Delitto Matteotti, nuova pista: fece dossier su bische e petrolio

Fonte:http://www.storiainrete.com/6862/enigmi/delitto-matteotti-nuova-pista-attacco-fascismo-su-bische-e-petrolio/

L’ultimo scritto e pubblicato da Giacomo Matteotti in vita, si conclude con queste parole: ”Petroli, bische”: una specie di messaggio in bottiglia. Dal 10 giugno 1924, data dell’assassinio del deputato socialista, gli studi su questo delitto politico non si contano. In occasione dell’anniversario del delitto, ecco un nuovo volume, “Al casinò con Mussolini. Gioco d’azzardo, massoneria ed esoterismo intorno all’ombra di Matteotti”, scritto da Riccardo Mandelli, (Lindau edizioni), che sicuramente farà discutere.

di S.B. da Agenzia Radicale del 9 giugno 2012 

”Tutti abbiamo imparato che Matteotti fu ucciso per la sua coraggiosa denuncia dei brogli e delle violenze elettorali fasciste, e in parte è vero – spiega l’autore all’Adnkronos – da qualche anno però si è fatta strada un’altra ipotesi, molto più vicina a quelle avanzate dai giornali subito dopo il suo rapimento sul lungotevere Arnaldo da Brescia, il 10 giugno 1924”.

Il deputato socialista – è la tesi dell’autore – ”stava indagando sui ‘decreti sporchi’ appena emanati dal governo: ricerche petrolifere e liberalizzazione delle case da gioco. La stampa di opposizione era scatenata, e in qualche caso anche quella fascista si mostrava critica. Che quei provvedimenti fossero frutto di corruzione era più che un sospetto”.

Matteotti, spiega l’autore, docente di storia in un liceo di Imperia, ”aveva ricevuto notizie riservate durante un viaggio in Inghilterra e Francia, e stava preparando un esplosivo dossier di denuncia. Nel suo mirino c’era l’accordo con la Sinclair Oil; ma anche e soprattutto il decreto che avrebbe permesso di aprire casinò su tutto il territorio nazionale”.

”Io mi sono concentrato sul tema del gioco d’azzardo – sottolinea ancora Mandelli – sono stato favorito dal fatto di abitare vicino al suo santuario italiano, il casinò di Sanremo”. ”La certezza assoluta non l’avremo forse mai – premette l’autore – ma una ricostruzione attendibile, basata su un’ampia documentazione archivistica, fa credere che Matteotti avesse messo il dito in una piaga di complicità che andava da grossi industriali e finanzieri alla Corona, da emissari del ‘principato dannunziano’, fino a fascisti di grande e piccolo calibro, come quelli che furono incaricati di eliminarlo”.

Quanto c’entrava Mussolini in tutto questo? Per Mandelli il capo del fascismo sarebbe stato ”al centro di queste trame affaristiche. La leggenda dell’’illibatezza’ del Duce ne esce decisamente a pezzi. Le prove sono schiaccianti. Sopprimere Matteotti era una necessità per un arco di soggetti che si identificava, in sostanza, con il fronte interventista. Un gruppo di complici che aveva trascinato in guerra il paese provocando seicentomila lutti, una ‘banda’ in cui il socialista di Predappio, con le sue campagne giornalistiche, aveva trovato un posto d’onore. Anche se poi lui cercava di non farsi fagocitare -sottolinea l’autore- di correre davanti agli altri agitando qualche brandello di idealismo”.

In quegli anni il gioco d’azzardo era diffuso. ”I documenti dell’Archivio di Stato descrivono una situazione non meno drammatica di quella attuale: si può dire che tutte le province d’Italia erano infestate di bische clandestine, non prive del solito contorno di rovine familiari, suicidi, prostituzione, usura, falsi, droga, criminalità. A Roma la polizia ne aveva scoperta una perfino in casa un senatore novantenne. Il gioco era proibito per legge ma tollerato, anche perché il divieto veniva aggirato con il sistema di un circolo ‘privato’ che poi dava libero accesso a tutti”. E la tolleranza era ”un modo per arrotondare gli stipendi dei funzionari statali che avrebbero dovuto esercitare i controlli”.

Un omicidio che in qualche modo avrebbe visto interessate ”le forze che avevano portato al potere il capo del fascismo: la grande finanza e l’industria. Glielo chiedevano – è la tesi di Mandelli – i suoi affamati gregari, compresa la manovalanza squadristica che eseguì il delitto. Alcuni di questi uomini stavano per diventare tenutari delle nuove sale da gioco”.

Dietro l’affare c’era ”una vasta associazione attiva da anni e connessa a settori della massoneria. Il gioco d’azzardo era una componente di un progetto di sfruttamento internazionale del turismo che comprendeva trasporti ferroviari di lusso, grandi alberghi, terme, località climatiche e balneari, teatri. Una componente fondamentale, anche perché il denaro vi scorreva senza controlli. Durante la guerra – rimarca Mandelli – questo sistema era stato al centro di famosi casi di spionaggio. Quindi aveva finanziato il fascismo. Dopo la marcia su Roma poteva passare alla riscossione del credito. Già nei primi mesi di governo il duce era sul punto di accontentare i suoi sponsor, poi aveva fatto una marcia indietro. Solo temporanea però”.

Di quali capitali e di quali uomini si trattava? ”Di quello delle banche statunitensi, dei grandi gruppi industriali e petroliferi, gli unici che potevano coordinare affari di simile complessità. Bische e petrolio avevano un collegamento sotterraneo. In Italia i fili erano tirati da alcune lobby finanziarie. In forma nascosta e indiretta, s’intende. Sulla facciata c’erano impresari teatrali, prestanome, faccendieri. Ma a un certo punto – conclude l’autore – la porta segreta si spalanca. Allora vediamo. Non tutto, ma abbastanza per restare a bocca aperta”.

Dov’è la sorgente dell’acqua terrestre?

Scritto da: Nicola Nosegno
Fonte: http://www.media.inaf.it/2012/07/12/dove-la-sorgente-dellacqua-terrestre/

Da dove vengono le “chiare, fresche e dolci acque” che fanno del pianeta Terra quello che è, e che hanno permesso su di esso la comparsa della vita? Gli astronomi non ne sono affatto sicuri. Le principali ipotesi in campo sono due. L’acqua potrebbe esserci stata portata dalle comete, e provenire dai margini esterni del Sistema Solare dove la maggior parte di queste si sarebbero formate; oppure potrebbe essersi formata più vicino a noi, nelle parti più interne del sistema solare, e la “fonte” di quella presente sulla Terra sarebbero soprattutto gli asteroidi, o meglio i meteoriti che se ne distaccano e cadono sul nostro pianeta.

