Le responsabilità di Albert Kesselring nel massacro delle Fosse Ardeatine

Scritto da: Angelo Paratico
Fonte: http://lanostrastoria.corriere.it/

Dostler1-500x632Ecco qualcosa di nuovo che non conoscevo sul cinismo e le responsabilità di Albert Kesselring sia riguardo alla strage delle Fosse Ardeatine sia nella condanna a morte del suio collega, il generale Anton Dostler. Angelo Paratico ha letto un libro di Richard Reiber, “Anatomy of perjury” che spiega perché Ksselring riuscì con una bugia a farla franca sulle Fosse Ardeatine e si defilò anche da altre responsabilità.
Di seguito la bella recensione di Paratico.

Fra circa un mese cadrà il settantesimo anniversario della strage nazista delle Fosse Ardeatine, del 24 Marzo 1944. In Italia questo tragico episodio è un campo di scontro fra opposte ideologie, un campo dove i fatti e, dunque, la verità spariscono. Credo sia giunto il momento di superare questo muro e comincerò con il farlo io, uno scrittore di destra.
Nell’esprimere succintamente le mie opinioni mi baserò su opere contemporanee tedesche e americane, dove ci si può aspettare un grado di obiettività superiore a quelle italiane.
I fatti nella loro crudezza sono noti. Il 23 marzo 1944, alle ore 15 e 45, una bomba piazzata da un partigiano appartenente ai Gap, Rosario Bentivegna, affiancato da altri compagni, esplose, investendo una colonna di militari tedeschi che rientravano da un’esercitazione. Questi appartenevano alla XI compagnia di polizia “Bozen” acquartierata alla caserma Macao, nel Castro Pretorio. La loro età media era di 35 anni, molti fra di loro avevano in precedenza militato nell’esercito italiano. Il giorno dopo 32 poliziotti erano morti, cinque o sei erano in gravissime condizioni, e anche due civili italiani morirono a causa delle ferite. Il giorno dopo, 24 marzo 1944, alle 20 e 30, la strage di 335 civili era stata compiuta dalle SD guidate da Herbert Kappler. Alcune unità dell’esercito tedesco, fra cui i commilitoni dei caduti, avevano rifiutato di sparare sui civili italiani.
La sequenza temporale riportata qui sopra dimostra chiaramente che non fu possibile, né pensabile, stampare e appendere manifesti con i quali si intimava ai responsabili dell’attentato di costituirsi, la segretezza e la rapidità della strage impedì ai partigiani e ai romani di venirne a conoscenza se non nei giorni successivi. Del resto nessuno può dubitare del fatto che se Bentivegna e i suoi compagni si fossero costituiti, questi sarebbero stati messi assieme ai 335 assassinati.
Quali che fossero gli intenti dei gappisti non credo esistano dubbi sul fatto che il loro fu un atto di guerra e non un atto terroristico. Immaginiamo che uno spitfire inglese si fosse abbassato sulla Città Eterna e scorgendo una colonna di soldati tedeschi in marcia, avesse aperto il fuoco, provocando lo stesso numero di morti. In tal caso staremmo ancora qui a discutere di un atto terroristico? Io credo di no. E che i partigiani avessero ricevuto un riconoscimento come co-belligeranti dagli Alleati e dal governo monarchico italiano è altrettanto fuori discussione. Dunque quell’esplosione va riconosciuta come un legittimo atto bellico.
Ci si chiede ancora se la feroce reazione nazista, di dieci italiani per ogni tedesco ucciso, fosse in qualche modo giustificata dalle convenzioni internazionali. Eppure la Convenzione dell’Aja del 1907 non prevedeva l’applicazione di una tale norma in tali circostanze e seguendo la procedura adottata, questa fu l’opinione accettata e condivisa anche da vari generali della Wehrmacht, come Frido von Senger und Etterlin e il capo delle SS in Italia, il generale Karl Wolff.
I militari messi alla sbarra, primo fra tutti Albert Kesselring, giustificarono la loro decisione scaricando tutta la responsabilità su di un primo Führerbefehl (un ordine diretto di Hitler al quale non si poteva disubbidire) nel quale si ordinava appunto la morte di 10 civili per ogni militare tedesco e di un secondo Führerbefehl con il quale si stabiliva che l’esecuzione del massacro doveva ricadere sulle SD, il servizio di sicurezza nazista. Di questi ordini di Hitler non si è mai trovata traccia, né pare che siano mai stati effettivamente impartiti. Il colonnello Beelitz, di stanza al Monte Soratte, presso al quartier generale germanico, testimoniò di aver parlato al telefono con un ufficiale di collegamento del generale Jodl, a Berlino, il quale gli disse: “Il Führer è furioso. Per ogni poliziotto tedesco ucciso devono essere fucilati trenta o cinquanta italiani!”
Successivamente ci fu una nuova telefonata, sempre secondo Beelitz, nella quale si disse che Hitler chiedeva la morte di dieci ostaggi italiani per ogni soldato tedesco e di nuovo che l’esecuzione era affidata alla SD aggiungendo che voleva un rapporto per la sera del giorno successivo. Hitler, dunque, non aveva dato istruzioni dirette, lasciando la mano libera ai suoi generali, ma voleva un rapporto per la sera del giorno successivo. È possibile pensare che le sue istruzioni si potevano negoziare, che il numero dei “fucilandi” poteva essere ridotto, non solo ma che si poteva ritardarne l’esecuzione. Conosciamo esempi di ufficiali tedeschi che contraddissero, o che oppure ostacolavano degli ordini di repressione sui civili, senza andare incontro alla fucilazione o alla corte marziale. Invece Kappler, assistito da Priebke, partì a tutta velocità uccidendo addirittura un numero maggiore di civili rispetto a quanto necessario. Cosa accadde, dunque?
La mia personale opinione, supportata da quando pubblicato da Richard Reiber nel suo “Anatomy of Perjury”, Newark 2008, è che la Wehrmacht con Albert Kesselring scaricò il problema sulla SD, nella persona di Kappler, convincendolo che esisteva un preciso Führerbefehl affinché chiudessero il caso. Forse Kappler e Priebke vollero esagerare in brutalità per confermare la loro lealtà alla causa nazista. Tutto ciò accadde proprio perché mancò l’uomo chiave, mancò il regista, ovvero Albert Kesselring, occupato altrove. Nelle sue auto-celebrative memorie “Soldat bis zum letzen Tag” e durante le fasi del processo per la strage delle Fosse Ardeatine, Kesserling sostenne sempre di non aver potuto intercedere per mitigare l’ordine di Hitler perché rientrato tardi da un’ispezione in prima linea a Cassino, un fatto sempre supportato da tutti gli ufficiali del suo stato maggiore.
In realtà non fu così e la loro menzogna, perché di questo si trattò, servì a non far finire Kesselring davanti a un plotone d’esecuzione. Quel plotone d’esecuzione davanti al quale finì il generale Anton Dostler a causa dell’uccisione di 15 soldati americani, per la gran parte di origine italiana, che facevano parte di un commando di guastatori in uniforme. Furono catturati il 24 marzo 1944 vicino a La Spezia e fucilati il 26 marzo nei pressi di Lerici.
Quella operazione era stata denominata Ginny e la loro missione era di far saltare una galleria ferroviaria. Esisteva anche qui un Führerbefehl segreto che stabiliva che tutti i commando nemici andavano fucilati, anche se vestivano l’uniforme e i gradi, non dovevano essere internati in campi di prigionia. Ma tale ordine era noto a pochi generali, uno fra questi era certamente Albert Kesserling, che godeva della piena fiducia di Adolf Hitler.
Due settimane dopo l’esecuzione dei 15 americani arrivò un ordine nel quale si stabiliva che tutta la documentazione relativa a quel caso andava distrutta, fu così che a guerra finita, non riuscendo a rintracciare documenti e certi testimoni chiave per la difesa, il generale Dostler pagò con la propria vita un ordine ricevuto, per interposta persona, impartito da Kesselring. Il processo a Dostler si tenne a Roma dall’8 al 12 ottobre 1945 e il suo interprete fu un giovane Albert O. Hirschman (1915 – 2012) destinato poi a diventare uno dei maggiori economisti americani contemporanei. Lui e Anton Dostler vennero invitati ad alzarsi per la lettura della sentenza e Hirschman, sbiancando in viso, tradusse la condanna di morte a un impettito Dostler, che indossava ancora l’uniforme da generale tedesco.
La presenza di Kesselring in Liguria e non al fronte di Cassino è stata dimostrata dal ritrovamento del libro di volo del suo pilota personale, Manfred Bäumler, nel quale si dimostra senza ombra di dubbio che Kesselring nel suo quartier generale di Monte Soratte giunse solo il 26 marzo 1944. Questo fu tardivamente confermato dal Dietrich Beelitz, l’ultimo sopravvissuto di quella banda di depistatori, nel 1997. Kesselring stava certamente in Liguria il 24 marzo 1944. Questa sua assenza spiega anche certi suoi buchi di memoria per quanto riguarda le Fosse Ardeatine; per esempio in una deposizione da lui resa il 25 settembre 1946 egli mostra di ignorare che delle esecuzioni s’era occupata la SD!
Risulta dunque evidente che Albert Kesselring s’assunse la responsabilità di quanto accaduto alle Fosse Ardeatine perché aveva calcolato di potersela cavare, mentre se fosse risultato responsabile per l’ordine di fucilazione del commando Ginny sarebbe stato sicuramente messo davanti al plotone d’esecuzione che, ad Aversa, il 1° dicembre 1945 uccise il generale Anton Dostler.
Kesselring durante la sua prigionia a Londra – nella famosa “Gabbia” diretta dal colonnello Alexander Scotland – e poi in Italia, durante il processo, conquistò tutti con il suo comportamento da generale-gentiluomo, con la sua cortesia e la sua supposta lealtà che avevano affascinato anche Hitler. In realtà egli restò un cinico nazista anche dopo la guerra. Fu un freddo espietato calcolatore capace di far fucilare quegli ufficiali tedeschi che il 26 aprile 1945 avevano cercato di prendere il controllo di Monaco e consegnare la città agli americani. Cercò di far lo stesso con i suoi camerati italiani, Westphal e Karl Wolff, che in Svizzera negoziarono la resa dell’esercito tedesco (trattative di cui lui stesso era stato messo al corrente). L’ordine di fucilarli fu ritirato solo il 30 aprile, dopo la morte di Adolf Hitler.

