BUNDESBANK: NESSUN PROBLEMA PER DEUTSCHE BANK!

Fonte: http://icebergfinanza.finanza.com/2016/10/14/bundesbank-nessun-problema-per-deutsche-bank/

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Continua la spettacolare serie delle interviste all’oste del quartiere sotto casa, interviste sulla qualità del vino che tiene nella sua cantina…

Ieri l’oste della Bundesbank ha dichiarato che le preoccupazioni sul settore bancario europeo sono esagerate, che il vino che le banche centrali tengono nel loro azionariato è buono, solvibile, la solvibilità del settore bancario europeo non è in discussione.

Io adoro quando negano l’evidenza, la storia sta piegandosi dalle risate…

Come sempre nella storia capacità finanziaria e perspicacia polita sono inversamente proporzionali. La salvezza a lunga scadenza non è mai stata apprezzata dagli uomini d’affari se essa comporta adesso una perturbazione nel normale andamento della vita e nel proprio utile. Cosi si auspicherà l’inazione al presente anche se essa significa gravi guai nel futuro. Questa è la minaccia per il capitalismo (…) E’ ciò che agli uomini che sanno che le cose vanno molto male fa dire che la situazione è fondamentalmente sana! (JK Galbraith)

Bundesbankvorstand: Andreas Dombret kritisiert Geschäftsmodelle

“Le autorità di vigilanza devono garantire in primo luogo che le banche siano stabili e resistenti(…)  ha scritto Dombret. Tuttavia, la domanda non deve essere frainteso. Quindi non dovrebbero mirare per di nuovo a ritorni  sul patrimonio netto di circa il 20 per cento come accaduto nell’ultima crisi finanziaria. “Inoltre, i soggetti interessati utilizzano questo dibattito per convincere i politici e l’opinione pubblica che la regolamentazione bancaria deve essere clemente in modo che il settore bancario in generale possa essere in grado di guadagnare e sopravvivere “, dice Dombret. Entrambe sono richieste che potrebbero portare alla prossima crisi bancaria.

Non solo negano l’evidenza, ovvero che senza i vari LTRO o TLTRO delle banche centrali mezzo sistema finanziario europeo sarebbe fallito, ma addirittura negano che banche come Deutsche Bank possano essere salvate solo da interventi statali…

Dombret (Bundesbank): basta con gli aiuti di Stato alle banche …

Una cura dimagrante per il settore bancario tedesco non è da escludersi. Questa l’opinione di Andreas Dombret, membro del consiglio della Bundesbank incaricato della supervisione, che durante un discorso a Vienna ha detto di attendersi un certo tasso di ulteriore consolidamento all’interno del comparto creditizio teutonico, processo che potrebbe comprendere sia la contrazione di qualche istituto maggiore, sia la scomparsa di banche dalle dimensioni più limitate.

La scomparsa di banche dalle dimensioni più limitate, mentre cadaveri finanziari ambulanti come DB si tengono in piedi, salvo poi aggiungere che la soluzione  non è “meno istituti e meno filiali”, cosa che porterebbe a una crescita del potere di mercato delle grandi banche.

Giusto un messaggino per i nostri politicanti e manager che si affanno nel perseguire fusioni e chiusure di filiali ovunque.

Tematica, quella del supporto pubblico, affrontata direttamente da Dombret che ha esortato non solo Berlino, ma tutta Europa, a cessare tale pratica: “il supporto pubblico al sovraffollato comparto bancario deve finalmente giungere al termine, ma sfortunatamente finora questo ha avuto un’estensione limitata”.

Non diciamo fesserie, di limitato non c’è stato nulla, soprattutto in Germania dove il supporto pubblico è stato enorme, totale, indispensabile!

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Per meglio dipingere la sua posizione, l’esponente della Banca centrale tedesca ha paragonato i grandi gruppi del Vecchio Continente a dinosauri che fronteggiano la minaccia dell’estinzione: “Non potevano credere che le loro dimensioni li preservassero dalla scomparsa data dalle minacce provenienti dalla riduzione del debito totale, dalla competizione tecnologica, dall’invecchiamento della popolazione e dai bassi tassi d’interesse”.

Una lezione che deve essere perpetuata dalla preistoria: “la grandezza non è un obiettivo in sè”, ha proseguito. “Come le dimensioni del singolo istituto non possono garantire la sopravvivenza, così quelle del comparto non possono renderlo immune dalle crisi”. Finora, secondo Dombret, è stata posta troppa enfasi sulla mancanza di modelli di business adeguati, ma allo stato attuale la risposta potrebbe essere che “il settore è diventato semplicemente troppo ampio”.

Altro messaggino rivolto al sistema di casa nostra dove dotti, medici e sapienti credono che basti fare banche più grandi, concentrare le risorse, fare fusioni a gogo, per risolvere i problemi.

…è stata posta troppa enfasi sulla mancanza di modelli di business adeguati…

Il modello delle banche cooperative ha dimostrato durante la crisi del 2008, quella provocata dalle banche speculative, di essere il migliore, quello più solido, poi in seguito all’attacco speculativo da parte di Deutsche Bank al nostro Paese e all’avvento di Monti, il figlio prediletto di Angela Merkel, l’untore dell’austerità e deflazione salariale, dicevo in seguito al crollo dell’economia del nostro Paese, dell’economia reale, allora e solo allora il sistema delle banche di credito cooperativo è entrato in crisi  e non certo grazie a speculazioni selvagge o frodi e manipolazioni come i maestri della Deustche Bank.

Ma sino a qui non ci arriva nessuno, in un Paese nel quale la maggioranza prende come modello la Germania, paese di furbi dove la corruzione è di casa, dove oltre la metà delle banche sono fallite al servizio della politica supportate da interventi statali, paese di ignoranti che per correre dietro alle mode anglosassoni subprime, immobiliare e per ultimo il sistema navale, si sta finanziariamente lentamente suicidando e trascinando con se l’Europa, nella voragine con la banca intorno.

A ogni modo, ha concluso il banchiere, lo scenario per Germania e Austria non è di massima allerta.

Segnatevela questa non è di massima allerta, anche perchè abbiamo superato il punto di non ritorno!

La nuova bomba atomica intelligente USA, su misura per l’Europa

Scritto da: Alfatau
Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1972/La-nuova-bomba-atomica-intelligente-USA-su-misura-per-l-Europa