Uno studio pubblicato questa settimana su Science da Conel Alexander e colleghi della Carnegie Institution for Science propende decisamente per la prima ipotesi, quella degli asteroidi. Gli autori hanno analizzato campioni provenienti da 85 meteoriti appartenenti alla classe delle condriti carbonacee (rappresentano la maggior parte delle meteoriti che cadono sulla Terra). In particolare hanno studiato la percentuale di deuterio (un particolare isotopo dell’idrogeno) presente nei frammenti. La percentuale di deuterio nell’acqua su un corpo del sistema solare è considerata infatti un buon indicatore della distanza dal Sole a cui  si è formato. Più era distante, più alto è il contenuto di deuterio.

I ricercatori hanno quindi confrontato le concentrazioni misurate con quelle relative ad alcune comete (in questo caso, la concentrazione viene misurata attraverso la spettrografia, cioè l’analisi della luce riflessa dalle comete). Alexander e colleghi hanno così mostrato che le condriti carbonacee contengono una percentuale di deuterio molto più bassa rispetto alle comete. Le due popolazioni di oggetti si sarebbero quindi formate in punti diversi: gli asteroidi nella fascia tra le orbite di Giove e di Marte. Le comete molto più lontano. Una conclusione che sarebbe in contrasto con la teoria prevalente, per cui le une e le altre si sarebbero formate assieme, ben oltre le orbite di Giove, per poi avvicinarsi fino a portare il loro contenuto di ghiaccio sulla Terra. E a questo punto, proprio in base al contenuto di deuterio, la fonte più probabile di composti volatili (e quindi di acqua) sulla Terra sarebbero le condriti carbonacee.

Le conclusioni sono però ben lontane dal chiudere il dibattito, secondo Giovanni Valsecchi dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma (Iaps-Inaf). “Tutto si basa sulla misura del rapporto deuterio/idrogeno, che per le comete è molto difficile. Talmente difficile che abbiamo questo dato solo per 4 o 5 comete in tutto. Fare considerazioni statistiche sulla base di così pochi dati è molto rischioso, perché si rischia di scambiare un oggetto eccezionale per uno rappresentativo. Servirà ancora molto tempo prima di avere abbastanza dati per una statistica solida”. Quanto all’idea che l’acqua terrestre venga soprattutto dalle condriti carbonacee, Valsecchi ricorda che fu proposta già nel 2000 in un articolo di Alessandro Morbidelli (con lo stesso Valsecchi come coautore). “Da allora il quadro è molto cambiato, è un mosaico a cui mancano ancora molti tasselli e non si può dire che ci sia un’ipotesi prevalente. Il motivo per cui studi come questo, interessante ma che non aggiunge moltissimo, escono su Science è proprio che il campo è così aperto e incerto”.


 

La battaglia di Londra: Una battaglia da riscrivere

Scritto da: Angelo Paratico, Hong Kong.
Fonte: http://www.storiainrete.com/

Da antico e fedele lettore di “Storia in rete”, pur residente all’estero, vorrei segnalarvi un libro uscito di recente a Londra e a New York, “The many not the few”: E’ un altro mattone tolto tolto alla vulgata britannica.

L’autore, Richerd North, è un inglese che si tiene molto attaccato ai documneti  e non fa assolutamente polemica. Fa parlare le carte e basta.

Il punto è che la battaglia d’Inghilterra non è mai accaduta. I tedeschi non hanno mai pensato seriamente ad una invasione: volevano portare gli inglesi al tavolo della pace. La minaccia di invasione fu una trovata propagandistica di Churchill per portare alla guerra la sua classe di aristocratici.

Le cifre di abbattimenti da parte dei piloti inglesi erano spesso esagerate del triplo; in’oltre l’Air Force britannica perse molti piloti perchè non aveva,a differenza dei tedeschi, un’efficiente struttura per il recupero in mare. Vi furono almeno cinque tentativi di portare la Gran Bretagna al tavolo della pace.  Il libro analizza giorno per giorno ciò che diceva la propaganda e ciò che effettivamente  accadeva.

Alla fine Churchill indicò, con la sua famosa frase (“Mai nella storia così pochi fecero così tanto”), i piloti dei caccia. In realtà molti fecero la loro parte senza nulla pretendere.  Anche la storia che la Gran Bretagna tirava avanti da sola è tutta da rivedere.

In realtà, accanto agli inglesi, erano mobilitati 500 milioni di uomini: India, Canada, Australia, Sidafrica.

 

 

Santa torinese chiesa automobilistica Fiat

Scritto : Gianni Petrosillo
Fonte: http://www.conflittiestrategie.it/santa-torinese-chiesa-automobilistica-fiat

Santa torinese chiesa automobilistica Fiat, icona sbiadita dello scorso millennio che ha scoperto l’America con secoli di ritardo, infatuandosene perdutamente, ha annunciato di essere sovradimensionata rispetto al mercato europeo, pertanto sarà costretta a dismettere qualche Basilica di culto bullonico, forse chissà proprio in Basilicata.

Dire che lo avevamo detto è antipatico, ma effettivamente lo avevamo detto. Nonostante Melfi sia lo stabilimento più moderno ed efficiente del gruppo piemontese, ormai ai piedi di cristo oltreché a quelli di Obama, rischia di perdere la sfida con Mirafiori che rappresenta la Storia stessa della fabbrica fondata da Giovanni Agnelli nel 1899.

Gli illusi della mano invisibile autoregolatrice degli scambi e della concorrenza che non guarda in faccia a nessuno, ubbidendo soltanto alla legge economica del minimax (minimo sforzo, massimo risultato), vengono nuovamente smentiti.

Ragioni strategiche ed opportunità politiche, rispetto alla mera convenienza economica, determinano una decisione industriale per i 2/3  tanto che la sede del Nord sarà probabilmente preferita all’impianto lucano. E poco conta che in tutti questi anni la Fiat abbia usufruito di una cascata di sovvenzionamenti pubblici a fondo perduto, cioè denaro della collettività, per i suoi investimenti privati, soprattutto nel Sud Italia. Per questo abbiamo in odio la retorica paternalistica dei vertici aziendali e dei funzionari del capitale che quando s’attaccano alla mammella dello Stato ciucciano sempre per il bene del popolo al quale offrono opportunità di lavoro e prosperità, ma non appena la vacca istituzionale smette di erogare gratis si ricordano di essere innanzitutto capitalisti che devono anteporre le prerogative di una popolazione molto più ristretta, quella degli azionisti, all’armonia sociale.