ALGERIA. ARRIVANO LE ELEZIONI PRESIDENZIALI. LE FF AA SE NE IMMISCHIANO E IL CLIMA SI SCALDA

Scritto da: Antonio De Martini
Fonte: http://corrieredellacollera.com/

Algeria_flagsMentre lo staff del Presidente Abdelaziz Bouteflika si sbraccia a cercare di dimostrare che può presentarsi nuovamente candidato  alle imminenti elezioni ad onta di due ictus nel corso dell’anno, per la prima volta le Forze Armate algerine parlano, non con una sola voce, ma con due: Il capo di S M Ahmed Gaid Salah ed il capo dell’intelligence Mohammed Mediane, nome in codice Toufik.

L’intervento di Toufik nel dibattito pre elettorale ha innervosito il segretario dell’ex  partito unico Amar Saadani che lo ha pubblicamente redarguito.

Il problema è il solito: il capo dell’intelligence non può essere un pari grado anche se di minor anzianità. Deve essere un colonnello brillante, ma con la carriera bloccata da un infortunio avvenuto o temuto, di modo che si sappia che non può progredire in carriera ma che possa dedicarsi al suo compito anima e corpo.

Questa dicotomia sembra aver aumentato le probabilità della prima donna candidato alla presidenza : Luisa Hannoune che -a seguito della richiesta di udienza al capo di SM fatta lo scorso dsettembre – si è vista ricevere nei giorni scorsi a dimostrazione della equidistanza  del generale  che però nel contempo è anche vice ministro della Difesa nel governo attuale.

Salah settantaquattrenne, è considerato l’uomo chiave per la rielezione presidenziale e  gode del potere di mandare a riposo qualsiasi ufficiale lui ritenga.

E’ per questo che la fronda nelle FFAA è rappresentata dall’ex comandante della terza regione militare  Hocine Benhadid, ormai in pensione.

I cinesi non vogliono pagare l’immobilismo italiano

Fonte: http://www.linkiesta.it/cina-italia-investimenti-ostacoli

cina-lamborghiniServono riforme vere. Se vogliamo i soldi di Pechino ostacoli come burocrazia e lobby devono sparire.Di recente sono apparsi articoli sulla stampa italiana (uno su Il Sole 24 Ore e uno su la Repubblica) che quasi celebrano gli investimenti esteri in Italia, specie quelli provenienti dalla Cina. Purtroppo la materia è complessa e spesso affrontata con superficialità, senza contare i molteplici fattori che allontanano gli investitori stranieri. Per vedere come è la vera situazione si devono fare confronti su come stanno le realmente le cose in Europa. Nonostante i tanto auspicati segnali di ripresa tardino ad arrivare, nonostante le continue turbolenze, nonostante tutto, gli investimenti diretti esteri (IDE) nel 2012 hanno superato i numeri registrati l’anno precedente raggiungendo globalmente i 1.500 miliardi dollari[2]. Certo, siamo ancora lontani dal picco toccato nel 2007 (-23%) ma la diversa percezione del mercato e l’ottica di diversificazione di alcuni player stanno giocando un ruolo importante nella quasi ritrovata fiducia degli investitori.

 

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La Cina si muove su questa linea e gli investitori percepiscono in questo momento la necessità di diversificare continuando a fare passi da gigante nel loro piano di investimenti esteri. I flussi di capitale in uscita si sono rafforzati per tutto il 2012 e nei primi nove mesi del 2013, segno dunque di una going out strategy ben definita e supportata dal governo cinese. I dati ufficiali forniti dal dicastero del commercio e da quello delle finanze mostrano come i flussi di investimenti verso l’estero hanno toccato la quota record di 87.8 miliardi di dollari[3] nel 2012 (+17%), permettendo così alla Cina di raggiungere per la prima volta il gradino più basso del podio nella speciale classifica annuale degli IDE.