Il 1° agosto 2016 la National Nuclear Security Administration (NNSA), agenzia semi-autonoma costituita nel 2000 nell’ambito del ministero dell’Energia statunitense, ha annunciato l’autorizzazione formale all’ingegnerizzazione della nuova testata nucleare B61-12. Questo annuncio, dopo quattro anni di attività di sviluppo dell’arma, segna l’inizio della fase finale che porterà alla produzione della prima unità della bomba nel 2020.
La testata nucleare B61-12 garantisce il rinnovamento per altri vent’anni della componente aerea della cosiddetta “triade nucleare”, l’arsenale atomico statunitense, formato appunto da bombe portate da aerei, montate su missili intercontinentali basati a terra e lanciate da sottomarini lanciamissili in navigazione negli oceani.
Lo scorso luglio, dieci senatori americani avevano inviato una lettera al presidente degli Stati Uniti Barak Obama con la quale gli si chiedeva di utilizzare i restanti mesi del mandato per “ridurre la spessa in armi nucleari degli Stati Uniti e limitare il rischio di conflitti nucleari”, tra le altre cose “ridimensionando i piani di eccessiva modernizzazione nucleare”. La preoccupazione espressa da questi esponenti politici americani è legata alla maggiore precisione (30 metri di possibilità di errore, contro i 110-170 attuali) e possibilità di regolazione della potenza di scoppio della stessa, che ne fa un’arma cosiddetta intelligente, rendendone quindi più realistico l’impiego. La potenza della testata può infatti essere regolata da chi opera il lancio da un minimo di 10 a un massimo 340 kilotoni, tenendo presente che la bomba atomica lanciata ad Hiroshima il 6 agosto 1945 aveva una potenza stimata fra i 13 ed i 18 kiloton, che fu sufficiente ad uccidere 150mila civili.
La questione ci tocca da vicino in quanto la nuova B61-12 è destinata a sostituire le 180 più vecchie bombe dei precedenti modelli tipo B61 (ne sono stati prodotti dal 1963 oltre 3mila esemplari), attualmente stoccate in cinque Paesi europei: Belgio, Olanda, Turchia, Italia (ad Aviano e Ghedi) e in Germania, dove infatti la notizia di questa autorizzazione finale allo sviluppo della bomba ha provocato alcuni preoccupati interventi su organi di stampa.
Il programma di modernizzazione, che come tale non è soggetto ad alcun accordo internazionale, e quindi non rientra né fra quanto previsto dal trattato di non proliferazione nucleare (NPT) né da quello sulla riduzione delle armi nucleari (START) siglato da Usa e Russia, è costato ai contribuenti americani, nel solo 2015, ben 1,2miliardi di dollari, soldi che vanno a beneficio del complesso militare-industriale americano, ancora in grado di condizionare la politica elettorale americana. Ogni bomba verrà così a costare in dollari più del suo stesso peso in oro!
Lo scorso maggio 2016, Obama è stato il primo presidente americano a recarsi ad Hiroshima, dove ha pronunciato parole che i giornalisti si sono affrettati a definire storiche: “Settantuno anni fa la morte è arrivata dal cielo e il mondo è cambiato. Piango quei morti: ora un mondo senza atomiche”. È difficile capire come questa affermazione di un premio Nobel per la pace si concili con la decisione della NNSA americana, di cui Obama è comunque il primo responsabile, in quanto presidente degli Stati Uniti d’America

DAI SEMI DI RICINO, L’OLIO DELLE CIGLIA E DEI CAPELLI

Scritto da: Alessandro Romeo
Fonte: http://www.cure-naturali.it/olii-vegetali/2404/olio-ricino-propriet%C3%A0/1790/a

Dai semi di ricino, l’olio delle ciglia e dei capelli


L’olio di ricino è un olio vegetale molto denso, ottenuto dalla spremitura a freddo dei semi della pianta Ricinus communis, che trova impiego nella cura dei capelli sfibrati e secchi, in quanto esplica un’azione nutriente, rinforzante e lucidante; e per conferire volume e forza alle ciglia, come un vero balsamo di bellezza.

Le ciglia hanno un ruolo importante sia dal punto di vista estetico che funzionale: proteggono i nostri occhi dalla polvere e dalla sporcizia e contemporaneamente rendono lo sguardo intenso e definito. Per mantenere le ciglia sane occorre innanzitutto struccarle ogni sera, se si fa uso di mascara, perché se non rimosso perfettamente tende a indebolirle e seccarle. Se le ciglia sono già rade e deboli, allora possiamo intervenire con l’olio di ricino, un rimedio naturale molto efficace

Proprietà e benefici dell’olio di ricino

L’olio di ricino è caratterizzato da un alto contenuto di acido ricinoleico (83-90%); si tratta di un acido grasso, insaturo, presente come trigliceride e non reperibile in altri substrati lipidici.

Questo nutriente conferisce all’olio di ricino proprietà peculiari, che lo rendono assai utilizzato nell’industria farmaceutica, per la produzione di medicinali, ed in quella chimica, per la preparazione di vernici e lubrificanti. Altri componenti sono  acido oleico (3-6%); acido linoleico (3-5%); acido palmitico (1-2%); acido stearico (1-2%); acido α-linolenico (0.5% max); e acido arachico (0.3% max).

Uso interno
L’olio di ricino è il più forte dei lassativi a base oleosa, dall’odore e dal sapore sgradevoli e dall’azione piuttosto drastica. Tale azione è legata alla presenza di acido ricinoleico, che dopo l’assunzione viene liberato dai trigliceridi, per opera degli enzimi gastrici e pancreatici, con il supporto della bile epatica. Nella forma libera, soltanto una piccola parte è assorbita dall’intestino.

L’olio di ricino viene generalmente ingerito a stomaco vuoto, mescolato con oli essenziali o succo di arancia per mitigarne il cattivo sapore e produce un marcato effetto lassativo nel giro di 2-6 ore. Nello stomaco, infatti, agisce come qualsiasi altro grasso, ritardando il tempo di svuotamento gastrico; da qui la raccomandazione di assumerlo lontano dai pasti. L’olio di ricino si utilizza per liberare l’intestino prima di interventi chirurgici, procedure radiologiche, anche se il suo campo di applicazione più noto è relativo all’evacuazione totale del colon prima del parto.

Le proprietà dei semi dai quali si estrae l’olio di ricino

Uso cosmetico
L’olio di ricino (castor oil in inglese) ha una buona affinità per la cheratina, principale costituente di peli, capelli ed unghie, per questo viene ampiamente utilizzato in cosmesi naturale, principalmente come agente nutriente. Distribuito sulla pelle, infatti, forma un film che riduce fortemente l’evaporazione dell’acqua cutanea e quindi la disidratazione.

L’olio di ricino è adattissimo anche per i capelli e ben noto per le proprietà rinforzanti, ristrutturanti, ed ammorbidenti, efficaci in caso di capelli secchi, sfibrati e spezzati. Infatti, riesce a riequilibrare il quantitativo di grasso nei capelli (che si perde soprattutto nel fusto e nelle punte), prevenendo il loro indebolimento e soprattutto evitando la formazione delle doppie punte. Molto denso e filmante, ma poco facile da usare puro perché particolarmente denso, è bene unirlo all’olio di mandorle dolci o all’olio di lino nelle quantità di due parti di questi ultimi per ogni parte di olio di ricino.

L’olio di ricino viene anche utilizzato per rinforzare e dare volume alle ciglia, applicandolo puro alla sera prima di dormire o direttamente come mascara.

Descrizione della pianta

(Ricinus communis)

Originario dell’Africa tropicale, il ricino si diffuso un po’ ovunque nel mondo, dove il clima lo permetteva. Lo si ritrova in zone subtropicali, ma anche in zone con clima temperato. Si presenta sotto forma di una pianta erbacea o arborescente, annua o perenne secondo le condizioni climatiche della regione.

