L’arresto di Valpreda, il ballerino anarchico

Scritto da: Andrea Tagliaferri
Fonte: http://luniversale.you-ng.it/2015/01/09/larresto-valpreda-ballerino-anarchico/

18Arrestato il 15 dicembre 1969 come esecutore della strage di Piazza Fontana, Pietro Valpreda sarà scarcerato solo nel 1972 grazie alla cosiddetta Legge Valpreda che cancella l’obbligatorietà di detenzione per gli imputati di strage.Solo tredici anni dopo (1 agosto 1985) sarà definitivamente prosciolto da ogni accusa con sentenza definitiva in Cassazione. La storia del ballerino anarchico (dovette abbandonare il ballo a causa del morbo di Buerger che gli colpisce le gambe e lo porta alla morte il 6 luglio 2002) è emblematica per capire cosa avvenne in quegli anni bui dello Stato italiano, perché l’inchiesta sugli anarchici portò alla morte di Giuseppe Pinelli e l’incarcerazione di un innocente e soprattutto all’assenza di veri colpevoli e, addirittura, all’addebito delle spese processuali alle famiglie delle vittime del 12 dicembre.

Per ricostruire la vicenda di Valpreda è giusto procedere con ordine partendo con la testimonianza che lo incastrò a suo tempo, ovvero quella del tassista Cornelio Rolandi, unico testimone che vide, a suo dire, l’attentatore. Nei giorni in cui veniva arrestato l’anarchico, il tassista milanese, confidava ad un suo passeggero (tale Liliano Paolucci) di aver «trasportato l’uomo che ha fatto saltare la Banca dell’Agricoltura» e, chiamato a riconoscere il passeggero, indicherà agli inquirenti lo stesso Valpreda.

E’ questa la fase cruciale della persecuzione che subirà negli anni a venire l’anarchico e, al tempo stesso, è la fase più discussa dell’intera vicenda. L’importante testimonianza di Rolandi risulta infatti incerta e lo stesso testimone la revisionerà più volte negli anni. Per certo si sa che egli accompagnò un uomo nei pressi della Banca pochi attimi prima della strage. Insospettito dalla coincidenza temporale additò tale passeggero come l’attentatore, fatto che non ha mai trovato un riscontro effettivo da parte degli inquirenti. In secondo luogo anche il percorso compiuto dal taxi lascia sospetti sull’attendibilità del racconto, dato che nei vari interrogatori sarà modificato più volte, come descritto accuratamente nel 2006 dal giornalista Saverio Ferrari su L’Unità, nell’articolo Le stragi di Stato: «Raccontò di aver caricato a bordo della sua Seicento multipla, in piazza Beccaria, alle 16 circa del 12 dicembre, poco prima della strage, un passeggero che gli chiese di essere accompagnato in Piazza Fontana, distante solo pochissimi metri. Che il cliente scese, entrò in banca con una pesante borsa nera per uscire a mani vuote 40-50 secondi dopo, facendosi infine portare in via Alberici. Paolucci avvisò immediatamente la polizia fornendo il numero del taxi.

Subito dopo, Rolandi comparve davanti al nucleo investigativo dei Carabinieri. La versione sottoscritta nel verbale fu leggermente diversa da quella riferita a Paolucci. Il tragitto descritto non fu più lo stesso. Raccontò di essersi fermato, come richiestogli, in via Santa Tecla. Che il cliente scese frettolosamente sbattendo la porta e svoltò per via San Clemente. Lo vide ritornare dopo 3-4 minuti. In questo racconto la sosta davanti la banca non c’era più, l’uomo non fu più visto entrare, e anche il tempo d’attesa risultò dilatato […]. Per compiere 135 metri, la distanza tra piazza Beccaria e l’ingresso della Banca Nazionale dell’Agricoltura, il presunto attentatore sarebbe salito su un’auto pubblica, facendo di tutto per essere visto e ricordato, compiendo poi a piedi 234 metri, da via Santa Tecla alla banca e ritorno. Oltretutto il prezzo della corsa, 600 lire, non risultò corrispondente al tragitto e alla sosta dichiarati, ma, date le tariffe dell’epoca, a 14 minuti di sosta o a un percorso di 2 chilometri e 800 metri».