 

Pechino ha fissato una serie di obiettivi ambiziosi al riguardo. Nel suo discorso di apertura al Summer Davos Forum di Dalian, il premier Li Keqiang ha confermato che è fermo interesse dell’esecutivo mantenere un tasso di crescita degli investimenti all’estero superiore al 15% fino a raggiungere il target prefissato di 150 miliardi di dollari annui[4] entro il 2015. Sono numeri che fanno riflettere ma se guardiamo ai valori stock, il volume ha sì superato la soglia dei 531 miliardi di dollari garantendo però alla Cina solo un modesto tredicesimo posto nel ranking mondiale, rappresentando solo un decimo della quota degli Stati Uniti e metà della posta del Giappone.

 

 

Ma a chi sono rivolte queste risorse? 

 

Le realtà cinesi investono in maniera massiccia in alcuni settori[6]: in primo luogo nell’energy (48%), poi nel siderurgico (23%), nella finanza (10%) e nel real estate (6%). Il destinatario principale di tali flussi di capitale resta Hong Kong con più di 30 miliardi di dollari[7], seguito a distanza dagli Stati Uniti (4.05 miliardi) con un rapido recupero rispetto ai numeri in flessione del 2011.

 

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Nonostante gli sforzi delle nostre autorità, nonostante il programma Destinazione Italia appena lanciato dal governo Letta, l’Italia è ancora una volta fuori dai radar degli investitori che contano. Alcune nazioni risultano inevitabilmente più attraenti di altre agli occhi dell’investitore cinese. Quando si tratta di decidere su cosa puntare, le aziende cinesi statali, così come i privati apprezzano la presenza di determinate caratteristiche nel paese target. Oltre ad indicatori diretti come il livello di reddito disponibile pro capite e il PIL, gli investitori TUTTI, in generale, optano spesso per mercati meno regolamentati, caratterizzati da un sistema giuridico solido ed affidabile, da una piena ed efficiente protezione dei diritti di proprietà, da bassi livelli di corruzione e di tassazione per le imprese o laddove sono presenti economie di agglomerazione (cluster) con disponibilità di capitale umano altamente qualificato, infrastrutture e specializzazione storica nel settore. Tutte ragioni a noi ben note.

 

I cinesi seguono anche altre logiche. Investono infatti in maniera cospicua in Africa, in Asia e Sud America, dove non sempre i sistemi legali o i governi sono così trasparenti e stabili, ma lo fanno perché alla ricerca non tanto di ritorni immediati quanto perché vogliono assicurassi materie prime e risorse naturali, senza dimenticarsi dell’esigenza di assicurare disponibilità alimentari per il futuro. I cinesi pianificano, pensano alle future generazioni e non c’è quindi da stupirsi se hanno iniettato una gran parte dei loro capitali nei paesi asiatici visto che da soli rappresentano oltre il 61% degli IDE [8] registrati dalla Cina nel 2011. Sarebbe del tutto riduttivo parlare di vicinanza geografica o collocazione strategica. Questi paesi godono di ridotti costi della manodopera, bassa pressione fiscale e profonde competenze nel petrolifero e nel minerario, settori su cui Pechino punta molto quando decide di varcare il confine.

 

Vediamo più da vicino l’Europa. Nel 2011 il flusso degli investimenti da Pechino in Europa ammontava a 15 miliardi di euro con una crescita del 156% yoy. Solo una piccola parte di questa fetta era diretta al nostro paese (460 milioni), per un modesto 3% del totale, mentre i capitali cinesi arrivati in Germania sono stati 1,2 miliardi (8%). Come riportato inoltre dalla Relazione Annuale 2012 della Banca d’Italia, gli investimenti diretti esteri in Italia, in generale, sono diminuiti del 49.4% (da 24,7 miliardi del 2011 a 12,5 del 2012)[9] risentendo in primis dell’incertezza del nostro paese sui mercati e mostrando solo lievi segnali di ripresa a fine anno. Nel complesso il saldo 2012 degli investimenti diretti ha registrato deflussi netti per 10,7 miliardi.

 

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Investimenti diretti nell’Unione europea dal 2000 al 2011

 

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È chiaro che il sistema Italia presenta molti più ostacoli per gli investitori stranieri, raggiungendo punteggi insufficienti nella quasi totalità dei criteri precedentemente citati. Il mercato del lavoro italiano è fermo, troppo regolamentato e con leggi che vincolano le aziende a piani insostenibili al momento. Non da meno, le imprese italiane sono soggette al più alto tasso di imposta nell’Unione Europea: i profitti possono essere soggetti a livelli di tassazione che raggiungono anche il 68%[10]. Pensando a Germania, Spagna e Regno Unito, d’altro canto, troviamo aliquote rispettivamente del 46.8%, 38.7% e 35.5%. Se a questo poi aggiungiamo il fatto che l’IRAP (applicandosi al reddito al lordo del costo del personale) costringe molte imprese a indebitarsi e a pagare imposte anche nel caso in cui registrano perdite, il quadro di certo non migliora nell’ottica dei potenziali investitori. Una cosa inconcepibile per chi è abituato a pagare tasse solo sugli utili.

Non aiuta la percezione del nostro paese nel mondo, cosa evidente mostrata dal “Ease of doing business”, classifica stilata ogni anno dalla Banca Mondiale. Uno degli ostacoli principali risiede quindi nella complessità della burocrazia italiana che comporta procedure infinite nello svolgimento di qualsiasi attività. L’inefficienza delle norme, le crescenti complessità nel rilascio dei nullaosta e dei visti per manager e dipendenti stranieri rendono il nostro sistema costoso e ancor più svantaggioso. Le lobbies italiane naturalmente sfruttano questa situazione per ritardare e porre il veto alla approvazione di progetti che sono in conflitto con i loro interessi. Lo stesso vale per il sistema giuridico: ci vogliono otto anni per concludere un contenzioso in Italia, ne occorrono solo tre in Francia e appena due in Spagna. Oltre a questi problemi di natura strutturale, gli investitori cinesi hanno più e più volte segnalato le difficoltà riscontrate nel tentativo di negoziare con le PMI italiane a causa della mancanza di allineamento degli interessi tra le parti e, cosa ancor più grave, una scarsa capacità di comunicare in inglese sul versante italiano. Questa lacuna potrebbe essere colmata da progetti ad ampio respiro gestiti in collaborazione tra i governi dei due paesi. A discapito poi dei piani di rilancio infrastrutturale tanto osannati dal Ministero delle Infrastrutture, nel nostro Paese manca una vera linea guida al riguardo. Per carità, ci sono stati spesso buoni propositi, riunioni intergovernative, tante buone intenzioni ma che poi si sono dissolte in fumo prima che venissero trasformate in pacchetti di interventi reali.

Secondo un’elaborazione dell’Osservatorio Autopromotec su dati Eurostat ed Istat[11], in Italia il 91% del trasporto merci avviene su gomma. Seguono nella graduatoria la Gran Bretagna (86,7%), la Francia (81%) e la Germania (67,0%) con numeri e peculiarità molto diverse dal nostro sistema. Il massiccio ricorso al trasporto su strada è determinato soprattutto dalla mancanza di un’adeguata rete interna di ferrovie e di vie d’acqua che risultano, invece, molto efficienti e ben sviluppate altrove (quanto sta accadendo contro la TAV in Val di Susa è sicuramente un fattore che non aiuta ad attrarre investimenti nelle infrastrutture. In Italia pochi possono danneggiare l’interesse dei molti, cosa inconcepibile qui da noi in Cina).