Ha un’altezza media di 2-3 metri fino a raggiungere i 10 metri nel suo paese di origine. Le foglie sono lobate (da 5 a 12 lobi) con il bordo dentato, verdi o rosse, palmate. Alcune varietà ornamentali hanno le foglie con la faccia inferiore ed il picciolo colorati di rosso. I fiori sono raggruppati a grappoli in un’infiorescenza sulla cui parte basale sono collocati quelli maschili mentre i fiori femminili si trovano nella parte alta. La fioritura avviene in estate. I frutti si presentano come capsule spinose, costituite da tre valve, che a maturazione si aprono liberando tre semi di circa 1 cm. marmorizzati di rosso o di bruno

Una cometa ha provocato il riscaldamento globale che ha permesso ai mammiferi di conquistare la Terra

Fonte: http://www.greenreport.it/news/clima/cometa-provocato-riscaldamento-globale-permesso-ai-mammiferi-conquistare
cometa

L’impatto di una cometa potrebbe aver innescato il Paleocene-Eocene Thermal Maximum (Petm, il  rapido riscaldamento della Terra causato 56 milioni di anni fa da un accumulo di anidride carbonica atmosferica che ha molte analogie con l’odierno riscaldamento globale di origine antropica. E’ quanto emerge dallo studio “Impact ejecta at the Paleocene-Eocene boundary” pubblicato oggi su Science da un team di ricercatori statunitensi guidato da Morgan Schaller del Rensselaer Polytechnic Institut. Alla ricerca hanno partecipato anche Miriam Katz, Megan Fung e James Wright della Rutgers University, e Dennis Kent della Columbia University

Gli scienziati hanno scoperto la prova dell’impatto rinvenendo delle microtektites,  piccole sfere vetrose scure di lechatelierite che si formano solitamente in seguito ad impatti di corpi extraterrestri.

Schaller spiega: «Questo ci dice che c’è stato un impatto extraterrestre al momento in cui questo sedimento si è depositato: una roccia spaziale ha colpito il pianeta. La coincidenza di un impatto con un importante cambiamento climatico è a dir poco straordinaria»..

Il team di Schaller era alla ricerca di resti fossili di foraminiferi, piccoli organismo marini che producono un guscio, quando ha notato un microtektite nel sedimento che stava esaminando. Anche se è comune trovarli tra i  resti fossili nei sedimenti, i microtektiti  non erano stati  precedentemente rilevati nel Petm  e gli scienziati americani teorizzano questo sia avvenuto perché «I microtektiti sono in genere di colore scuro, e non si distinguono sul vassoio di smistamento nero che ricercatori utilizzano per la ricerca di resti fossili di colore chiaro». La prima volta che Schaller ha notato un microtektite, i ricercatori sono passati ad utilizzare  un vassoio bianco ed hanno iniziat a trvarne altri.

Nello strato dove erano più abbondanti, il  team di ricerca ha trovato ben tre microtektites per grammo di sedimento esaminato.  Di solito i microtektiti sono sferici o a forma di goccia e si formano a causa di un  impatto abbastanza potente per fondere e vaporizzare l’area dve precipita il corpo celeste. I ricercatori dicono che alcuni dei microtektiti trovati nei campioni  «contenevano una quantità di quarzo shoccante,  la prova definitiva della loro origine da impatto» e i micrcrateri scoperti mostrano la velocità alla quale stavano viaggiando mentre si solidificavano e toccavano il suolo.

Durane il Petm la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera è aumentata rapidamente e il suo picco è stato accompagnato da un aumentio della temperatuira globale tra i 5 e gli  8 gradi Celsius che è durato per circa 150.000 anni. Anche se si sa molto su quel periodo di riscaldamento globale, non era mai stato determinato da dove provenisse la Co” che lo ha provocato, e poco si sapeva sull’esatta sequenza degli eventi. Ad esempio, quanto rapidamente l’anidride carbonica è stata immessa nell’atmosfera, quanto velocemente è salita la temperatura e quantio ci ha messo a raggiungere il picco.

Il team di scienziati dice che «Un indizio può essere trovato in un improvviso cambiamento nel rapporto di isotopi di carbonio in alcuni fossili del periodo. In particolare i foraminiferi, o “foraminiferi,” producono  un guscio la cui chimica è rappresentativa degli isotopi di carbonio atmosferico e dell’oceano». Inizialmente, il  team di  ricerca inizialmente si proponeva proprio di esaminare il rapporto tra gli isotopi di carbonio dei foraminiferi fossili per individuare l’evento che ha innescato il riscaldamento globale del Petm.

Schaller spiega ancora: «Nei dati dei sedimenti, quando si guarda al rapporto tra il carbonio-12 e il  carbonio-13 in una specie particolare, si vede che è stabile e quindi si innalza bruscamente, oscilla avanti e indietro e lentamente ritorna ai valori pre-evento nel corso di centinaia di migliaia di anni. Questa prova definisce l’evento e ci dice che l’atmosfera si è modificata, in particolare per l’aggiunta di carbonio da una fonte povera in carbonio-13. Un impatto di una cometa può aver contribuito al  carbonio nell’atmosfera, ma è troppo piccola per spiegare tutti gli eventi e ha agito più probabilmente come un trigger per i rilasci aggiuntivi di carbonio provenienti da altre fonti».

Per arrivare a questa scoperta il team ha studiato campioni di carote di  sedimenti estratte da tre siti: i laghi  Wilson e Millville nel New Jersey e il Blake Nose, un sito sottomarino della Florida orientale, noto per la sua estesa sedmentazone.

Schaller dice che «La scoperta di microtektiti è stata del tutto casuale. Di solito, il team passa i campioni attraverso vagli di varie dimensioni per isolare i campioni che hanno più probabilità di contenere foraminiferi. I tectiti, che sono più piccole rispetto alla maggior parte foraminiferi, sarebbero stati in gran parte rimossi in questo processo. Avevamo una fortuna pessima nella ricerca di foraminiferi, ed ero frustrato. Sono andato al laboratorio e ho messo un campione sul vassoio di smistamento, senza setacciarlo e l’ho visto. E’  stato un momento straordinario. Sapevo che quello che stavo guardando non era normale».

Una volta fatta la scoperta, il team ha estratto  un altro campione in un quarto sito, a  Medford, per escludere la possibilità che i campioni fossero stati contaminati dal processo di estrazione. Anche i campioni di Medford contenevano microtektiti.

Kent, della Rutgers University,  pensa che i microtektiti  potrebbero  provenire da una cometa con n diametro di 10 km  che è precipitata nell’Oceano Atlantico. Un impatto che avrebbe provocato un rapido innalzamento delle temperature in meno di 1.000 anni. Si tratta del picco delle temperature globali che che coincide con la diffusione d i molti gruppi di mammiferi in nuove aree del pianeta e con la loro diversificazione in tre gruppi che esistono ancora: artiodattili (pecore, maiali, cammelli e giraffe), perissodattili (cavalli, tapiori, rinoceronti e zebre) e i primati,  l’ordine dei mammiferi che comprende  gli esseri umani.

Cosa abbia innescato  questa rapida fase dell’evoluzione dei mammiferi non è chiaro, ma il nostro pianeta durante il Petm era praticamente libero dai ghiacci e con un livello del mare molto più alto di quello attuale. Si estinsero molte piccole creature unicellulari oceaniche, ma sulla terra ferma i mammiferi riuscirono ad adattarsi spostandosi verso i poli.

Finra le tesi prevalenti indicavano nell’attività vulcanica la causa di questo antico riscaldamento globale durato circa 200.000 anni, ma lo studio pubblicato su Science dicono che la “colpa” – o il merito visto dalla parte dei mammiferi –   è di una cometa.

CATASTROFE AD HAITI / UNA NUOVA OCCASIONE PER LA CLINTON BAND ?

Scritto da: Rita Pennarola
Fonte: http://www.lavocedellevoci.it/?p=8036

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Catastrofe ad Haiti per l’uragano Matthew. Le news sui morti si moltiplicano. Nel giro di poche ore il bilancio di 300 è passato a 600.