Adesso che non conviene più offrire occupazione agli straccioni meridionali, visto che è lo stesso Stato ad abbandonarli al loro destino, si smobilita ogni cosa e si trasferiscono i macchinari altrove. Giusto? Giusto un corno perché Marchionne, come manager che pensa ai profitti ha tutto il diritto di scegliere dove produrre, cosa produrre e come farlo ma i cittadini, primi azionisti morali di questa neomultinazionale senza patria (anche questa è bella, perché non si era mai sentita prima), hanno il diritto di sapere con immediatezza le intenzioni del Gruppo, in maniera da affidare gli spazi ad altri imprenditori volenterosi o di cercare soluzioni per la riconversione della produzione. Innanzitutto, se davvero Marchionne può davvero fare a meno della mano pubblica italiana è unicamente perché ha ricevuto l’intero braccio statunitense.

Non esiste società multinazionale che possa affrontare solitariamente le insidie delle piazze estere; il rischio di vedere compromessi i propri crediti ed investimenti, soprattutto in aree instabili del globo, sarebbe altissimo e se non intervenisse lo Stato d’origine a proteggere i suoi interessi commerciali che passano dalle sue imprese pubbliche e private nessuno si avventurerebbe lungo le vie del mercato globale. L’Amministrazione Americana tutto ciò lo sa bene e quando qualche Ceo o consiglio d’amministrazione ubriacato dai suoi stessi convincimenti ideologici globalisti lo dimentica, mette immediatamente da parte le buone maniere, ricordando ai suoi strateghi industriali come stanno realmente le cose. Ecco cosa scriveva uno dei principali commentatori di affari internazionali del New York Times, Thomas Friedman, nonché consigliere legato ad ambienti politici Usa, qualche tempo fa:

La mano invisibile del mercato globale non opera mai senza il pugno invisibile. E il pugno invisibile che mantiene sicuro il mondo per il fiorire delle tecnologie della Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Marina degli Stati Uniti, Aviazione degli Stati Uniti, corpo dei Marines degli Stati Uniti (con l’aiuto, incidentalmente, delle istituzioni globali come le Nazioni Unite e il fondo monetario internazionale… per questo quando sento un manager che dice ‘non siamo una compagnia statunitense, siamo IBM-USA, o IBM-Canada, o IBM-Australia, o IBM-Cina’, gli dico ‘ah si? bene, allora la prossima volta che avete un problema in Cina chiamate Li Peng perché vi aiuti. E la prossima volta che il Congresso liquida una base militare in Asia – e voi dite che non vi riguarda, perché non vi interessa quello che fa Washington – chiamate la marina di Microsoft perché assicuri le rotte marittime dell’Asia. E la prossima volta che un congressista repubblicano principiante chiede di chiudere più ambasciate statunitensi, chiami America-On-Line quando perde il passaporto’ “.

Chiaro sig. Marchionne, che ci tratti tutti da minchioni provinciali? In secondo luogo, i muri della Sata sono stati eretti col denaro dei contribuenti ed è corretto che, nell’eventualità di dismissione o trasloco da parte del Lingotto, questi ritornino ai legittimi “muratori” pubblici i quali dovranno ingegnarsi per evitare un altro disastro sociale, ricadente in una grave fase di crisi sistemica globale. Se applicassimo questo principio di ripristino del capitale pubblico a tutte le 4 sedi della Fiat, al fantomatico management multinazionalista di Marchionne resterebbe in mano solo qualche chiave inglese e forse un pugno di fili elettrici.

In trent’anni, con l’elargizione di sussidi per 7,6 miliardi di euro (una parte di questi erogata durante l’era Marchionne), lo Stato italiano avrebbe potuto comprare la Fiat tre volte mettendosi in tasca qualche spicciolo come resto. Ad ogni modo, ora non avremmo a che fare con nessunissimo Cavaliere canadese del lavoro altrui (grazie ancora al nonno della patria Giorgio Napolitano che distribuisce onorificenze come caramelle), il quale viene pure a farci la morale economica e finanziaria. Non siamo esagitati “Fiomisti”, anzi i borbottatori sindacali ci stanno ampiamente sulle ruote di scorta, ma nemmeno ci lasciamo accecare dalle fumisterie di un Dirigente cosmopolita chiacchierone che quanto a parole di scappamento e rodomontate di sbiellamento supera di gran lunga l’ingrippamento dei vari leaders della Fiom. Perché, ad esempio, non si parla più del piano di rilancio della produzione Fabbrica-Italia? E dove sono i nuovi modelli promessi dall’Ad italo-canadese? Non ci sono perché questi progetti erano nuvole di fumo atte a coprire le manovre di Fiat intenta a trasferirsi definitivamente a Detroit, mantenendo in Italia gli Uffici “Promesse Smarrite” e quelli “Lamentale verso le Maestranze” che non si piegano abbastanza ai ritmi, ai bassi salari e ai regimi polizieschi normalmente in uso negli impianti del Gruppo. La letteratura è così vasta sul tema che quasi non fa più notizia, nonostante continuino a piovere pronunciamenti della magistratura sfavorevoli alla Società sui metodi vessatori e discriminatori in uso nei suoi complessi.

Dovrebbe ormai essere intelligibile, al colto e all’inclita, che la Fiat non ha assorbito Chrysler ma viceversa. Se la prima resta in Italia, quantunque minacci a giorni alterni di voler lasciare lo Stivale, è per ragioni strategiche e geopolitiche. Non andrà da nessuna parte perché gli statunitensi la vogliono tenere qui da noi, essendo detta azienda non un semplice centro di produzione industriale ma, principalmente, un intreccio di rapporti finanziari e politici sbilanciati verso Washington che se ne serve per costringerci a restare in settori di precedenti ondate tecnologiche (quindi non competitivi), oppure per creare scompiglio nelle relazioni industriali nostrane, producendo caos e scollamento sociale all’occorrenza. Ne tengano conto i sindacati e i decisori istituzionali quando si piegano ai ricatti di Marchionne; così facendo costoro alimentano il cavallo di Troia che ci tiene sotto scacco. Nessun compromesso soddisferà Marchionne il quale tenterà di spostare, con la minaccia dei posti di lavoro che si perdono, il limite del tollerabile fino all’inverosimile. Delle due l’una: o si sarà complici stupidi di questo piano antitaliano oppure traditori consapevoli.