Ovviamente, anche la presenza della criminalità organizzata è stata riconosciuta come un forte disincentivo per gli IDE: le otto regioni meridionali attraggono solo l’1% degli investimenti esteri che giungono in Italia. Anche se il contesto politico ha espresso sempre più crescenti preoccupazioni al riguardo, osserviamo ancora la presenza di istituzioni pubbliche con un apparente mandato di agire sul tema, ma che si sono rivelate del tutto inefficaci e persino dannose. Una di queste è Invitalia che, sotto il controllo del Ministero dello Sviluppo Economico, avrebbe come obiettivo quello di attrarre investimenti stranieri nel tentativo di stimolare la competitività e la crescita del nostro Paese. La stessa agenzia è fortemente indebitata, non redditizia e accusata di essere più un luogo dove riciclare politici non eletti o dove far assumere persone vicine alla propria parte politica .

Se torniamo poi ai numeri e consideriamo le transazioni con una size superiore ai 100 milioni di euro, la situazione diventa ancora più complessa. Il database di The Heritage Foundation (in un’interessante elaborazione interattiva sugli investimenti esteri cinesi nel mondo) riporta, infatti, che su una torta di 688 miliardi di dollari [12] l’Italia raccoglie solo un misero 0,5%, con lo stock degli investimenti cinesi che nel nostro paese ammonta a 3.4 miliardi di dollari di cui tre quarti nell’area tecnologica e circa mezzo miliardo nel real estate.

Alla fine del 2012 le aziende cinesi davano lavoro a circa 1.500.000 persone fuori dai confini nazionali [13] ed il nostro paese è rappresentato appena da 5.500 dipendenti, un altrettanto scarso 0.037% della fetta. Quindi, ancora una volta, l’articolo de Il Sole 24 Ore lascia del tutto perplessi sull’enfasi usata quando cita i dati italiani: non mi sembra che il nostro peso sia così importante se guardiamo in Europa. Come riportato poi dalla banca dati Reprint del Politecnico di Milano, il fatturato delle aziende italiane controllate da Pechino è quasi triplicato passando dai 676 milioni di euro del 2005 ai 2,66 miliardi del 2012[14] ma il problema è a monte. Il dato citato deve far riflettere se compariamo il turnover delle aziende italiane controllate da Pechino nel 2011 con i 498,5 miliardi del monte ricavi 2011 di tutte le imprese a partecipazione estera in Italia: non si va oltre uno 0,38% del totale!

La strada da fare resta molta. C’è bisogno di un approccio più critico verso quello che siamo e che stiamo rappresentando, in modo da capire come e cosa cambiare. Senza guardare la realtà in faccia non potremo mai migliorare le condizioni per le generazioni future che al momento, dopo la formazione, preferiscono prendere un aereo piuttosto che stare a vegetare a casa in un paese che non offre opportunità. Fintanto i media e gli opinionisti non si rendono conto che non si fa un buon servizio a incensarci in una situazione che è invece disastrosa, verrà a mancare la spinta a decidere riforme strutturali per far sì che non solo i cinesi vengano a investire, ma tutto il mondo. È paradossale che persino aziende del Nord Africa e del Sud America guardano all’Europa come un possibile sbocco di investimento. Ma paesi come la Spagna risultano essere più attraenti di noi perché c’è chi sta facendo i “compiti a casa”, le riforme, per uscire dalla crisi e chi è, come noi, sempre in ricreazione, con la classe dirigente del nostro paese che non comprende che NON C’E’ più tempo per giocare, sia a destra che a sinistra!

Siamo sempre un mercato importante, per carità, l’Italia presenta tante opportunità ma esse restano languenti perché la politica non decide nulla da 30 anni. Sembriamo paralizzati e incapaci di pianificare il nostro futuro. Ci sono troppi freni in Italia che devono essere tolti. A partire dal modo di gestire le nostre aziende, troppo incentrate sulle famiglie, con poca managerialità e con una visione globale dei mercati distorta. I sindacati, dalla loro, stanno difendendo troppo chi il lavoro ce lo ha già, a scapito dei giovani e di chi si immette ora nel mercato del lavoro. Gli ambientalisti, poi, e i populisti che bloccano qualsiasi tentativo di modernizzare il paese. Non vi è quindi alcuna speranza di convincere gli investitori internazionali finché burocrazia, apparati pubblici, lobbies e interessi privati, ma anche degli stessi partiti che siedono in Parlamento, ostacoleranno tutte le riforme vitali per rendere il sistema Italia una piattaforma competitiva e attrattiva. Il Bel Paese, dunque, non è tale per chi vuole investire e, che dir se ne voglia, non lo diventerà in tempi ragionevoli a meno di massicce riforme da attuare presto. Questo non solo per facilitare gli investimenti esteri, ma anche per aiutare le imprese italiane stesse a competere, passando attraverso a cambi generazionali che diano più managerialità alle imprese per aprirsi di più a nuove idee ed iniziare ad aggregarsi con l’obiettivo di tornare a contare di più nel mondo.

 

Fonti

2 International Trade Centre

3 China’s Ministry of Commerce, National Bureau of Statistics and State Administration of Foreign Exchange (SAFE)

4Testo integrale

5 Xinhua, Big investments but small stock

6 BOC International Holdings Limited: 2013 China Mining Overseas Investments Trends conference

7-8 Xinhua, Big investments but small stock

9 Banca d’Italia, Relazione annuale 2012 e Relazione annuale 2013

10 Lavoce.info, L’Irap funesta che strozza le imprese

11 ANSA , Italia seconda in Europa per trasporto su gomma

12 The Heritage Foundation, China global investments map research

13-14 Banca dati Reprint – Politecnico di Milano

L’irrefrenabile impulso

Scritto da: Piero Cammerinesi
Fonte: http://www.liberopensare.com/

storyÈ un po’ di tempo che noto un incremento del numero delle persone colte dall’irrefrenabile impulso a rovistare tra i panni sporchi dei grandi uomini.

Sta diventando uno sport olimpionico.  

 

 

Particolarmente vivace è la ricerca degli errori scientifici e delle tracce di razzismo in Rudolf Steiner, per restare a un personaggio di riferimento per molti ricercatori dello spirito.

Ora, come ho avuto già modo di scrivere, la maggior parte degli uomini non riescono a vedere le cose in una prospettiva storica ma solo di cronaca; vedono il qui ed ora.

E oggi vi sono dei totem intoccabili che determinano i pensieri (e i sentimenti) della gente; non è possibile dubitarne, tanto meno parlarne o scriverne male, pena il venire etichettati nei modi più deteriori.

Fascismo e razzismo sono tra questi totem. 

Si tratta di concezioni che solo pochi decenni e – rispettivamente –  secoli fa erano condivise da milioni di persone e oggi sono state (giustamente) cancellate dalla storia, visto che l’umanità è progredita.

Anche la schiavitù era normale migliaia di anni fa e oggi (fortunatamente) è stata debellata. 