E’ la seconda catastrofe nel giro di pochi anni. Nel 2010 il terremoto distrusse praticamente il Paese. Si mobilitò, allora, l’opinione internazionale. Ma – al solito – lacrime e cordogli durarono lo spazio di qualche mattino. Poi il silenzio più totale.

A rimboccarsi le maniche, invece, la Coppia Real, Hillary & Bill, con la corazzata di famiglia, la Clinton Foundation e le svariate gemmazioni (tutte “caritatevoli” holding) poi fiorite in modo rigoglioso. In poco tempo magicamente la Fondazione si trasforma nel grande imbuto attraverso il quale raccogliere i fiumi di soldi che arrivano da ogni parte del mondo e soprattutto da enti di grosso peso, per fare un solo esempio la Croce Rossa internazionale.

Occorre fare presto, organizzare il domani, la ricostruzione per quelle popolazioni che hanno perso tutto. E la illuminata Fondazione, quasi a seguire il Verbo divino, si getta a capofitto nella sua missione super umanitaria, come del resto l’ha descritta giorni fa – in un imperdibile fondo sul Corsera – Massimo Gaggi. Altro che ombre, è solo Luce che spinge la Real Coppia a dannarsi per i dannati della Terra. Sotto le sue protettive ali vengono arruolati progettisti, allertate le imprese più adatte. Poco importa se poi compassi e archistar non lo fanno per spirito francescano ma perchè sono pagati con lauti cachet. E chissenefrega se la montagna degli appalti diventa una autentica mangiatoia per i “friends” di casa Clinton, i mattonari amici, che con quella ricostruzione trovano una vera manna. Come del resto capita in tutte le catastrofi e le emergenze.

L’Italia ne sa bene qualcosa, con il terremoto ’80 che devastò l’Irpinia e il sisma 2009 che colpì l’Aquila. Lo stesso ex capo della protezione civile Guido Bertolaso – fresco di assoluzione a casa nostra per le accuse aquilane – entrò in contatto con la Fondazione: e fu subito polemica al calor bianco. Secondo alcuni analisti, proprio il caso Haiti fu uno dei motivi per cui gli americani decisero di scaricare definitivamente il non gradito premier Berlusconi, inviso per i cordiali rapporti con due nemici storici dell’establishment a stelle e strisce, Gheddafi e Putin.

Negli anni seguenti sulla stampa alternativa americana e soprattutto sui social hanno fatto capolino feroci accuse alla gestione affaristica del caso Haiti da parte della Clinton Foundation. Accuse di interessi stratosferici, in sostanza una gestione totalmente privatistica, dietro il paravento “umanitario” della Fondazione, per favorire amici & imprese, proprio in vista dei futuri impegni elettorali di lady Hillary e della necessità di dotarla di una ingente “provvista finanziaria”. E proprio a questo scopo sono state improntate tutte le iniziative promosse nel corso degli anni: ben compresi i maxi fondi raccolti dai governi praticamente a 360 gradi, compresi i nemici storici, per fare un solo caso la Cina. Uno dei veicoli base, le conferenze tenute da Bill in mezzo mondo, cachet medio intorno al mezzo milioni di dollari: il picco proprio negli anni in cui la consorte ricopriva la strategica carica di Segretario di Stato nell’amministrazione Obama.

E adesso, con la nuova tragedia haitiana? C’è tempo per raccogliere fondi per il rush presidenziale?

Independent: La Svalutazione della Sterlina Fa Bene alla Gran Bretagna. (Non Credete a Ciò Che Vi Hanno Raccontato)

Scritto da : Henry Tougha
Fonte: http://vocidallestero.it/2016/10/13/independent-la-svalutazione-della-sterlina-fa-bene-alla-gran-bretagna-non-credete-a-cio-che-vi-hanno-raccontato/

Sul giornale britannico Independent il prof. Ashoka Mody riassume efficacemente un punto a noi noto: la svalutazione post-brexit della sterlina (l’ultimo spauracchio ripetuto a nausea dai catastrofisti anti-brexit) non è affatto un disastro, ma un evento da festeggiare per l’economia britannica. Come già decretava il FMI a inizio anno, la sterlina era fortemente sopravvalutata, collocandosi al valore adeguato per un settore finanziario ipertrofico e parassita, ma eccessivo per tutti gli altri. Ora l’economia britannica può tornare a valorizzare le attività produttive, gli investimenti, i posti di lavoro e la crescita del mercato interno. È il “dividendo della brexit”. In ultima battuta, gli unici a perderci saranno alcuni speculatori finanziari e immobiliari colti alla sprovvista. (E in fondo, dovremmo darci pena per loro?!)

di Ashoka Mody, 10 ottobre 2016

Un ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale sostiene che la rapida caduta del valore della moneta britannica aiuterà l’economia della Gran Bretagna a riequilibrarsi e a crescere in modo sostenibile.

Il voto sulla Brexit ha innescato un rapido deflusso di fondi speculativi che avevano investito nel settore privato – e questo deflusso ha causato un deprezzamento della sterlina britannica, in precedenza molto sopravvalutata.

E così, senza che nessuno se lo aspettasse, la Brexit ha fatto sgonfiare la bolla finanziario-immobiliare e, al tempo stesso, ha favorito la parte di economia britannica più orientata alle imprese produttive. Contrariamente alla narrativa dominante, la svalutazione della sterlina è una buona notizia.

Secondo la narrativa dominante, la svalutazione della sterlina sarebbe stato un avvertimento preliminare del fatto che la Brexit sarebbe finita male.

Essa segnala, dice qualcuno, che gli investitori hanno perso fiducia verso la Gran Bretagna per il fatto che essa commercerà di meno con l’Unione Europea, e che perciò in futuro sarà più povera.

Altri insistono sul fatto che la caduta del valore della sterlina renderà di per sé i cittadini britannici più poveri, per il fatto che potranno comprare meno valuta straniera e, perciò, meno beni e servizi dall’estero. I vacanzieri britannici, dice l’ex vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, Rupert Pennant-Rea, saranno i primi a sentire lo shock di una sterlina più debole.

Quelli che hanno una visione più positiva della Brexit guardano al veloce recupero dei mercati azionari.

L’indice FTSE 100, che include le grandi multinazionali, è ben al di sopra dei livelli pre-Brexit. L’indice FTSE 250, basato su aziende a media capitalizzazione che guadagnano metà dei propri profitti dal mercato interno britannico – è anch’esso chiaramente al di sopra dei livelli pre-Brexit.

Perfino l’indice FTSE “locale”, che include le aziende che derivano il 70 percento o più dei propri profitti dal mercato di beni e servizi britannico è ora del 15 percento superiore rispetto al minimo post-Brexit, e comunque entro il 5 percento di differenza dal proprio livello medio pre-Brexit

Cosa sta succedendo? Uno sguardo attento agli indicatori di mercato suggerisce che, lungi dall’essere il disastro che era stato prospettato, la Brexit potrebbe anzi essere vantaggiosa.

Lo sguardo d’insieme degli indicatori di mercato dice “pollice in su” per la Brexit:

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Per capire come la Brexit abbia portato un inatteso dividendo, dobbiamo concentrarci sulla sorprendente concordanza tra il valore della sterlina e i prezzi delle proprietà.

Ogni volta che la sterlina è in rapido calo, anche i prezzi delle proprietà lo sono.

Ora che il valore della sterlina è ben al di sotto dei suoi livelli pre-Brexit, lo sono anche le previsioni sui valori delle proprietà. Nei giorni dopo la Brexit, l’unico vero rischio di una crisi finanziaria più ampia veniva dal frenetico ritiro dei fondi immobiliari.