Per rafforzare la memoria fate un sonnellino

Scritto da: Luca
Fonte: http://www.iovalgo.com/rafforzare-memoria-sonno-13087.html

I risultati di una nuova ricerca condotta dalla Northwestern University sono sicuramente interessanti anche per i tanti ragazzi che in questi giorni sono alle prese con lo studio e con gli esami. Da questo studio, è emerso infatti che il sonno può rafforzare la memoriae che, in particolare, per imparare meglio a suonare un brano musicale, conviene continuare ad ascoltare questo brano mentre si dorme.

Il professor Ken A. Paller, uno degli autori dello studio, ha spiegato: “I nostri risultati estendono le ricerche precedenti dimostrando che gli stimoli esterni durante il sonno possono influenzare una capacità complessa”. Utilizzando il metodo EEG per monitorare l’attività elettrica del cervello, i ricercatori hanno notato che i leggeri “spunti” musicali si presentavano durante la fase di sonno a onde lente, in precedenza collegata al rinforzo della memoria.
I partecipanti facevano meno errori quando suonavano la melodia che avevano sentito anche mentre dormivano. James Anthony, il principale autore dello studio, ha spiegato: “Abbiamo riscontrato anche che i segnali elettrofisiologici durante il sonno sono legati al grado di cui la memoria è migliorata. Questi segnali possono così misurare gli eventi del cervello che causano un miglioramento della memoria durante il sonno“.
Il professor Paul J. Reber, co-autore dello studio, ha detto che quest’ultima ricerca farà sicuramente tornare in mente l’antico mito per il quale si imparava una lingua straniera mentre si dormiva, ma la differenza principale è che, in questo caso, la memoria è rafforzata da ciò che si è già imparato. “Piuttosto che imparare qualcosa di nuovo durante il tuo sonno, stiamo parlando di migliorare un ricordo esistente riattivando le informazioni recentemente acquisite” ha aggiunto.
Gli studiosi, adesso, starebbero cercando di applicare i loro risultati ad altri tipi di apprendimento. Il professor Paller ha detto di sperare che la sua ricerca possa aiutarli a capire di più circa i meccanismi di base del cervello che avvengono durante il sonno per custodire l’accumulazione di memoria. Secondo Paller, comunque, questo studio può aprire la strada a studi futuri, basati sui processi di elaborazione della memoria nel sonno, per diversi tipi di capacità motorie, abitudini e disposizioni comportamentali.

 

Nel 2020 le batterie per auto elettriche con 800 chilometri di autonomia

Scritto da: Nicoletta
Fonte:  http://www.soloecologia.it/11072012/nel-2020-le-batterie-per-auto-elettriche-con-800-chilometri-di-autonomia/4152

Esistono molti problemi per la diffusione su larga scala delle auto elettriche: prima di tutto i prezzi. Ma è verosimile che col tempo queste cifre scenderanno, soprattutto se gli stati incentiveranno i produttori e gli acquirenti nella scelta di auto a basso impatto ambientale.

Ma poi esiste anche il problema delle batterie delle eco-auto. Per il momento le celle sono molto voluminose e pesanti e le loro prestazioni sono assai limitate. Difficile arrivare a un’autonomia superiore ai 200 chilometri e, oltretutto, con ricariche estremamente lente.

Tuttavia, fanno ben sperare i primi risultati della ricerca condotta in partnership da IBM e il MIT di Boston su prototipi di batterie al litio-aria. Il nome del progetto è “Battery 500”, dove il numero indica le 500 miglia (ovvero, 800 chilometri) di autonomia che si spera di raggiungere per queste auto tra una ricarica e l’altra. Questo tipo di celle non utilizza ossidi di metallo per l’elettrodo positivo, bensì il carbonio, che è più leggero e in grado di reagire con l’ossigeno dell’aria. Le difficoltà derivanti dall’alta instabilità della reazione innescata dalle due sostanze costituisce per il momento un problema, ma forse sarà risolta dall’introduzione dei reagenti in un solvente elettrolitico inerte. Se i risultati saranno confermati, il 2020 è una data verosimile per la commercializzazione di batterie di questo tipo.

Algeria, le vittime dimenticate della Hedia

Scritto da: Massimiliano Ferraro
Fonte: http://www.eilmensile.it/2012/07/11/algeria-le-vittime-dimenticate-della-hedia/

Esattamente cinquant’anni fa, una nave mercantile con a bordo diciannove marinai italiani scomparve nel nulla nel Canale di Sicilia. «Mare in tempesta forza 8», riferì l’ultimo messaggio inviato via radio. Poi il silenzio. Un silenzio assordante che circonda tutt’oggi la verità sul mistero della nave Hedia, dispersa a largo delle coste del Nord Africa il 14 marzo 1962.

Benché la furia del Mediterraneo ispiri da sempre spaventose leggende che tormentano le notti dei marinai, il presunto naufragio della Hedia venne seguito da illazioni e voci contraddittorie che ipotizzarono il siluramento del bastimento da parte della marina militare francese. Un tragico errore, evidenziato qualche mese dopo da una foto che ritraeva alcuni dei marinai italiani imprigionati in Algeria. Riconosciuti «senza possibilità di equivoci» dai familiari, cercati e mai ritrovati. Forse finiti loro malgrado nelle trame di un intrigo internazionale con sullo sfondo la guerra franco-algerina. A distanza di cinquant’anni è giusto provare a sollevare il velo d’oblio steso troppo frettolosamente sulla sorte toccata a quegli uomini, ripercorrendo la storia dimenticata di quello che Gianni Roghi definì sull’Europeo il «più incredibile giallo marinaro di questo secolo».

Un viaggio tranquillo – Per la nave da carico Hedia, 4300 tonnellate di stazza, bandiera liberiana, doveva essere l’ultimo viaggio. Da Ravenna fino in Spagna e ritorno con uno scalo intermedio a Casablanca. Poi basta, la società armatrice, la Compagnia Naviera General S.A. di Panama, aveva intenzione di farla rottamare. Quarantasette anni in mare erano troppi persino per una robusta barca di fabbricazione svedese, appena revisionata e apparentemente in buone condizioni.