O solo trasformata in schiavitù economica, ma questa è un’altra storia.

Oggi il politically correct di matrice anglosassone sta letteralmente ‘spianando’ i pensieri del mondo; la globalizzazione del ‘pensiero unico’ prevede che si debba essere tutti animalisti, antifascisti, abortisti e pro-gay.

I totem del presente costituiscono lo Zeitgeist, lo ‘spirito del tempo’ di quest’epoca, indubitabili e ineludibili.

Ma anche essi cambieranno, saranno superati, come è avvenuto nel passato per altri totem.

È l’evoluzione, baby.

Ora io mi chiedo, riguardo a Rudolf Steiner: che senso ha cercare l’1% di errore o di pensieri non politically correct in migliaia di conferenze, centinaia di articoli, decine di libri, quando è evidente che questo essere era un gigante spirituale senza pari?

Un uomo che ha potuto parlare – e scrivere – a ragion veduta di arte, scienza, filosofia, medicina, educazione, agricoltura, spiritualità, socialità, fornendo gli stimoli e la direzione per ricerche che ancora oggi, a un secolo dalla sua scomparsa, fioriscono in tutto il mondo? 

Senza parlare della sua missione spirituale, s’intende.

Delle due l’una: o si ha fiducia nella persona e soprattutto nel metodo, che è quello di conseguire personalmente le capacità di giudicare, di sperimentare le verità che ci ha lasciato, oppure si lascia perdere e si passa ad altro.

Tertium non datur, altrimenti si è solo masochisti.

Rudolf Steiner ha rivelato – con decenni di anticipo – talmente tante verità scientifiche, poi confermate dalla scienza moderna, dall’identità di nervi sensori e nervi motori, al cuore che non è una pompa ma viene messo in movimento dal sangue, dal futuro dell’energia nucleare alle conseguenze dell’alimentazione animale per gli animali erbivori (mucca pazza), che potrei continuare per ore. 

E noi che facciamo? Ci impegniamo, con pervicacia degna di miglior causa, a cercare gli errori contenuti nella sua monumentale opera? Le cose che non si sono verificate? Le esternazioni che non vanno d’accordo con i totem di oggi, cent’anni dopo la sua morte?

Cosa vogliamo? La perfezione?

Il maestro DEVE essere perfetto?

Perché? Per farci dimenticare le NOSTRE imperfezioni?

“…ti prego, mio Dio, fa che almeno LUI sia perfetto…”

Per applicare anche ai maestri quello che facciamo con i nostri simili, che prima mettiamo sull’altare della nostra ammirazione per poi gettarli senza esitazioni nella polvere alla prima delusione?

Se proprio sentiamo l’irrefrenabile impulso a usare la macchina del fango, cerchiamo prima di tutto di capire perché

Già avremo fatto un bel passo avanti.

5 SEMPLICI E BUONE PRATICHE PER STARE BENE

Fonte: http://www.terraemadre.com/2014/01/10/5-semplici-e-buone-pratiche-per-stare-bene/

6be567fe646e611349ef3a14696eced8Con il nuovo anno si comincia con i buoni propositi. Cambiare per migliorare la vita sul nostro pianeta è importante, ma il cambiamento legato alle buone pratiche ecologiche deve cominciare da ognuno di noi, dallo stare bene con noi stessi e con il nostro corpo.

E allora: quali possono essere delle pratice semplici da fare tutti i giorni?

 

1. Camminare almeno 20 minuti al giorno. Nulla di nuovo sotto il sole: camminare all’aria aperta è sicuramente l’attività più a minor costo e a maggior beneficio, da praticare a qualsiasi età. Fa bene al cuore, aiuta a perdere peso, fa bene alle ossa e alle articolazioni. Camminare aumenta anche i dosaggi di endorfine e di serotonina cosicchè chi cammina è più allegro e di buon umore. Dulcis in fundo, è stato scoperto che camminare migliora le attività cognitive.

2. Spazzolare il corpo.  La pelle è il più grande organo di eliminazione che possediamo ed è anche la via più facile per arrivare al sistema endocrino. La frizione a secco con la spazzola si basa sugli stessi principi dell’agopuntura, stimolando le terminazioni nervose della pelle: frizionando con la spazzola questi punti di agopuntura, il sistema nervoso viene stimolato nel suo complesso portando giovamento ad organi, ghiandole, muscoli e tendini.

3. Bere acqua calda e limone la mattina a digiuno. Depura e dà tanta energia

4. Mangiare almeno 30 grammi di frutta a guscio al giorno. La frutta a guscio non solo fa benissimo per il suo valore nutritivo, ma è stato visto anche che mangiarne una certa quantità al giorno diminuisce le morti per cardiopatie e per cancro.

5. Meditare.  Noi non siamo fatti solo di corporeità. Per stare bene è importante avere la mente sgombra, ma allo stesso tempo consapevole. Qualunque cosa facciate con consapevolezza è anche meditazione. “Osservare il proprio respiro” è meditazione; “ascoltare gli uccelli” è meditazione. Solo quando questo approccio è prioritario, la meditazione diviene efficace. La meditazione non è quindi una tecnica, ma un modo di vivere, di essere.

Secondo il dossier Ecosistema rischio 2013 presentato oggi da Legambiente e Protezione Civile, «Sono ben 6.633 i comuni italiani in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico, l’82% del totale; oltre 6 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.109 comuni (l’82% fra i 1.354 analizzati nell’indagine) sono presenti abitazioni in aree a rischio e in 779 amministrazioni (il 58% del nostro campione) in tali zone sorgono impianti industriali». – See more at: http://www.greenreport.it/news/clima/in-italia-piu-di-6-milione-di-persone-a-rischio-frane-e-alluvioni/#sthash.nPDBuJrU.dpuf
Secondo il dossier Ecosistema rischio 2013 presentato oggi da Legambiente e Protezione Civile, «Sono ben 6.633 i comuni italiani in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico, l’82% del totale; oltre 6 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In ben 1.109 comuni (l’82% fra i 1.354 analizzati nell’indagine) sono presenti abitazioni in aree a rischio e in 779 amministrazioni (il 58% del n – See more at: http://www.greenreport.it/news/clima/in-italia-piu-di-6-milione-di-persone-a-rischio-frane-e-alluvioni/#sthash.nPDBuJrU.dpuf

SCANDALO OGM: LE MULTINAZIONALI VIETANO LA RICERCA INDIPENDENTE SUI LORO EFFETTI

Fonte: http://www.globalresearch.ca/gmo-scandal-the-long-term-effects-of-genetically-modified-food-on-humans/14570 Traduzione: Cristina Bassi per saluteolistica.blogspot.it

