Sicilia 1943, l’ ordine di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani»

Scritto da: Gianluca Di Feo
Fonte: http://www.disinformazione.it/generalepatton.htm

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I massacri dimenticati compiuti dai fanti americani tra il 12 e il 14 luglio.
«Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole partecipare all’esecuzione?”.
Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani». «Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò tutti». E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema «Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché – come risulta dagli atti di quei processi – i soldati americani si difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. «Ci era stato detto – dichiararono – che il generale non voleva prigionieri».

I fatti
Nessuno conosce il numero esatto di uomini dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di
due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno 43 la corte marziale Usa celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti del tribunale recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi». Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi della New York University – il cui padre fu testimone oculare dell’eccidio – riportano il racconto di alcuni dei soldati americani presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21 colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole».

L’ordine
Ma gli atti dei processi per «i fatti di Biscari» accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»: reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono al processo: «Ci era stato detto che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale. “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!».

L’orrore
Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi crivellati dal sergente West: «E’ una follia – gli dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo». King corre a cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: «Quando mi sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: “Padre, sei venuto per seppellirli?”. “Cosa stai dicendo?”, replicai io. Il caporale rispose: “Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri”». A quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: «Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!». Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: «Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero: “Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli”. Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare”».

La condanna
Fu proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto all’ispettore dell’armata – figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: «Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole». I fanti italiani – poco meno di 50 – erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress: «Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò di avere assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi, cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il suo avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West disse ai giudici: «Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani – con cui era stato appena concluso l’armistizio – e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il vertice dell’esercito teme
che la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleato
di Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine agosto in Bretagna. Secondo
altre, ha concluso la guerra indenne.

L’assoluzione 
Invece il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E una mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti «borghesi» che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde tempo: dice di ucciderli. Molti dei suoi si offrono volontari: sparano in 24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli italiani. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano «sniper», termine traducibile come «cecchini» o «franchi tiratori», e quindi andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton. «Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine di Patton – concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di un generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi basta. E io l’ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni – tra cui diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile «se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni riferirono anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo ci serve. Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: «Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia – scrisse – che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni storici americani – assolutamente non sospettabili di revisionismo – ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro di Biscari» e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.

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