La mattina del 16 febbraio 1962, sotto il cielo grigio della costa romagnola, la Hedia prese il largo con a bordo venti persone: diciannove italiani e un gallese. La cronaca di quei giorni trasmessa puntualmente via radio dal comandante Federico Agostinelli di Fano alla moglie, fece pensare ad un viaggio tranquillo, senza problemi, almeno fino al 5 marzo, quando la nave scaricò come da programma alcune tonnellate di concimi chimici a Burriana, ripartendo successivamente vuota verso il Marocco. Il 10 marzo a Casablanca, i marinai italiani caricarono quattromila tonnellate di fosfati attesi a Venezia e ripartirono per l’ultima volta, incuranti della burrasca che infuriava in quelle ore nel Canale di Sicilia.

Proprio per questo motivo il comandante fece telegrafare all’armatore l’intenzione di non passare per lo Stretto di Messina, ma di seguire invece la rotta che porta a sud della Sicilia. La Hedia passò sicuramente Gibilterra, costeggiò la costa algerina, e poi svanì all’improvviso in prossimità dell’isola tunisina di La Galite il 14 marzo. Nessuna richiesta d’aiuto, nessun apparente segno del naufragio. Anche la radio della signora Agostinelli non ricevette più alcun messaggio dal marito dopo quella data.

Segnali che trovarono un riscontro preoccupante una settimana più tardi, al mancato arrivo della nave in acque italiane. Subito si pensò al peggio, ad un naufragio dovuto al condizioni proibitive del mare. Onde alte cinque metri agitavano ancora il Canale di Sicilia, quando iniziarono le ricerche congiunte delle unità della Marina Italiana con il supporto di una nave militare statunitense. Tentativi imponenti in un tratto di mare tanto piccolo e trafficato, al punto che qualcuno, forse, temette che la Hedia venisse ritrovata per davvero.

Così si spiegherebbe lo strano depistaggio che nove giorni dopo la scomparsa del mercantile portò su una falsa pista proprio mentre si stavano svolgendo le perlustrazioni. «Il Centro radio di Malta, ieri 22 marzo alle ore 19.34» riportò il quotidiano La Stampa «ha intercettato un messaggio a tutti i mezzi naviganti, lanciato dal comando di porto di Tunisi, con il quale si informavano le unità in navigazione che il giorno 21 marzo, alle ore 10.14 il piroscafo Hedia aveva notificato la sua posizione e si trovava in difficoltà a ridosso dell’isola La Galite». Ma era tutto falso. La stessa radio Tunisi messa alle strette dal consolato italiano, prima confermò a parole di aver inviato il dispaccio e poi lo smentì ufficialmente tre giorni dopo. Di dare altre spiegazione nemmeno a parlarne, fine delle trasmissioni.

Il giallo del siluramento – Cosa accadde alla Hedia? Come mai il suo equipaggio, conscio di un’imminente tragedia dovuta a qualsivoglia motivo, non trovò il tempo per lanciare un mayday? Quale evento improvviso e inaspettato li colse di sorpresa? Dodici giorni dopo la scomparsa, sul destino della nave cominciò a pesare l’ombra sinistra del mistero.

Finalmente il 26 marzo tre pescherecci di Lampedusa comunicarono di essere in possesso da ben sette giorni di alcuni rottami appartenenti al mercantile disperso: due salvagenti con la scritta “Hedia-Monrovia”, una cintura di salvataggio con la scritta “Milly-Monrovia” (Milly era nome originario della Hedia n.d.a.), e due tavoloni di boccaporto con macchie di nafta e olio. Basta. Troppo poco per avere la certezza che il cargo sia colato a picco. Tuttavia la mancanza di notizie fece lentamente venir meno la speranza dei familiari dei marinai di riabbracciare i propri cari.

Chi si rifiutò di arrendersi ad una evidenza suggerita da molti, non certo indiscutibile, fu Romeo Cesca, padre di Claudio Cesca, marconista diciannovenne della Hedia, che per venire a capo della scomparsa del figlio si mise a tempestare di telegrammi la presidenza della Repubblica, i ministri e la Rai. Fino a quando i1 27 marzo il signor Cesca ricevette una telefonata dal ministero della Marina Mercantile. «Mi dicono che la nave sta lentamente risalendo l’Adriatico» raccontò all’Europeo, «matto di gioia, dopo dieci giorni, corro a Venezia e tutto il 28 e il 29 li passo sul molo. Arrivano navi e navi, e a ogni prua che si affaccia io muoio di speranza. La Hedia non arriva. Ritelefono il 30 al ministero. Mi avvertono che si sono sbagliati, che smentiscono e tanti saluti».

La delusione per l’incredibile errore non scoraggiò però Romeo Cesca, che subito dopo decise di inviare un suo cugino in missione in Tunisia con il compito di battere palmo a palmo l’arcipelago de La Galite in cerca di informazioni sulla nave. Il tentativo si rivelò inutile anche a causa della riluttanza delle autorità tunisine a fornire informazioni. In ultimo il cugino si rivolse direttamente al comandante della base strategica di Biserta, il quale gli suggerì di stendere una relazione da inviare a Parigi. Ma per quale motivo il governo francese avrebbe dovuto essere al corrente della fine della nave liberiana?

Più fortunata sembrò essere l’iniziativa della fidanzata del marconista Cesca, la quale facendo appello alla Croce Rossa riuscì a far interessare al caso il quotidiano tunisino La Presse. Bastò un articolo relegato nelle pagine interne del giornale per suscitare la veemente reazione di protesta del ministero della Guerra francese. «Stupore di chi segue la faccenda», annotò Roghi sull’Europeo, «che c’entra il ministero della Guerra francese? Perché le autorità tunisine e francesi sono tanto suscettibili ogni volta che si parla della Hedia?».

La risposta a queste domande non giunse mai ufficialmente, ma a cinquant’anni di distanza possiamo fare alcune considerazioni. La prima riguarda il falso messaggio di SOS da Tunisi che costrinse i mezzi di ricerca a convergere su La Galite, probabilmente per coprire altre operazioni in atto appena quindici miglia a nord-est, dove sembra accertata la presenza della portaerei francese La Fayette. Meno chiara è invece l’origine delle «luci misteriose sul mare», rosse e bianche che, secondo la Stampa Sera, vennero scorte in quella stessa zona la notte del 23 marzo dai comandanti di due navi in transito, la Malmee (inglese) e la South River (panamense). Potrebbe sembrare che qualcun altro, oltre agli italiani, cercasse la Hedia o ciò che ne rimase. In questo contesto è da far risalire l’origine delle voci che vollero la nave vittima di un siluramento.