541031_457894070926310_373778688_nUno dei piu’ grandi misteri che stanno intorno alla diffusione delle piante OGM nel mondo, da quanto furono rilasciati i primi raccolti commerciali agli inizia degli anni ’90  in USA e Argentina, è stata l’assenza  di studi scientifici indipendenti  sui possibili effetti a lungo termine di una dieta a base di OGM su esseri umani o persino sui ratti da laboratorio. Ora la vera ragione è alla luce del sole. Le multinazionali dell’agribusiness come Monsanto, BASF, Pioneer, Syngenta ed altre proibiscono la ricerca indipendente. In un redazionale del Scientific American, dell’agosto 2009, viene rivelata la realtà shockante ed allarmante, dietro la proliferazione degli OGM nella catena alimentare del pianeta, dal 1994. Non ci sono, nel mondo,  studi scientifici indipendenti che siano stati pubblicati in una rivista scientifica qualificata e questo per una semplice ragione: è impossibile verificare in modo indipendente che i raccolti OGM come la soya della Monsanto Roundup Ready Soybeans o il mais  MON8110 GMO si comportino come afferma la multinazionale o che, come la multinazionale comunque afferma, non abbiano effetti collaterali dannosi. Questo perchè le multinazionali OGM proibiscono tali test! Come  condizione preliminare per comprare le sementi, sia per piantarle per i raccolti o per farci ricerca, la Monsanto e le multinazionali  del gene, chiedono prima di tutto di firmare un “accordo dell’utilizzatore finale” – End User Agreement – con l’azienda. Nello scorso decennio (l’articolo è del 2010 ndt), quando ha avuto luogo la grande proliferazione delle sementi OGM in agricoltura, la Monsanto, la Pioneer (DuPont) e la Syngenta hanno richiesto agli acquirenti delle loro sementi OGM, di firmare un accordo che esplicitamente proibisce che le sementi vengano usate per una ricerca indipendente. Agli scienziati è proibito testare un seme per indagare a quali condizioni fiorisce o perisce. Non possono paragonare nessuna caratteristica del seme OGM con altri semi NON OGM o OGM di altra azienda. Ancor piu’ allarmante, viene fatto loro divieto di esaminare se i raccolti geneticamente modificati conducano ad effetti collaterali non voluti,  sia nell’ambiente, che negli animali che negli umani. L’unica ricerca di cui si consente la pubblicazione in riviste scientificamente quotate  e in quelle di peer-review, riguarda quegli studi che sono stati PRIMA approvati dalla Monsanto e dalla altre industrie e aziende OGM. Tutto il processo con cui i semi OGM sono stati approvati  in USA, a cominciare dalla proclamazione dell’allora Presidente George H.W. Bush nel 1992, su richiesta della Monsanto, sul fatto che il governo non avrebbe condotto alcun test sulla sicurezza dei semi OGM poichè il Presidente li aveva giudicati sostanzialmente equivalenti a quelli NON OGM, è un enigma pieno di interessi di corruzione. Sono le muiltinazionali stesse, come la Monsanto, che forniscono al governo USA i test sulla sicureza e prestazione degli OGM . Non stupiamoci quindi che gli OGM risuonino “positivi”  e che la Monsanto ed altri possano falsamente affermare che gli OGM siano la “soluzione alla fame del mondo”  . (si veda per l’Italia, ad esempio… http://saluteolistica.blogspot.it/2013/04/ancora-su-emma-bonino-e-gli.html)

Agri-business - I Semi della Distruzione
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In USA un gruppo di 24 scienziati, di università di grido, specializzati in insetti da raccolto, hanno scritto al governo USA, precisamente  all’Ente per la Protezione Ambientale ( US Government Environmental Protection Agency- EPA-) richiedendo che quest’ultima costringa ad un cambiamento della censura nella pratica delle multinazionali. (ricordo articolo del 2010…ndt) E’ come se la Chevrolet o la Tata Motors o la Fiat cercassero di censurare articoli per i consumatori, su test comparativi anti urto, relativi alle loro macchine e questo  perchè non gradiscono i risultati dei test. Solo che qui si tratta della catena alimentare di esseri umani e animali. Gli scienziati con ragione hanno discusso con l’EPA sul fatto che la sicurezza sul cibo e la protezione dell’ambiente “dipendano dal fatto di rendere accessibili i prodotti vegetali ad un regolare scrutinio scientifico” ” Dovremmo pensarci 2 volte prima di mangiare i cereali  da colazione americani , se si tratta di grano (corn flakes)  OGM” .

Un focolare di 300.000 anni

Fonte: http://ilfattostorico.com/

weizmann-instituteLe tracce di un focolare pieno di cenere e ossa bruciate, rinvenute in una caverna nell’odierna Israele, suggeriscono che i primi esseri umani si sedevano intorno al fuoco almeno 300.000 anni fa, cioè prima della nascita dell’Homo sapiens.

Dentro e intorno al focolare, gli archeologi ritengono di aver trovato frammenti di utensili di pietra probabilmente usati per macellare e tagliare gli animali.

I ritrovamenti potrebbero gettare luce su quando “gli esseri umani cominciarono ad usare regolarmente il fuoco per cucinare carne e come punto focale – una sorta di fuoco da accampamento – per raduni sociali”, dice Ruth Shahack-Gross dell’Istituto Weizmann in Israele. “Ci spiega anche qualcosa riguardo i livelli di sviluppo sociale e cognitivo degli uomini dell’epoca”.

Il focolare misurava 2 metri di diametro, e i suoi strati di cenere indicano che venne utilizzato ripetutamente nel tempo, scrivono i ricercatori sulla rivista Journal of Archaeological Science. Shahack-Gross e i suoi colleghi pensano che venne utilizzato da grandi gruppi di uomini delle caverne. Inoltre, la sua posizione implica una qualche decisione su dove accendere il fuoco, e quindi un certo grado di intelligenza.

(Weizmann Institute)

(Weizmann Institute)

Una caverna controversa

La grotta di Qesem è stata scoperta più di un decennio fa durante la costruzione di una strada. Nel sito, erano già state ritrovate tracce di fuoco (depositi di cenere sparsi e mucchi di terra riscaldata ad alte temperature), oltre a ossa macellate di grossa selvaggina come cervi, uri e cavalli risalenti forse fino a 400.000 anni fa.

Gli antropologi hanno dibattuto su quali siano le prime prove di uso controllato del fuoco – e quale specie hominine ne sia responsabile. Cenere e ossa bruciate nella grotta di Wonderwerk in Sudafrica suggeriscono che gli antenati umani usassero il fuoco almeno 1 milione di anni fa. Alcuni ricercatori hanno addirittura ipotizzato che i denti dell’Homo erectus siano un indizio di consumo di cibo cotto sul fuoco a partire da 1,9 milioni di anni fa. Uno studio uscito l’anno scorso sul Cambridge Archaeological Journal spiegava come chi accendeva il fuoco aveva bisogno di abilità per mantenere il fuoco acceso, come pianificazione a lungo termine (raccolta di legna da ardere) e cooperazione di gruppo.

Non è pienamente chiaro chi stesse cucinando nella grotta di Qesem. Uno studio pubblicato tre anni fa sull’American Journal of Physical Anthropology descrive 8 denti scavati a Qesem e datati tra i 400.000 e i 200.000 anni fa. Secondo gli autori potevano appartenere a uomini moderni (Homo sapiens), Neandertal o forse un’altra specie. L’archeologo dell’Università di Tel Aviv Avi Gopher aveva spiegato in una intervista a Nature (suscitando numerose polemiche) che potevano effettivamente essere umani: “I denti più simili a quelli di Qesem sono quelli dalle grotte di Skhul e Qafzeh nel nord di Israele, che risalgono a più tardi, tra gli 80.000 e i 120.000 anni fa, e sono generalmente ritenuti appartenere a uomini moderni”.

