

Spontaneamente?, vien da chiedersi. Non si sa: già nel ’95, infatti, il procuratore Franco Ionta ammise di non sapere se “il nome di Morbioli viene fatto da Casimirri o se vi è per così dire una sollecitazione fatta dai funzionari del Sisde ad indicare in Morbioli in quarto uomo. Questo per dire che l’attività svolta dal Sisde sul quarto uomo non avrebbe in realtà portato all’indicazione su Maccari ma su persona diversa”. La tardiva confessione non dissipò mai i dubbi al riguardo.

Quel che certo è che l’ingegnere era molto legato a Valerio Morucci. Ed è questi il protagonista di un altro episodio raccontato da Casimirri agli agenti del Sisde. Un giorno Morucci si recò nel negozio di “Camillo”, a Roma, nella zona di Monteverde, dove il brigatista possedeva un nascondiglio nel retrobottega. Secondo quanto riferito ai tempi da Casimirri, il compagno giudicò l’idea “interessante” e, effettivamente, nel primo processo Moro, sulla base delle testimonianze dei pentiti Patrizio Peci e Antonio Savasta, si parlò molto della possibilità che Moro potesse essere stato nascosto per diverso tempo nel retrobottega di un negozio della stessa zona.

Valerio Morucci è poi l’anello di congiunzione tra Casimirri e il pm di Milano Massimo Meroni, uno degli inquirenti che maggiormente si interessò all’omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto nel ’72. Un ex brigatista, Raimondo Etro, aveva infatti raccontato ai magistrati alcune confidenze ricevute da Casimirri durante il periodo del sequestro Moro: tra queste, quella che prevedeva che Morucci fosse stato coinvolto nell’assassinio del commissario.

Per questo motivo, Meroni decise di voler interrogare la fonte principale, Casimirri. Richiese dunque le autorizzazioni per recarsi in Nicaragua e le ricevette. La sera prima della partenza, però, il colpo di scena: una telefonata dell’ambasciata italiana a Managua bloccò Meroni: “Non parta dottore, non se ne fa niente, sono state revocate tutte le autorizzazioni in seguito a un ricorso dell’interessato”. E la vicenda si chiuse così, senza creare neanche scalpore o clamore, come sarebbe stato naturale in circostanze normali.

Ad arrivare a Casimirri ci riprovò, successivamente, tra il 2005 e il 2006, Enrico Cataldi, l’allora direttore della divisione “terrorismo interno del Sisde”. Prendendo spunto da una trappola messa in atto dal Ros, precedentemente, per catturare l’ex moglie della primula rossa, Rita Algranati e il suo nuovo compagno Maurizio Falessi, aveva intenzione di riportare in Italia il superlatitante delle Br.

Nello specifico, Algranati e Falessi, stabilitisi in Algeria e individuati nel ’93, furono, nel 2004, indotti ad abbandonare il paese in cui si trovavano: una volta superato il confine, vennero arrestati e ricondotti in Italia.

Secondo Cataldi, dunque, si poteva escogitare una simile trappola per catturare Casimirri, bloccandolo in Costa Rica per poi estradarlo in Italia. Il piano, anche in questo caso, era ormai pronto: all’ultimo, però, gli alti vertici del Servizio interno ordinarono al generale che l’operazione non doveva essere compiuta: Cataldi doveva star fermo e occuparsi d’altro: Casimirri doveva restare in Nicaragua, lontano dall’Italia.
Soprattutto, lui, custode di segreti inconfessabili, non doveva parlare.

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