Forse a causa della tempesta il capitano Agostinelli e i suoi uomini si trovarono fuori rotta, nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Forse, il mercantile liberiano venne scambiato per uno dei bastimenti carichi di armi che rifornivano da sette anni e mezzo gli indipendentisti algerini del Front de Libération Nationale (FLN). Forse delle armi la Hedia le trasportava davvero. Chi lo dice? Voci. Si bisbigliò senza uno straccio di prova della presenza nella stiva di casse sospette imbarcate in Spagna o in Marocco. Un’eventualità che «non si può escludere», scrisse il nostro Ministero degli Esteri in un esposto ufficiale. Come dire, meglio pensare che i nostri fossero criminali che vittime di un’ingiustizia della quale chiedere conto.

Quel che è certo è che proprio in quei giorni di marzo del 1962 la cruenta guerra franco-algerina viveva ore cruciali. Mentre il 14 marzo la Hedia si trasformava in una nave fantasma, Algeri e Parigi erano pronte al tanto atteso cessate il fuoco deciso dall’accordo di Evian e infine decretato tra tensioni e reciproche diffidenze il giorno 19. Una sospirata tregua dopo i massacri, il terrorismo e il napalm, alla quale non avrebbe certo giovato la notizia di una nave affondata per sbaglio dal grilletto ancora caldo dei francesi.

La polveriera algerina – Vennero mesi d’attesa in Italia e mesi di sangue in Algeria. Nei novanta giorni successivi al cessate il fuoco l’OAS (l’Organisation armée secrète), contraria alla decolonizzazione, tentò in tutti i modi di interrompere la tregua con il FLN.

Nel solo mese di marzo del 1962 scoppiarono nella colonia francese una media di 120 bombe al giorno. Inutili massacri, l’OAS si arrese il 17 giugno e il 3 luglio il presidente De Gaulle proclamò l’indipendenza dell’Algeria. Ma invece di un periodo di serenità, la partenza dei francesi aprì la strada ad un tremendo periodo di anarchia. Settimane in cui il paese africano parve sull’orlo di un’altra guerra, questa volta interna, tra certi militari e l’ufficio politico provvisorio, accusato di sostenere «traditori e neocolonialisti». Nella gravissima situazione per l’ordine pubblico si moltiplicarono i rapimenti dei pochi europei rimasti. Centinaia di persone vennero rinchiuse in campi di prigionia per civili, mentre Algeri e il suo porto vennero trasformati in proprietà privata di un pugno di ufficiali.

Nel bel mezzo di questo marasma e nonostante fossero trascorsi sei mesi, Romeo Cesca, descritto dalle cronache dell’epoca come «un uomo sereno e obiettivo, di poche parole, non facile alle suggestioni», continuò a nutrire buone speranze di poter rivedere suo figlio. La fiducia sembrò premiata quando un amico, ufficiale di marina, gli fece sapere in via confidenziale che l’equipaggio era salvo. Ma dove? Nella polveriera algerina? Il militare si rifiutò di aggiungere altri dettagli sul luogo trincerandosi dietro la ragion di stato e a «gravi motivi di sicurezza».

«Senza possibilità di equivoci» – Il 14 settembre il Gazzettino di Venezia riferì dei gravi disordini avvenuti in Algeria pubblicando una telefoto d’agenzia scattata da un reporter inglese: «Algeri, il gruppo di prigionieri europei rilasciati dagli algerini attende nei giardini del Consolato francese che si concludano le formalità burocratiche». Fu allora che per uno scherzo del destino la signora Maria Balboni riconobbe tra gli uomini ritratti proprio il marito Ferdinando, cuoco della Hedia. Tra i familiari dei dispersi la notizia della fortunosa coincidenza corse in un baleno per l’Italia, da Chioggia a Sciacca. Così anche la madre del secondo ufficiale Dell’Andrea trovò suo figlio nella foto, e lo stesso accade ai congiunti del fuochista Onofrio, del marinaio di coperta Grafeo e del marconista Cesca. Tutti firmarono il riconoscimento davanti ad un notaio «senza possibilità di equivoci».

Quali avventure condussero i marittimi nelle carceri algerine non è chiaro, ma è possibile che i pochi sopravvissuti al naufragio siano in qualche modo riusciti ad arrivare a riva finendo poi nelle mani dei miliziani indipendentisti.

Improvvisamente la nebbia fitta che attanagliava il destino dei venti marittimi sembrò dissiparsi, ma l’ottimismo e la speranza per la felice conclusione del caso durarono pochissimo. Da Parigi l’agenzia proprietaria della telefoto fece sapere che lo scatto risaliva al 2 di settembre. Dunque perché nessuno di loro riuscì mai a mettersi in contatto con l’Italia dopo la liberazione?

Si scoprì ben presto che il consolato francese di Algeri in cui venne scattata la fotografia fu attaccato quello stesso giorno dai clan delle fazioni belligeranti, e che dei prigionieri presenti in quel momento nell’edificio non si seppe più nulla. Che ne fu di quei superstiti allo sbando nella capitale messa a ferro e fuoco nelle tragiche giornate di guerra civile? Furono giustiziati o caddero incidentalmente, mentre le colonne di camion e cannoni del futuro presidente Ben Bella accerchiavano Algeri?

Ma in questa vicenda contorta i misteri continuarono anche quando ne sembrò prossima la parola fine. Lo testimonia l’avventura di Vitaliano Pesante, giovane giornalista veneziano, che in accordo con la compagnia assicuratrice della nave e con le famiglie dei marinai partì per l’Algeria, ormai pacificata, determinato a venire a capo di una verità nascosta da un clima ostile. Per tutto il suo soggiorno in Nord Africa il ragazzo venne pedinato e perquisito, ma nonostante ciò riuscì a rintracciare un certo Jean Solert, che figurava come primo uomo a sinistra nella fotografia degli ex prigionieri. Costui negò fermamente che nel consolato ci fossero degli italiani e come prova gli suggerì quella che sostenne essere la vera identità del presunto marinaio Grafeo, tale Pierre Cocco, barista di Algeri. Peccato che non lo si poté mai contattare direttamente, perché fuggito a Marsiglia senza lasciare un indirizzo.