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

(Qesem Cave Project)

Storia curiosa: che ci fanno il dio egizio Anubi e scritte celtiche in un’antica grotta dell’America del Nord?

Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it/

grotta-anubiForse una delle più grandi anomalie storiche del Nuovo Mondo è rappresentata dalla Grotta di Anubi, in Oklahoma, America del Nord. All’interno di essa, infatti, sono state ritrovate alcune raffigurazioni che sarebbero la prova della presenza misteriosa di un antico culto egizio nell’America precolombiana.

Situata in Oklahoma, nei pressi di Tulsa, la Grotta di Anubi si compone di cinque grotte apparentemente insignificanti, ma che a causa del loro contenuto sono diventate oggetto di sconcerto da parte dei ricercatori.

 

Le cavità, infatti, contengono delle insolite sculture che raffigurano il dio egizio Anubi, nel suo tipico aspetto di sciacallo e un’enigmatica scultura di un grande toro.

 

Ad alimentare il mistero, a poca distanza dalla grotta, nel 2010 è stata trovata rinvenuta una roccia arenaria lungo il fiume Arkansas, la quale raffigura una grande scultura di un toro, sullo stile delle immagini geroglifiche del bue Api, considerato divino dagli antichi egizi, molto simile a quello raffigurato nella Grotta di Anubi.

 

Come è possibile che icone dell’antica cultura egizia siano potute arrivare in Nord America in epoca precolombiana? In realtà, l’iconografia presenta all’interno della grotta è ancora più complessa, in quanto all’interno di essa sono stati trovati esempi di ‘Ogham‘, un’antica lingua celtica usata in Irlanda e Scozia intorno al 350 d.C.

 

La storia della scoperta

 

La scoperta della Grotta di Anubi risale al 1968, quando un giornale locale dell’Oklahoma riportò la notizia di una misteriosa grotta ricoperta di figure e segni. Dieci anni dopo, un gruppo di ricerca guidato da Gloria Farley, si recò sul posto trovando quelle che si rivelarono essere cinque grotte.

 

La prima grotta aveva tre pareti completamente ricoperte di scritte e petroglifi. La figura più rilevante era l’immagine canina con le orecchie a punta, con una corona sul capo e con una specie di frusta sulla schiena, molto simile al flagello regale dell’antico Egitto. Inoltre, fu rilevata la presenza di scritte in caratteri Ogham e scritte in numidico.

 

La Farley identificò la figura dello sciacallo con il flagello sulla schiena con Anubi, termine greco che indica il dio egizio Anpu. Frequentatore di necropoli e di caverne, egli era ritenuto abitatore del mondo sotterraneo, e quindi dio dei morti ai quali assicurava vitto e buona sepoltura.; in sciacalli amano mutarsi i trapassati.

 

Come spiega Edicolaweb, Anubi è generalmente raffigurato come uno sciacallo nero dalla folta coda, o come un uomo dalla pelle nera con la testa di sciacallo. Lo sciacallo è solitamente in posizione sdraiata, accosciato con la testa levata.

 

La raffigurazione di Anubi nella grotta dell’Oklahoma è molto simile ad un’immagine dipinta su un papiro del Nuovo Regno, databile al periodo 1580-1090 a.C., ed oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Esso appare in un quadro che raffigura il corso del sole e cammina al di sotto del trono cubico di Râ-Harakte. Tale forma di Dio solare raffigura un uomo dalla testa di falco, sovrastata dal disco solare e dall’ureo, il serpente sacro. Talvolta, infatti, si assimila Anubi al dio sole.

 

Adoratori di Mitra

 

Phil Leonard, esperto della Grotta di Anubi, in un’intervista rilasciata ad History Channel ha spiegato che le incisioni trovate nella grotta potrebbero essere state eseguite da antichi adoratori di Mitra e che la grotta sia stata progettata come un indicatore per gli equinozi.

 

Le Grotte di Anubi rappresentano le testimonianze meglio conservate dell’antico culto di Mitra, che ha attraversato tempo e distanze, dall’Impero Persiano fino a quello Romano. Il dio Sole Mitra era venerato in India prima del 2000 a.C.Successivamente, il culto si diffuse in Persia e in Asia Minore, fino a diventare un dio ellenistico e romano, che fu adorato nelle religioni misteriche dal I secolo a.C. al V secolo d.C. Non è chiaro quanto vi sia in comune fra questi tre culti.

 

Le origini del culto mitraico nell’Impero Romano non sono del tutto chiare e sarebbero state influenzate significativamente dalla scoperta della precessione degli equinozi da parte di Ipparco di Nicea. Mitra sarebbe la potenza celeste capace di causare il fenomeno.

 

In ogni tempio romano dedicato a Mitra il posto d’onore era dedicato alla rappresentazione di Mitra nell’atto di sgozzare un toro sacro. Mitra è rappresentato come un giovane energico, indossante un cappello frigio, una corta tunica che s’allarga sull’orlo, brache e mantello che gli sventola alle spalle. Mitra afferra il toro con forza, portandogli la testa all’indietro mentre lo colpisce al collo con la sua corta spada.

 

Un serpente ed un cane sembrano bere dalla ferita del toro, dalla quale a volte sono rappresentate delle gocce di sangue che stillano; uno scorpione, invece, cerca di ferire i testicoli del toro. Questi animali sono proprio quelli che danno nome alle costellazioni che si trovavano sull’equatore celeste, nei pressi della costellazione del Toro, quando durante l’equinozio di primavera il sole era nella costellazione del toro, periodo denominato Era del Toro.

 

Quando il mitraismo finalmente si diffuse tra i popoli celtici dell’Europa Occidentale e in Gran Bretagna, l’enfasi posta sulla raffigurazione di Mitra che uccide il toro fu molto grande. E’ interessante notare che la scultura del toro sulle rive del fiume Arkansas sembra riprodurre anche il sanguinamento, il ché da ulteriore credito alla teoria di Mitra.

 

Certamente rimangono molte domande senza risposta. Ammesso che i popoli celtici si siano spinti fino in Nord America, perchè costoro hanno ritenuto necessario raffigurare il dio Anubi assieme al dio Mitra? Sembra la raffigurazione di una sorta di passaggio di consegne tra divinità.

Inoltre, come esattamente l’antico popolo celtico ha raggiunto l’Oklahoma? Certamente, questa scoperta rafforza l’idea che i vichinghi, abili navigatori, abbiano raggiunto l’America del Nord secoli prima di Colombo.

Proiettili per posta e stelle a cinque punte

Scritto da: Comandante Nebbia
Fonte: http://www.mentecritica.net

gold-starLa “Stella A Cinque Punte”, rigorosamente scritta con le iniziali in maiuscolo, ha un ruolo di eccellenza nel coacervo di cazzate che forma l’ossatura portante del sistema culturale/informativo italiano. Insieme al “Proiettile per Posta”, sul quale ci siamo già dilettati (vedi il contributo ad esso dedicato), nelle intenzioni di chi cucina il pastone quotidiano destinato ad alimentare le povere menti dei telelettori ( nell’accezione duplice di tele elettori e tele lettori ), dovrebbe scatenare panico unito al terrore di ripiombare, ed è proprio il caso di dirlo, negli “Anni di Piombo”.