Il quadro d’insieme dei mercati finanziari vi dice quanto segue.

La Gran Bretagna, all’interno dell’Unione Europea, era diventato un magnete che attirava i capitali finanziari speculativi internazionali.

Dato il ruolo impareggiabile di Londra come porta d’accesso finanziaria verso l’Europa, nella capitale e nei comuni limitrofi si era verificata una frenetica corsa speculativa ad acquistare proprietà. Le banche britanniche canalizzavano i capitali speculativi dall’estero, e la bolla finanziaria-immobiliare era diventata una caratteristica fondamentale dell’economia britannica. Credendo che la bolla fosse lì per restare, perfino gli oligarchi russi e i miliardari indiani pensavano che questa follia fosse un investimento sicuro.

Silenziosamente ma pericolosamente, la bolla speculativa aveva fatto elevare il valore della sterlina, rendendo la moneta britannica sopravvalutata per tutti gli altri settori dell’economia britannica. La Gran Bretagna, letteralmente, stava vivendo coi giorni contati.

È vero che, con una sterlina sopravvalutata, i cittadini britannici potevano acquistare beni e servizi dall’estero a un prezzo minore. Tuttavia i produttori britannici perdevano competitività sia sul mercato interno che su quello estero. Gli incentivi a investire, per i produttori, diventavano dunque sempre più scarsi, portando a un declino nella produttività della Gran Bretagna. E questo a sua volta ha portato a un ampio deficit nelle partite correnti.

Da un punto di vista puramente aritmetico, i cittadini britannici non erano affatto più ricchi prima della Brexit. Al contrario, prima stavano vivendo al di sopra dei propri mezzi.

Le persone potevano usare la forza della sterlina per acquistare vacanze a un prezzo più basso, ma come paese la Gran Bretagna stava spendendo più di quanto producesse e, in questo processo, si stava indebitando con il resto del mondo.

Il debito estero britannico aveva raggiunto il 300 percento del PIL alla fine del 2014. Circa due terzi di esso era debito a breve termine – cioè debito che poteva, come effettivamente ha fatto, fuggire rapidamente.

Il FMI, che svolge questi calcoli, il 24 febbraio 2016 aveva riportato che la sterlina britannica era “sopravvalutata” probabilmente del 15 percento, mentre nel 2011 era in linea con il valore reale.

Questa situazione stava peggiorando di giorno in giorno. La valutazione del FMI quasi sicuramente sottostimava il problema. Data la sensibilità di un valore che specifica l’entità della sopravvalutazione, ufficialmente l’incentivo è quello a tenerlo il più basso possibile. Al momento della Brexit, la sterlina era in realtà sopravvalutata tra il 20 e il 25 percento.

Per questo la sensazione che i cittadini britannici fossero più ricchi grazie a una sterlina più forte era solo un’illusione. Nella misura in cui la bolla finanziaria-immobiliare stava gettando il seme di una crisi finanziaria, la Gran Bretagna stava vivendo in una pericolosa illusione.

La Brexit ha fortuitamente corretto questa lunga distorsione dell’economia britannica. Si può ora capire perché gli indici azionari siano in salita. La svalutazione della sterlina ha corretto la precedente sopravvalutazione, migliorando le prospettive di crescita dei produttori nel mercato interno.

Gli indici del mercato azionario probabilmente sottovalutano il miglioramento delle prospettive, perché su tutti loro, e specialmente sull’indice “locale”, pesa negativamente la scarsa prospettiva per le aziende interne di tipo immobiliare.

La possibile fuga di banche e imprese finanziarie dalla Gran Bretagna dovrebbe essere motivo di festeggiamento e non di ansia. Il complesso bancario-immobiliare è stato un parassita per l’economia britannica, ha creato le patologie della vulnerabilità finanziaria e della sopravvalutazione del tasso di cambio.

La Banca d’Inghilterra è tre volte colpevole. Invece che pizzicare la bolla, il governatore Mark Carney ha celebrato il boom finanziario. Nell’ottobre 2013 disse che stava preparando la Gran Bretagna ad avere un settore finanziario che “potesse superare di nove volte il PIL“.

Commentando l’idea di Carney, Martin Wolf sul Financial Times ammoniva: “Il settore bancario britannico è una macchina fortemente interconnessa la cui principale attività sta sfruttando gli asset delle proprietà immobiliari“.

Wolf ha notato che solo l’1,4 percento dei prestiti bancari avveniva a favore del settore manifatturiero. L’espansione del settore finanziario ha promosso solamente la crescita di se stesso, scrive Wolf. Peggio ancora, questa espansione ha esacerbato “la fragilità dell’economia britannica, indotta dal debito“.

Ma la Banca d’Inghilterra non è sembrata capace di agire abbastanza in fretta. Un altro recente report del FMI ci spiega che i prestiti fatti per gli acquisti finalizzati agli affitti di case e proprietà commerciali sono cresciuti a un ritmo pericoloso.

Carney, inoltre, ha fatto della discesa della sterlina l’emblema del costo della Brexit, e nel farlo ha praticamente creato un panico da “profezia che si autoavvera”. Nelle settimane prima della Brexit e in quelle successive la sua preoccupazione per il tasso di cambio ha catalizzato quella narrativa che è stata poi adottata acriticamente da media finanziari e commentatori vari.

Dopo la Brexit, i rulli di tamburo di Carney sulla necessità di proteggere l’economia attraverso minori tassi di interesse e quantitative easing erano evidentemente malaccorti. Hanno sostanzialmente fomentato la paura e fornito ben poco aiuto ai produttori in difficoltà. La politica monetaria accomodante ha, comunque, impedito che la bolla speculativa si sgonfiasse più rapidamente.

Le implicazioni politiche sono ineludibili. Il collegamento tra un ampio e crescente settore finanziario e la sterlina forte ha fatto l’interesse di pochi eletti che vivevano a Londra e nei dintorni. Gli unici che hanno davvero perso dalla svalutazione della sterlina sono stati quelli che avevano preso a prestito dollari a breve termine per investirli in proprietà immobiliari [londinesi] a lungo termine.

Il gruppo di “élite” continua a tenersi stretti i microfoni delle scelte politiche, e le sue parole riverberano nella stampa finanziaria. In tutti questi anni, però, la sterlina forte ha danneggiato la creazione di posti di lavoro e gli investimenti per la crescita della produttività. Coloro che venivano danneggiati non vivevano a Londra e non tenevano quei microfoni.

Se ci sono stati molti fattori che hanno portato al voto sulla Brexit, non potete sbagliarvi, molte persone stavano protestando per essere state lasciate fuori dal tavolo dove ci si spartiva la torta economica.

Se la sterlina è sopravvalutata di circa il 20 percento, allora la confusione su qualche ridicolo punto percentuale di costo dei dazi dopo l’uscita dall’Unione Europea è davvero fuori luogo.

La sterlina si è svalutata di circa il 15 percento dopo la Brexit. Deve ancora svalutarsi del 5, forse del 10 percento, prima di stabilizzarsi ad un tasso di cambio attorno a 1,1 dollari per sterlina.

Anziché imporre dei costi a lungo termine la Brexit potrebbe dunque, tramite il riallineamento del valore della sterlina, aiutare ad accrescere il commercio e la produttività britannica.

E se l’intento del Primo Ministro Theresa May di fare più investimenti nell’istruzione avrà davvero seguito, la Brexit potrebbe spezzare la passata situazione politica di stallo e redirigere l’economia verso un percorso più sano e sostenibile.

