E il Texas dei Bush dà una lezione ad Obama

Scritto da: Dario Mazzocchi
Fonte: http://www.linkiesta.it/

È uno Stato americano, crea occupazione in mezzo alla crisi, ha il più grande parco eolico al mondo e qui hanno sede la maggior parte delle migliori aziende Usa. Solo che non è la California ma il Texas. E questa non è una buona notizia per la Casa Bianca. Lo Stato che va meglio è infatti il più lontano dal “modello Obama”.

Texas contro California, ormai il mantra è collaudato e consolidato. Aveva cominciato l’Economist nel luglio 2009, con un’inchiesta sullo stato di salute dei due stati così diversi, due facce di una stessa medaglia: gli Stati Uniti di Barack Obama e della crisi finanziaria ed economica. La saga si è aggiornata mentre i Dallas Mavericks hanno portato a casa, per la prima volta nella loro storia, l’anello di campioni della Nba, il basket come siamo abituati a conoscerlo. Una formazione di seconde scelte, anziani con la voglia di vincere dei nuovi arrivati (Jason Kidd, 38 anni all’anagrafe e il corpo sempre tra l’attaccante e il proprio canestro) e un tedesco con la stoffa del campione, Dirk Nowitzky.
I Mavs (così sono chiamati) sono arrivati alla serie finale contro i Miami Heat dei Big Three (LeBron James, Dwayne Wabe e Chris Bosh) dopo aver asfaltato i Los Angeles Lakers nel secondo turno dei playoff. I Lakers, Los Angeles. La California: il sole e il mare della West Coast, con i clan liberal che vanno da Hollywood a San Francisco e le generazioni di intellettuali che crescono in atenei prestigiosi come Stanford e Berkeley, quartier generale del movimento studentesco e contestatore degli anni ’60 e ’70. Un paradiso in terra per la gauche europea e italiana, la Parigi d’Oltreoceano.

Pochi giorni prima che Dallas scendesse a Miami per chiudere i conti, il Wall Street Journal pubblicò un editoriale fatto di numeri: a partire dal giugno 2009, quando la recessione è finita, il Texas è cresciuto di 265.300 nuovi posti di lavoro, su un totale nazionale di 722.200, precedendo sul podio New York (inteso sempre come stato, con 98.200 nuovi posti di lavoro) e Pennsylvania (93.000). Sommando ciò che è stato fornito da tutti gli altri stati, si arriva a 266.000 posti. Il Texas è in forma, mentre in diciotto casi l’occupazione è scesa: tra questi c’è la California, con -11.400 posti.

Texas contro California vuol dire anche Texas contro Barack Obama. «L’essenza della “Obamanomics” è di rendere l’America meno come il Texas e più come la California: con più intervento statale, più i sindacati, più pianificazione centrale, tasse più alte», commentava infatti il Wsj dopo aver snocciolato le cifre, mentre a conti fatti l’economia texana nelle ultime due decadi è cresciuta in media del 3,3% all’anno contro il 2,6% del resto degli Stati Uniti. Lo scorso 20 giugno, tra l’altro, il governatore repubblicano Rick Perry (dato ormai come prossimo concorrente alle primarie dei Repubblicani) ha firmato una legge che libera il Texas dal provvedimento federale di messa al bando della lampadine incandescenti per rimpiazzarle con quelle ecologiche. «I consumatori possono fare scelte intelligenti da soli, senza che sia il governo a forzarle», ha dichiarato Nick Loris, analista energetico per conto della Heritage Foundation, centro di ricerca politica di spirito conservatore.

Una lampadina che fa luce su visuali una l’opposta dell’altra. In Texas Obama non gode di grande popolarità e non solo perché stiamo parlando di una zona degli Stati Uniti ad alto tasso repubblicano. È una questione culturale: negli ultimi giorni i repubblicani hanno deciso di nascondere il più possibile il nome di George W. Bush dalla campagna elettorale perché l’ex presidente (ed ex governatore dello stato) nei suoi mandati si è dimostrato troppo incline al big government. Ora sulla cresta dell’onda c’è Ron Paul, rappresentante al Congresso per il 14° distretto del Texas, giudicato il padrino intellettuale dei nuovi Tea Party e ambasciatore dell’ideale libertario.

Per leggere la nuova realtà del Lone Star State, lo stato della stella solitaria che sventola nella bandiera, bisogna sfuggire agli stereotipi del cowboy che ha sostituito i cavalli con i pick-up, conservando però la pistola e la birra ghiacciata o del petroliere senza scrupoli alla J.R.
Il Texas per esempio nell’ultimo anno è diventato il più grande produttore di energia elettrica del Paese, trovando un’alternativa al petrolio nelle turbine eoliche. A Roscoe, nel deserto occidentale, sorge la più grande wind farm al mondo: la centrale costata un miliardo di dollari si stende sull’area di quattro contee, coprendo una superficie di 400 km quadrati e conta 627 turbine che producono 5.160 megawatt, soddisfacendo il fabbisogno di 250.00 case. Nel ’99 fu lo stesso Bush, in qualità di governatore, a obbligare le imprese elettriche a produrre nei successivi dieci anni duemila megawatt in più dalle rinnovabili, in cambio di sconti fiscali.

Meno stato, meno tasse, meglio si sta. In Texas non ci sono imposte né sui redditi d’impresa né sul capital gain, il guadagno in conto capitale. La spesa pubblica rappresenta il 17% del prodotto interno lordo. I posti di lavoro nel cosiddetto Stem (il settore che ingloba scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) sono saliti del 14%. Non è Cupertino, è il Texas, dove secondo la rivista Fortune hanno sede 64 delle cinquecento migliori compagnie, mentre in California sono 51 e a New York 56. Non è prevista contrattazione collettiva, i lavoratori iscritti al sindacato sono pari solo al 6%. La legislazione ha messo alle strette le politiche sociali e il welfare, mentre l’enorme spesa pubblica sta mandando definitivamente gambe all’aria la California e non solo.

Più uno sale di grado, più si fa dei nemici. Paul Krugman è l’economista ed editorialista liberal del New York Times. Ad inizio anno profetizzò una brusca virata nella gestione economica dei texani che avrebbero dovuto alzare le imposte per rimediare ad un buco di venti miliardi di dollari nel bilancio dei prossimi due anni. Non è andata così e Krugman ha rilanciato la polemica, puntando sul fatto che il Texas ha un elevato tasso di abbandono scolastico (si diploma solo il 61% degli studenti), il maggior numero di bambini senza assicurazione sanitaria e che si è classificato quinto nella classifica degli stati con più povertà infantile. La difesa ha comunque l’arringa pronta: in un momento di vacche magre, il Texas che taglia rappresenta un modo per sopravvivere fino al prossimo ciclo di vacche grasse (e in Texas di vacche se ne intendono).

E se sbaglia a non investire di più nell’istruzione, un domani è probabile che avrà le risorse per farlo, qualcun altro invece no. Dopo tutto aumenta il flusso migratorio interno verso il Sud. Non è un fenomeno nuovo, come hanno raccontato John Micklethwait e Adrian Wooldridge, i due giornalisti che nel 2004 pubblicarono The Right Nation / Why America is different, un utile manuale per capire la politica a stelle e strisce. I Bush, per esempio: la famiglia era originaria del New England e come tante altre, scese in Texas per affari, portandosi dietro le simpatie repubblicane ed entrando a stretto contatto con un ambiente agguerrito e senza fronzoli, creando le basi per il feudo del Grand Old Party.
La storia ha fatto il resto.

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