Rintracciati da Pesante, alcuni conoscenti di Cocco lo riconobbero comunque senza esitazioni nella telefoto comparsa sul Gazzettino, la medesima che «senza possibilità di equivoci» suscitò speranze nei cari dell’italiano Grafeo. Come se non bastasse si trovò anche chi sostenne che l’ipotetico cuoco Balboni rispondesse in realtà al nome di Joseph Agnello Cefariello, ex detenuto partito per Tolone. Anch’egli irreperibile.

In Italia l’esito della spedizione di Pesante venne accolto con rabbiosa incredulità dai parenti dei marinai. Il coro di risposta ai giornali fu unanime: «pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?». Non si seppe più cosa pensare. Dopo qualche tempo la Liberia chiese ai Lloyd’s la cancellazione della Hedia dal registro navale, l’assicurazione pagò 110 milioni di lire all’armatore, la Cassa marittima versò quattrocentomila lire di assegno funerario per ogni marinaio e il Regno Unito fece sapere di considerare presumibilmente morto l’unico straniero dell’equipaggio, Anton Nerusberg di Cardiff. Infine anche L’Europeo si arrese: «Penso che questa non è un’inchiesta», scrisse sconsolato Gianni Roghi, «che roba può essere? Una storia senza senso».

L’ora della verità – Nell’ultimo atto parlamentare riguardante la Hedia di cui si ha notizia, datato 14 aprile 1965, l’allora ministro della Marina Mercantile Spagnolli concluse così la sua risposta ad una interrogazione: «Benché le probabilità di far luce sulla scomparsa della nave sembrino ormai divenute oltremodo esigue, non si mancherà di svolgere ogni ulteriore indagine qualora dovessero emergere nuovi concreti elementi».

Sono ormai passati dieci lustri e certe risposte, seppur tra evidenti e comprensibili difficoltà, bisognerebbe andarsele a cercare. Pretenderle, per amore di giustizia.

Presidente Monti, ministro Terzi, voi che potete, chiedete ufficialmente alle autorità francesi notizie sulla fine dei nostri diciannove connazionali imbarcati sulla Hedia. Se fanno finta di non sapere insistete, ditegli di cercare bene. È molto probabile che a Parigi sia conservato da qualche parte un fascicolo impolverato che racconta la storia di una nave, colpita e affondata per sbaglio nel Mediterraneo, diciott’anni prima del DC-9 di Ustica.

Pericoli in internet. Altri due pedofili catturati, mentre cacciavano i bambini.

Scritto da: Massimiliano Frassi
Fonte: http://www.massimilianofrassi.it/blog/

Pericolo chat. Amici? No, pedofili.

Notizie così sono oramai all’ordine del giorno. Purtroppo i giovani non hanno la percezione del pericolo “internet” e continuano a chattare o accettare amicizie nei social network, da parte di sconosciuti che amici appunto non lo sono.
Vicenza. Due casi solo la scorsa settimana. Smascherati dal lavoro della Polizia Postale.
La prima segnalazione emerge nel modo più classico (sapeste quante volte ci è accaduto): lezione degli agenti a scuola e un ragazzino che alza la mano dicendo “pure io ho avuto un incontro in internet con un adulto,come quello che state descrivendo voi”.
Indagini. E scoperta: Il bimbo è stato adescato. L’amico virtuale si presenta come allenatore di calcio. Parla per giorni col bimbo di tutti i suoi interesse. Poi cerca l’incontro. Il bimbo va all’appuntamento ma 3 compagne di scuola lo vedono lì da solo si fermano con lui e la cosa disturba il pedofilo. Che una volta identificato (è un 41enne che vive nell’hinterland di Milano con mamma e papà) si scoprirà essere stato in carcere per abusi sui minori ed avere nel computer materiale pedopornografico (in parte cancellato ma recuperato dai tecnici specializzati della Polizia!!!!).
Altro caso. Un ragazzino di 14 anni chiede di dormire fuori casa, da un’amica. I genitori si rifiutano e lui ha una reazione “esagerata”. Quando dorme la mamma gli guarda nel cellulare e trova messaggi del tipo “sei il mio amore….sono il tuo orsacchiotto…se il mio tesoro….”.
Altri messaggi sono più espliciti: e parlano di rapporti sessuali. Scatta l’indagine. Il profilo di Facebook del predatore viene monitorato e si trovano tantissimi contatti con altri uomini ma soprattutto con ragazzini.
Quando il predatore chiede un incontro con la vittima la Procura dà il via. Scatta la perquisizione dell’abitazione del pedofilo. E ritrova una sorpresa: l’uomo è un trentenne che vive sul Garda (lato veronese del lago) e benché la casa sia molto bella e signorile l’adescatore vive come un barbone, in mezzo allo sporco più assoluto. Per ora altro non sappiamo, se non che si sta periziando il suo computer.

Il Leone di San Marco

Fonte: http://www.veneziasi.it/it/curiosita-venezia/leone-san-marco.html

Il Leone alato, rappresentazione simbolica dell’evangelista Marco, è il simbolo della città di Venezia e della sua antica Repubblica. Al giorno d’oggi lo si ritrova nei simboli del Comune e della Provincia di Venezia, nonché della Regione Veneto. Lo si può trovare anche nella bandiera navale della Repubblica Italiana e come simbolo del premio della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica: il Leone d’Oro.

Il leone alato è solitamente accompagnato da un’aureola, una spada e un libro sotto la zampa anteriore destra sulla quale è presente il motto: “Pax tibi Marce, evangelista meus” (Pace a te, Marco, mio evangelista). La frase completa comprenderebbe anche le parole «Hic requiescet corpus tuum» ovvero “qui riposerà il tuo corpo” che, secondo un’antichissima tradizione, un angelo in forma di leone alato avrebbe rivolto al Santo, naufrago nelle lagune, per preannunciargli che un giorno in quelle terre il suo corpo avrebbe trovato riposo e venerazione. Infatti la salma di San Marco fu portata a Venezia da due mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, dopo averla trafugata ad Alessandria d’Egitto.