In Europa 3 milioni di siti contaminati

Fonte: http://www.terranuova.it/News/Ambiente/In-Europa-3-milioni-di-siti-contaminati

Sono 3 milioni in Europa i siti potenzialmente contaminati anche se, in assenza di una legislazione specifica a livello europeo, non esistono dati puntuali. Il problema era già emerso in occasione della pubblicazione del rapporto del Centro comune europeo di ricerca del suolo. Un problema di dimensioni così vaste può essere risolto solo con scelte drastiche e incisive.

Contrariamente a quanto viene ordinariamente percepito, il suolo non è una risorsa rinnovabile. Nei climi temperati occorrono circa 100 anni per formare 1 centimetro di terra che deve anche essere mantenuta sana per garantire la produzione alimentare e un’adeguata qualità di vita.
La situazione mondiale del suolo presenta diverse criticità, destinate ad aumentare considerevolmente nei prossimi anni.

Attualmente, a livello mondiale, solo il 15% è utilizzabile per usi alimentari, ma tale percentuale continua a diminuire. Per contro, si stima che al 2050, quando la popolazione mondiale raggiungerà i 9 miliardi di persone, la domanda di suolo per la produzione di alimenti, mangimi e fibre aumenterà del 70%.

In Europa, secondo il Rapporto del Centro comune di ricerca del suolo in Europa, il consumo attuale è di circa 250 ettari al giorno a danno in prevalenza delle aree coltivabili. Aumentano anche i tassi di impermeabilizzazione, erosione e contaminazione, la perdita della biodiversità, la diminuzione di materia organica.

Si stima che siano circa 3 milioni i siti potenzialmente contaminati anche se, in assenza di una legislazione specifica a livello europeo, non esistono dati puntuali.

Ad oggi, il processo di caratterizzazione e risanamento che è in corso ha individuato circa 115.000 siti, le cui superfici vanno dai pochi metri quadrati delle stazioni di servizio alle decine di chilometri dei grandi siti industriali, dei quali il 46% sono già stati risanati.

«Tra i 29 casi presi in esame dal Rapporto, c’è la bonifica di Porto Marghera (VE) e lo studio per la valutazione dei rischi dell’area del comune di Portoscuso (CI) – spiega Arpat citando il rapporto – Porto Marghera, che ospitava un impianto di Enichem Agricoltura per la produzione di concimi chimici, è un sito di importanza strategica per la città di Venezia, sia per la sua collocazione a 5 km di distanza dalla Città, sia per la vicinanza ai maggiori nodi di comunicazione. Da tempo dismesso e identificato come area industriale in declino ha avuto accesso ai finanziamenti europei per oltre 30 milioni di euro gestiti dalla Regione del Veneto. La fase di caratterizzazione del sito è iniziata tra il 1995 e il 1996 e alcuni lavori sono iniziati subito, ma gli studi sono continuati per diversi anni a causa della complessità delle indagini e delle varie e diverse tipologie di contaminazioni del suolo e delle acque derivate da attività particolarmente inquinanti. Il progetto è partito con le demolizioni nel 1998 e nella seconda metà degli anni ’90 è iniziata la riconversione durata circa dieci anni fino all’accordo di programma del 2012 che ha dato il via alla rivitalizzazione economica dell’intera area industriale di Porto Marghera. L’area bonificata, i cui edifici sono stati ristrutturati mantenendo le parti storiche secondo i criteri dell’archeologia industriale, ora ospita VEGA, un parco scientifico e tecnologico no profit realizzato da trentaquattro membri, tra cui il Consiglio comunale di Venezia che detiene la maggioranza delle azioni, il Gruppo ENI, l’Agenzia per l’Innovazione della Regione Veneto, la Provincia di Venezia e le due Università veneziane».

Quasi tutti gli esseri umani non africani risalgono alla stessa migrazione

Fonte: http://www.sciencemag.org/news/2016/09/almost-all-living-people-outside-africa-trace-back-single-migration-over-50000-years
Fonte e traduzione: https://ilfattostorico.com/2016/09/30/quasi-tutti-gli-esseri-umani-non-africani-risalgono-alla-stessa-migrazione/

Eske Willerslev (a sinistra) incontra gli anziani aborigeni durante la sua ricerca (Science)

Eske Willerslev (a sinistra) incontra gli anziani aborigeni durante la sua ricerca (Preben Hjort, Mayday Film)

Tre nuovi studi genomici hanno delineato un preciso quadro su come gli esseri umani si diffusero sul pianeta.

Dall’Africa, la culla dell’Homo Sapiens, gli uomini probabilmente migrarono più volte in diverse ondate, ma fu soltanto una la migrazione da cui tutti gli euroasiatici viventi oggi discendono: avvenne tra i 50.000 e i 60.000 anni fa, e ci ha dato più del 90% della nostra ascendenza.

Le ricerche sottolineano inoltre la grande particolarità degli aborigeni australiani: sono loro il popolo geneticamente più antico della Terra, praticamente immutato da circa 50.000 anni. Non a caso l’Autralia conserva alcune delle testimonianze più antiche dell’Homo Sapiens al di fuori dell’Africa.

Un anziano aborigeno spiega gli antichi costumi ai ragazzi a Mudjawakalal, in Australia (Penny Tweedie/Alamy Stock Photo)

Un anziano aborigeno spiega gli antichi costumi ai ragazzi a Mudjawakalal, in Australia (Penny Tweedie/Alamy Stock Photo)

Una vecchia teoria

Diversi ricercatori avevano proposto che gli antenati degli aborigeni furono i primi uomini moderni a migrare fuori dall’Africa, diffondendosi rapidamente verso est lungo le coste dell’Asia meridionale, migliaia di anni prima che una seconda migrazione popolasse l’Eurasia.

Eppure le cose non stanno così, almeno stando a tre nuovi studi genomici – i primi ad analizzare molti genomi completi dall’Australia alla Nuova Guinea. La loro conclusione è che gli aborigeni e la maggior parte degli euroasiatici dicendono da un singolo gruppo di esseri umani che lasciò l’Africa tra i 50 e i 60.000 anni fa, e che poi si diffuse in varie direzioni. Gli studi “sono veramente importanti”, dice il genetista della popolazione Joshua Akey dell’Università di Washington a Seattle. «Gli antenati della grande maggioranza degli odierni non-africani risalgono a una singola migrazione fuori dall’Africa», dice.

Ma il caso non è chiuso. Uno studio sostiene che nel genoma degli odierni nativi della Papua Nuova Guinea ci siano tracce di una migrazione di Homo Sapiens ancora precedente. E forse non c’è contraddizione, dice l’archeologo Michael Petraglia del Max Planck Institute per la Scienza della storia umana di Jena (Germania), co-autore di quello studio che a lungo aveva sostenuto una prima espansione fuori dall’Africa. «Stiamo convergendo verso un modello nel quale le migrazioni più recenti soppiantarono quelle più antiche», dice.

I nuovi genomi

Un decennio fa, alcuni ricercatori proposero la controversa idea che una prima ondata di uomini moderni lasciò l’Africa oltre 60.000 anni fa attraverso una cosiddetta via costiera o meridionale. Queste genti sarebbero partite dall’Etiopia, passando il Mar Rosso nel punto più stretto e arrivando nella penisola arabica, muovendosi poi rapidamente verso est lungo la costa sudasiatica fino all’Australia. Alcuni studi genetici, molti fatti col DNA mitocondriale delle persone viventi, avevano supportato questa teoria indicando una divisione – relativamente antica – tra gli aborigeni e gli altri non-africani. Ma le analisi degli interi genomi – il vero punto di riferimento per gli studi della popolazione – erano scarse per quanto riguardava molte zone chiave del mondo.