Anche guardando le procedure di riconoscimento sono sorti dei forti dubbi sull’attendibilità dell’accusa. Innanzitutto la scelta dei quattro sospettati posti, assieme a Pietro Valpreda, è quanto meno discutibile; è lo stesso Valpreda a ricordare l’episodio al quotidiano Repubblica il 3 settembre 2000. A Giovanni Maria Bellu ricorda, rileggendo un diario scritto in quei giorni, come percepì con chiarezza cosa gli stava per succedere, come tutta la situazione era stata costruita a puntino per trovare immediatamente (era il 16 dicembre!) il Mostro. Nella stanza del riconoscimento c’erano lui, sveglio da 48 ore e con l’ultima nottata passata davanti gli uffici della squadra politica, e altri quattro agenti in borghese perfettamente lindi e sbarbati, vestiti con camicia stirata e cravatta e pettinati come si deve. Dall’altra parte della stanza c’era invece l’accusatore, quel Rolandi del quale Valpreda ricorda che probabilmente «aveva veramente accompagnato qualcuno che l’aveva insospettito. Lo descrisse, e non mi somigliava per niente. Faceva pensare più all’idea che Rolandi poteva avere del terrorista altoatesino. Allora andavano di moda. Poi gli mostrarono una mia foto e gli dissero che ero quello da riconoscere».

E così infatti avvenne, o almeno, in parte avvenne perché anche il riconoscimento non fu certo. Rolandi non era sicuro al cento per cento d’aver trasportato Valpreda e lo disse apertamente agli investigatori. I testimoni dell’epoca accertano che la conferma del riconoscimento non avvenne anzi, Rolandi affermò precisamente, indicando Valpreda appunto, «Se non è lui, qui non c’è…». tale affermazione, che i poliziotti vollero leggere come conferma, non venne mai messa a verbale nonostante le proteste dell’avvocato di Valpreda, Guido Calvi, perché ritenuta superflua. A leggere bene le parole del tassista, però, si capisce come egli fosse privo della certezza assoluta e che anzi, tra i sospettati non trovava il proprio passeggero. Per anni questo episodio è rimasto coperto, taciuto, facendo sì che Valpreda vivesse un inferno fatto di menzogne e di colpe attribuitegli ingiustamente solo per il fatto di essere un esponente di un movimento fortemente antagonista e anti-sistema. Fu «un innocente accusato ingiustamente», come lo definisce Francesco Barilli nel suo graphic-novel Piazza Fontana, e per colpa di alcuni errori fatali, e di un volere superiore, dovette restare in carcere per 3 anni e sobbarcarsi dell’ignobile titolo di stragista fino alla metà degli anni ’80 quando, come già detto, fu scagionato definitivamente.

Questa vicenda rivela la falsità della pista anarchica orchestrata ad hoc per trovare un capro espiatorio che non destabilizzasse troppo lo scenario politico del tempo. A 46 anni di distanza, e senza un colpevole appurato, è il caso di dire che chi sapeva ha taciuto e chi organizzò ed eseguì il massacro di Piazza Fontana (17 morti e 88 feriti!) è rimasto impunito, anche se riconosciuto colpevole nel 2005 ma non condannabile perché definitivamente assolto in precedenza, coperto da una sorta di cortina fumogena che ha depistato le indagini perseguendo persone innocenti. Tutta questa serie di messinscene riconferma, appunto, quanto il piano elaborato nel ’65 all’Hotel Parco dei Principi di Roma fu attuato a partire dal 1969 quando si cominciò a colpire la popolazione inerme per far ricadere la responsabilità sui movimenti di estrema sinistra che, acquistando sempre più consenso, rischiavano di destabilizzare l’operato dei Governi italiani.

Non si è mai trovato un mandante, ma la verità storica differisce da quella giuridica e nel dibattito storico hanno più voce gli studiosi e gli intellettuali rispetto alle sentenze; come diceva Pasolini sul Corriere della Sera il 14 novembre del 1974: «Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. […] Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. [..] Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974».

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