La rappresentazione di San Marco in forma di leone alato ha un suo significato nell’iconografia cristiana: il leone simboleggia la forza della parola dell’Evangelista, le ali l’elevazione spirituale, mentre l’aureola è il simbolo cristiano della santità.
Moltissime sono le sue differenti raffigurazioni che possiamo ritrovare negli emblemi ufficiali:

  • il leone “rampante”: di profilo, ritto sulle zampe posteriori;
  • il leone “in moeca”: di fronte, seduto, con le ali spiegate a ventaglio, assumendo un aspetto simile a quello di un granchio (in veneziano moeca è il nome dei piccoli granchi in periodo di muta). Questa è la raffigurazione più famosa in quanto è quella che meglio rappresenta lo spirito marinaro della città di Venezia.
  • in soldo” o “in gazzetta”: seduto con le ali spiegate a ventaglio e nimbato;
  • vessillifero”: leone rampante che sorregge un vessillo
  •  “passante”: di profilo con la zampa anteriore destra appoggiata sopra al libro. Esistono numerose interpretazioni simboliche delle combinazioni di questi elementi: il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato, il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata e quindi delle pubbliche magistrature, il libro aperto e la spada a terra è ritenuto popolarmente simbolo della condizione di pace per la Serenissima mentre il libro chiuso e la spada impugnata è invece popolarmente ritenuto simbolo della condizione di guerra, infine il libro aperto e la spada impugnata sarebbe simbolo della pubblica giustizia.

Quando poi, verso il Quattrocento, Venezia iniziò ad interessarsi dei territori della terraferma, si incominciò a raffigurare il leone solo con le zampe posteriori in acqua, mentre quelle anteriori stavano sulla terra.
Durante i periodi di dominazione straniera, invece, il leone veniva rappresentato sovrastato dai simboli della nazione dominante: l’aquila napoleonica o l’aquila bicipite imperiale austriaca.

Non si hanno notizie certe circa la data di adozione del leone come simbolo della Repubblica: alcuni studiosi ipotizzano che la figura risalga al XII secolo e che sia stato Jacopo da Varazze ad indurre la Serenissima ad adottarlo come simbolo di stato, altri invece affermano che la sua comparsa sia più tarda, verso la metà del XIV secolo.

E’ comunque un dato di fatto che il leone, simbolo di maestà e potenza, è sempre stata una figura che ha affascinato i veneziani. Oltre alle innumerevoli rappresentazioni scultoree che possiamo trovare in giro per la città o alle raffigurazioni in stemmi, bandiere o dipinti, a Venezia si potevano trovare anche leoni veri nei giardini dei palazzi. Addirittura nel 1316 una leonessa partorì nel cortile del Palazzo Ducale con grande sorpresa di tutta la popolazione!

Il Garda come Lochness, il mostro Bennie tra leggende e cronache

Scritto da: Armando Bellelli
Fonte: http://www.ilcorrieredelgarda.info/2012/07/il-garda-come-lochness-il-mostro-bennie-tra-leggende-e-cronache/

Era il 17 agosto del 1965 quando decine di turisti e passanti in prossimità della Baia delle Sirene a Garda assistettero ad un fatto straordinario: di fronte agli occhi terrorizzati dei presenti, una gigantesca creatura acquatica, descritta come un serpente di colore marrone, lungo oltre 10 metri e provvisto di gobbe, affiorò e nuotò a lungo a pochi metri dalla riva.

Lo stesso animale viene poi avvistato nei giorni seguenti in più località, sia sulla sponda veronese che su quella bresciana. Contemporaneamente, le reti di molti pescatori vennero trovate dilaniate da un enorme predatore che divorò svariati quintali delle povere sardelle che lì erano intrappolate.

La notizia creò un’enorme scalpore e girò su molti quotidiani per diverse settimane, poi a poco a poco, i giornali smisero di parlarne. Ma non smetterono gli abitanti del lago, che da sempre vociferano dell’esistenza di “qualcosa” che abita le grotte subacquee negli abissi più profondi del lago, là sotto, dove la luce non riesce ad arrivare.

Lo storico Grattarolo ne parlava ancora nel ’500 nella sua “Historia della Riviera Benacense”. Alcuni studiosi dell’epoca provarono ad entrare nelle caverne che si aprono sotto l’isola Borghese, ma riaffiorarono immediatamente, dopo aver visto creature mostruose e smisurate che lì avevano posto la propria tana. Esseri che erano ben conosciuti dai frati dell’antico convento che lì un tempo sorgeva, che li temevano a tal punto da non osar di avvicinarsi più all’acqua. Un altro storico, il Coronelli, tre secoli più tardi scriveva di oscure e misteriose voragini che inghiottivano i malcapitati che vi passavano sopra.

Gli avvistamenti,più o meno eclatanti,continuarono e continuano tuttora: racconti di pescatori e dicerie di paese, che parlano di ombre smisurate sotto la superficie, pinne mostruose, anatre, cigni e addirittura cani spariti di colpo mentre nuotavano, trascinati sotto da “qualcosa”. Il lago di Garda, dà sempre dispensatore di prosperità per le genti rivierasche,a volte mostra quindi delle tinte fosche.

Ma davvero le sue profondità possono celare la presenza di animali di grandi dimensioni?Sicuramente esistono grandi lucci tra i canneti che possono raggiungere il metro e mezzo di lunghezza. Ancora lontani dalle dimensioni dei presunti mostri… Pesci siluro e storioni, anch’essi presenti nelle acque lacustri, possono tranquillamente superare i 3 metri di lunghezza. Voraci, ma innocui per l’uomo. Pochi anni fa il quotidiano “Bresciaoggi” diede notizia dell’avvistamento di un esemplare di siluro di oltre 5 metri a 25 metri di profondità da parte di due sub professionisti, a largo di Gargnano, sulla sponda bresciana.

Nel 2007 l’ennesimo avvistamento ,da parte di un pescatore, di fronte a Villa Canossa, a Garda… e negli scorsi anni in un casolare diroccato vennero ritrovati gli arnesi di un presunto “cacciatore di mostri” giunto nella zona. Il fatto ha ispirato un docufilm. E le voci continuano.

Quale sia la verità riguardo ai misteriosi abitatori delle profondità lacustri forse non la sapremo mai… E come il suo lontano e altrettanto innafferabbile cugino scozzese di Loch Ness, la nostra Bennie (da Benaco, altro nome del Garda) continuerà a nuotare indisturbata, affiorando di tanto in tanto, tra le brume mattutine del lago.