Appena un cazzone che può vantare come unico merito quello di possedere tre euro per comprare una bomboletta di vernice spray scrive una fesseria e ci disegna affianco, malamente direi, una stellina, giornalisti, politici ed opinionisti scattano come se qualcuno gli avesse infilato un bastone arroventato là dove al dolore si unisce l’umiliazione virile. Partono i dibatti, si invocano indagini immediate, riprende ad aleggiare lo spettro cupo del terrorismo.

Ora vorrei capire chi, ragionevolmente, può sostenere che dietro un disegnino o un proiettile mandato per posta celere possa nascondersi una seria Minaccia Alla Democrazia. Se qualcuno avesse intenzione di fare del male al presidente della camera, non sarebbe così coglione da avvisare lei, la sua scorta e la Digos facendo scarabocchi per strada o mandando letterine. A questo punto tanto varrebbe mandare un bigliettino: “Presidente, cortesemente, dorma preoccupata”.

L’Italia nella quale si è sviluppata la lotta armata non esiste più. Se questo sia storicamente un bene o un male è un giudizio personale e ciascuno ha il suo. Mancano la cultura e la sensibilità politica che hanno portato tante persone a trasformarsi in assassini e a perdere le proprie vite oltre che quelle delle vittime credendo, stupidamente, di poter vincere una guerra che era solo nelle loro teste. L’evoluzione tecnologica nel campo delle comunicazioni ha reso impossibile per dei dilettanti scambiarsi informazioni e piani senza essere intercettati, registrati, infiltrati e attenzionati. Chi è del mestiere lo sa. Non esistono più le fonti di finanziamento internazionali, il potere fa cartello e i partiti, aldilà delle chiacchiere, si sostengono reciprocamente. Il mercato delle armi è controllato strettamente dalla malavita organizzata che è organica al sistema e lo difende. Il terrorismo anni 70 è un fenomeno consegnato alla storia come la Carboneria e chi ne evoca lo spettro lo fa scientemente per aumentare la confusione.

Certo, è ancora possibile che un pazzo possa piazzare una bomba in una stazione della metropolitana e uccidere centinaia di persone in un solo colpo, ma questo è un rischio insito in società come le nostre che fanno della libera circolazione delle persone un valore commerciale prima che etico. Questo, in ogni caso, è un’eventualità alla quale siamo esposti tutti, meno che chi la metropolitana non la prende perché riveste un’alta carica, probabilmente.

La Stella a Cinque Punte e la pallottola che arriva col postino, più che il terrorismo, richiamano quelle scritte e quei disegni fatti di nascosto nei cessi degli autogrill: le tette con lo spruzzo sopra, il grosso pisellone con sotto il numero di telefono, l’organo sessuale femminile rappresentato come una sorta di bocca vorace e cannibale. Si tratta di sfoghi onanisti consumati col favore dell’anonimato. Una catarsi dell’impotenza.

I veri pericoli per l’Italia rimangono una classe politica il cui primo obiettivo, a prescindere dagli schieramenti, è perpetuare sé stessa ed un elettorato stanco e disilluso che ha firmato una delega in bianco perenne rinunciando ad ogni forma di controllo.

Dove non c’è politica non esiste lotta politica, nemmeno quella armata.

David Grassi, l’ufficiale della marina punito per essersi rifiutato di inquinare il mare

Scritto da: Francesca Mancuso
Fonte: http://www.greenme.it

davidLa sua unica colpa è stata quella di aver evitato che fossero scaricati in mare liquidi oleosi, potenzialmente inquinanti, provenienti dalla nave su cui si trovava. L’ufficiale della Marina, il tenente di Vascello David Grassi, per questo era stato punito con 15 giorni di consegna. Era il 23 febbraio 2002. Oggi dopo 12 lunghi anni, il suo ricorso è stato accolto dal Tar della Liguria.

David Grassi si trovava a bordo del Maestrale per una spedizione internazionale. Un incidente avvenuto a bordo, un guasto all’impianto di separazione degli scarichi che evitava la dispersione in mare delle sostanze inquinanti, spinse l’ufficiale direttore di macchina della nave ad effettuare lo scarico fuori bordo delle acque di sentina,  per non interrompere la navigazione, come si legge nel testo della sentenza. Ma Grassi fece un passo indietro, insieme ad altri colleghi.

Per questo suo gesto, fu punito con 15 giorni di consegna di rigore avendo disobbedito agli ordini di un suo superiore. Come si legge nel testo, per documentare l’accaduto, Grassi fotografò anche i locali macchine della nave per avere degli elementi di prova e tutelarsi dalle accuse che potevano essere mosse nei suoi confronti.

Seguire un dovere morale è stato anche ciò che ha fatto il tenente Barbara Balanzoni, che il 7 febbraio prossimo sarà processata davanti al Tribunale militare di Roma per aver aiutato una gatta a partorire in Kosovo, nel 2012.

Probabilmente, ascoltando più la sua coscienza che il volere dei superiori, David Grassi è impegnato da oltre un decennio in una battaglia legale che oggi gli ha dato parzialmente ragione. “Mi piace che possa esservi un insegnamento in quanto accaduto e che questo evento sia valorizzato con lo stesso fervore, fermezza ma anche correttezza che sono state nelle mie intenzioni, alla guida di tutta la vicenda giudiziaria”, scrive sulla sua pagina Facebook, sostenendo che gli ostacoli si possono superare, anche se in questo caso occorre domandarsi se servisse quest’attesa.

Non spetta a me stabilire la giustizia o avere la presunzione di possedere ‘valori‘”, prosegue ma “occorre cercare di decidere e di attuare la “cosa giusta”, che probabilmente inizia dalla riflessione, dalla cautela, dall’esercizio della facoltà di comprendere, per dare il nostro contributo affinché tutto quello che ci appartiene possa essere degno e almeno all’altezza di quello che sentiamo nel cuore”.

Ieri siamo riusciti a raggiungerlo al telefono e David Grassi ci ha spiegato il suo punto di vista: “La coscienza è un fatto che va sempre insieme ad una questione culturale e normativa”, ci spiega. “Ci possono essere dei casi in cui uno, non muovendosi all’interno del noto va ad abbracciare l’aspetto della coscienza ma quando ci muoviamo in un campo normato siamo a posto, la nostra coscienza è tranquilla”. E aggiunge: “Bisogna sottolineare un aspetto fondamentale, che è poi quello di cui ha tenuto conto la sentenza, cioè quello di aver messo in atto un comportamento che era preventivo rispetto ad eventuali azioni di danno. È stata un’azione preventiva che era stata condotta per impedire che si verificassero dei danni”, conclude. Un’attesa che certamente gli avrà comportato sofferenza.

Lei ha svolto il delicato compito di direttore di macchina?“, gli abbiamo chiesto? E risponde: “Si. Ed è stato un periodo molto bello, perché quando sono arrivato a quell’incarico mi sentivo pronto. Soprattutto su ‘Nave San Giorgio’. E soprattutto l’ultimo anno.”