Tre grandi gruppi di genetisti hanno provveduto a ciò, aggiungendo ai database centinaia di genomi completamente sequenziati di persone da Africa, Australia e Papua Nuova Guinea. Ogni team ha usato dei complessi modelli al computer e analisi statistiche per interpretare la storia della popolazione usando il DNA.

I tre studi

Un team diretto dal genetista evolutivo Eske Willerslev dell’Università di Copenhagen si è concentrato su Australia e Nuova Guinea, una ricerca che Akey chiama “il punto di riferimento” sulla colonizzazione dell’Australia. Comparando i genomi di vari gruppi, hanno concluso che gli aborigeni si separarono dagli euroasiatici tra i 50 e i 70.000 anni fa, dopo che questo gruppo si era già differenziato dagli africani. Ciò vuol dire che gli aborigeni e le altre popolazioni non-africane discendono dalla stessa migrazione fuori dall’Africa, e che l’Australia all’inizio venne insediata una volta sola, invece che due volte come alcune prove avevano suggerito in precedenza. Gli schemi nel DNA aborigeno indicano anche un ‘collo di bottiglia’ genetico di circa 50.000 anni fa: è l’eredità duratura del piccolo gruppo che colonizzò per primo l’Australia.

In un’altra ricerca, un team coordinato dal genetista della popolazione David Reich dell’Università di Harvard è arrivato a una conclusione simile dopo aver esaminato 300 genomi di 142 popolazioni. «Il messaggio è che gli uomini moderni fuori dall’Africa discendono quasi completamente da una singola popolazione fondatrice», dice Reich. «Puoi escludere una precedente migrazione; la via meridionale».

Ma il terzo studio, condotto da Mait Metspalu del Biocentro Estone di Tartu, ha una conclusione diversa. Analizzando 379 nuovi genomi di 125 popolazioni in tutto il mondo, il team ha concluso che almeno il 2% dei genomi della popolazione della Papua Nuova Guinea proviene da una migrazione di Homo Sapiens dall’Africa ancora precedente, avvenuta forse 120.000 anni fa. Il loro studio propone quindi che l’Homo Sapiens abbia lasciato l’Africa in almeno due ondate.

Una prima migrazione quasi irrilevante

Reich solleva dubbi sul risultato, ma afferma che il suo studio e quello di Willerslev non possono escludere un contributo genetico dell’1 o del 2% avvenuto grazie a una precedente migrazione di Homo Sapiens. Dice Akey: “Come genetisti della popolazione, potremmo spendere il prossimo decennio a dibattere su quel 2%, ma in termini pratici non conta”. La migrazione più recente “spiega oltre il 90% della nostra ascendenza”.

Inoltre, secondo un quarto studio pubblicato su Nature, i cambiamenti del clima e del livello del mare avrebbero favorito delle precedenti migrazioni. Axel Timmermann e Tobias Friedrich dell’Università delle Hawaii di Manoa e Honolulu, hanno ricostruito le condizioni climatiche del nord-est dell’Africa e del Medio Oriente. Hanno scoperto che un clima più umido e livelli del mare più bassi avrebbero persuaso gli esseri umani a lasciare l’Africa e ad andare nella penisola arabica e nel Medio Oriente durante quattro periodi, all’incirca intorno ai 100.000, agli 80.000, ai 55.000 e ai 37.000 anni fa. “Sono molto felice”, dice Petraglia. Le sue scoperte e quelle di altri colleghi, di antichi utensili di pietra in India e Arabia, suggeriscono che gli uomini moderni avessero lasciato l’Africa durante queste prime migrazioni. Tuttavia, la maggior parte di questi lignaggi si estinsero. La migrazione più importante, quella con più persone e che arrivò in Australia, venne dopo. «Demograficamente, dopo i 60.000 anni fa successe qualcosa, con ondate più grandi di esseri umani attraverso l’Eurasia», dice Petraglia. «Tutti i tre studi concordano con questo».

Le ricerche dimostrano i legami degli aborigeni con gli altri euroasiatici, ma rinforzano anche l’insediamento, relativamente antico, dell’Australia e la sua lunga isolazione. Un caso unico nella storia umana. Il continente tiene “profonde, profonde divisioni e radici che non vediamo da nessun’altra parte eccetto in Africa”, dice Willerslev. Ciò riecheggia nelle visioni degli aborigeni stessi. «La maggioranza degli aborigeni qui in Australia crede che ci troviamo in questa terra da molte migliaia di anni», ha dichiarato a Science Colleen Wall, co-autore della ricerca di Willerslev e anziano dell’Aboriginal Dauwa Kau’bvai Nation in Wynnum. «Sono fuori di me dalla gioia per queste scoperte».

 

 

Perù: La compagnia petrolifera Pacific E&P si ritira dal territorio dei Matsés

Fonte: http://www.salvaleforeste.it/popoli-indigeni/4220-per%C3%B9-la-compagnia-petrolifera-pacific-e-p-si-ritira-dal-territorio-dei-mats%C3%A9s.html

La compagnia petrolifera canadese Pacific E&P ha annunciato il ritiro daldal territorio di una tribù amazzonica in Perù. L’impresaE&P ha annullato il suo contratto per la ricerca di petrolio di fronte all’opposizione degli Indiani Matsés.

La prospezione petrolifera è devastante per i popoli indigeni. Per individuare la posizione dei giacimenti petroliferi, il procedimento prevede l’utilizzo di esplosioni sotterranee lungo centinaia di sentieri che attraversano la foresta. Le esplosioni spaventano gli animali e li e fanno fuggire, lasciando quindi poca selvaggina da cacciare, e l’intero processo è causa di enorme disagio.

“Il petrolio distruggerà il luogo in cui nascono i nostri fiumi. Cosa succederà ai pesci? Che cosa berranno gli animali?”, ha dichiarato una donna matsés a Survival.

Buona notizia? Solo a metà infatti la Pacific E&P sta ancora progettando di condurre ricerche nelle vicinanze, in un’area dove si sa che vivono dei Matsés ancora non contattati dall’uomo bianco.

ALTRA IMPOSIZIONE UE – Sparisce l’origine del cibo dalle etichette

Scritto da: Pjmanc
Fonte : http://www.ilfattaccio.org/2016/10/07/24984/

etichette

DAL 13 DICEMBRE UN REGOLAMENTO DELLA UE TOGLIE L’OBBLIGO DI INDICARE SULLE CONFEZIONI lo stabilimento di lavorazione degli alimenti. Un regalo alle multinazionali. Che rischia di danneggiare le aziende nostrane. E di aiutare i cloni del made in Italy.

LA MOZZARELLA SANTA LUCIA FINO A OGGI E’ PRODOTTA IN ITALIA. Lo si può leggere chiaramente sull’etichetta: realizzata nello «stabilimento di Corteolona, Pavia». Tra pochi giorni le cose potrebbero però cambiare. Un regolamento europeo cancella infatti l’obbligo di indicare sulla confezione il luogo di produzione degli alimenti. In teoria ci sono due eccezioni: carne e latticini, per i quali bisognerà ancora segnalare lo stabilimento, ma non più come avviene oggi: basterà un numero a rappresentare la fabbrica. Per comprendere le conseguenze del cambiamento vale la pena di restare sull’esempio della Santa Lucia, marchio controllato dalla multinazionale francese Lactalis che, oltre a quelli italiani, ha impianti sparsi per il mondo. Ebbene, se per ipotesi la Lactalis decidesse di non realizzare più la mozzarella in provincia di Pavia, ma di spostare la manifattura all’estero, per il consumatore sarebbe praticamente impossibile saperlo. Un ragionamento applicabile a tutto il cibo.

CE LO CHIEDE BRUXELLES. Il regolamento in questione porta il numero 1169 ed entra in vigore in tutti i Paesi dell’Unione europea il 13 dicembre. L’obiettivo ufficiale è quello di «migliorare il livello di informazione e di protezione dei consumatori», si legge sul sito dell’Ue. In effetti, nelle 46 pagine del documento ci sono parecchi articoli che dovrebbero renderci la vita più facile. Per esempio, sulle etichette dei cibi non troveremo più la scritta “sodio” ma il più comprensibile “sale”. Oppure – altro esempio – dovranno esserci informazioni più chiare sulle sostanze a cui i consumatori possono essere allergici, dal glutine alle uova. Gli esperti concordano: ci sarà finalmente più trasparenza sugli ingredienti e regole uguali per tutti. Peccato solo che non sarà più garantita la conoscenza dello stabilimento di produzione. Un’informazione che in Italia, finora, è stato obbligatorio indicare: lo prevede la legge 109 del 1992. Con il nuovo regolamento europeo la norma nazionale decadrà. E scrivere sull’etichetta il luogo in cui è stato lavorato l’alimento diventerà facoltativo. «È un regalo alle multinazionali, che potranno così spostare le produzioni in Paesi dove la manodopera costa meno senza che il consumatore se ne accorga», sostiene Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare.

IL MISTERO S’INFITTISCE. Già oggi, in realtà, parecchi prodotti provenienti da altre nazioni non riportano sulla confezione il luogo di lavorazione. Basta fare un giro al supermercato per rendersene conto. Capire dove sono stati realizzati i cereali Fitness, ad esempio, è impossibile. Sulla scatola l’unica informazione comprensibile è questa: «Distribuito da Nestlé Italia Spa», la multinazionale svizzera con ramificazioni in tutto il mondo. In quale Paese sono stati lavorati i cereali? Mistero. Dal 13 dicembre sarà così anche per le produzioni italiane. Il regolamento comunitario prescrive infatti di riportare sulla confezione solo il nome del proprietario del marchio. E sono in molti a credere che il cambiamento risulterà svantaggioso per chi va a fare la spesa. Il governo che fa? Il Movimento 5 Stelle ha presentato un’interrogazione al ministero dello Sviluppo economico per chiedere di mantenere l’obbligo d’indicare sull’etichetta il luogo di produzione. «Per operare in tal senso occorre una specifica norma di legge o una delega al governo in materia di etichettatura», ha risposto il viceministro Claudio De Vincenti, aggiungendo però che al momento «non appare possibile adottare i provvedimenti richiesti per assenza di una fonte primaria che li preveda». Insomma, per ora niente da fare, in futuro si vedrà. Intanto nel settore alimentare le preoccupazioni aumentano. Questione economica, soprattutto. L’indicazione dello stabilimento, si legge infatti nell’interrogazione dei Cinque Stelle, «serve ai singoli consumatori per scegliere un alimento rispetto a un altro anche in considerazione del Paese o della regione dove è prodotto». Traduzione: se voglio premiare le aziende che non delocalizzano, come faccio se non conosco il luogo di produzione?

RISCHI PER IL MADE IN ITALY. La questione suscita i malumori di parecchie imprese nostrane. Alla Sterilgarda, 280 dipendenti, tra i maggiori produttori di latte in Italia, la paura è di perdere quote di esportazioni. Ferdinando Sarzi, titolare dell’azienda mantovana, dice di essere appena tornato da un viaggio di lavoro negli Stati Uniti: «Lì il made in Italy continua ad andare fortissimo, ma adesso che non sarà più obbligatorio indicare lo stabilimento di produzione qualcuno, per esempio chi ha sede legale da noi ma fabbriche all’estero, potrebbe approfittarne per vendere come italiano ciò che in realtà viene lavorato fuori». Insomma, le nuove regole potrebbero agevolare i prodotti “italian sounding”, quelli che attraverso nomi o simboli stampati sulla confezione rimandano a una presunta italianità. Un fenomeno che, secondo le ultime stime del governo, vale già oggi circa 55 miliardi di euro, quasi il doppio delle esportazioni alimentari nostrane.

CHI CI GUADAGNA. Sterilgarda è solo una delle tante imprese ad aver firmato la petizione per opporsi all’entrata in vigore del regolamento europeo. L’idea è stata di Raffaele Brogna, 32enne fondatore di ioleggoletichetta.it, un sito che cerca di aiutare chi fa la spesa con informazioni sull’origine dei prodotti. Brogna ha avviato una raccolta di firme che finora ha raccolto circa 20 mila adesioni tra cittadini privati e gruppi dell’agroalimentare. «Dalla nostra parte stanno le aziende che producono tutto in Italia», dice Brogna, «non certo colossi come Unilever, Nestlé o Carrefour che hanno stabilimenti in tanti Paesi e possono beneficiare del nuovo regolamento». Le imprese che hanno firmato la petizione si sono impegnate a mantenere l’indicazione dello stabilimento di produzione. Tra queste ci sono pure alcune catene di supermercati, visto che negli ultimi anni anche in Italia si sono sviluppate parecchio le cosiddette private label, cibi marchiati con lo stesso simbolo della catena distributiva. «Noi continueremo a chiedere ai nostri fornitori d’indicare lo stabilimento, così che il consumatore possa essere certo che quel cibo ha creato lavoro in Italia», assicura ad esempio Giuseppe Zuliani, direttore marketing della Conad.

MOZZARELLA LITUANA. Se è vero che le nuove regole europee renderanno difficile, se non impossibile, capire dove è stato lavorato un alimento, già oggi l’origine del cibo è abbastanza misteriosa. Secondo i calcoli della Coldiretti, il 33 per cento dei prodotti agroalimentari “made in Italy” contiene infatti materie prime straniere. Già, perché in parecchi casi non è obbligatorio indicarne la nazione di provenienza. Qualche esempio? Basta dare un’occhiata al grafico riportato nelle pagine precedenti. Due prosciutti su tre, venduti come italiani, sono frutto di maiali allevati all’estero, soprattutto in Germania. Un terzo del grano usato per fare la pasta arriva dal Canada. E la metà delle mozzarelle che compriamo è prodotta con latte straniero, per lo più tedesco e lituano. Il nuovo regolamento europeo, in realtà, qualche miglioramento in questo senso dovrebbe portarlo. «Sarà obbligatorio indicare sulla confezione il Paese d’origine della carne di maiale, capra e pollo», dicono dal ministero dell’Agricoltura, precisando che questo risultato è frutto delle pressioni dell’Italia in sede europea. Altre nazioni, evidentemente, hanno spinto affinché l’Ue togliesse l’obbligo di indicare sulle confezioni lo stabilimento di produzione. E così, dal 13 dicembre, sapere dove è stato lavorato ciò che stiamo mangiando diventerà ancora più difficile. A meno che il governo, alla fine, decida di fare una nuova legge in difesa del made in Italy.