La deforestazione è causata dal profitto, non dalla povertà

Fonte:http://www.salvaleforeste.it/201107131479/alla-radice-problema-la-vera-causa-della-deforestazione-ai-tropici.html

Parola di scienziati: l’alternativa non è tra la fame e la deforestazione. Infatti non sono i contadini poveri a minacciare le foreste, ma le grandi multinazionali in cerca di facili profitti. Lo annuncia un rapporto scientifico, sfatando uno dei miti degli ultimi decenni. La deforestazione è una delle principali cause del cambiamento climatico. E vale tanto per la deforestazione vera e propria, l’abbattimento di tutti gli alberi, che per il degrado, che mantiene il manto forestale, ma provoca rilascio di carbonio. Per questo è cruciale capire le cause della deforestazione. Uno studio pubblicato dalla Union of Concerned Scientists, spiega come i fattori trainanti della deforestazione sono radicalmente mutati nel ventunesimo secolo.

Per molti anni, la deforestazione tropicale è stata attribuita alla crescita della popolazione: all’espansione dell’agricoltura di sussistenza ai danni della foresta e alla raccolta di legna da ardere. Ma molti recenti studi scientifici dimostrano come i principali fattori trainainti della deforestazione tropicale siano  le grandi imprese del legno, della carta e dell’agri-business, che da sole sarebbero responsabili di circa il 15 per cento di inquinamento del riscaldamento globale in tutto il mondo.

Le cause della deforestazione differiscono da regione a regione: soia e bestiame sono cruciali in Sud America, mentre legno, carta e olio di palma sono più importanti nel Sud-est asiatico.

Ecco alcuni dei fattori più importanti:

Soia: Negli ultimi due decenni la coltivazione di soia in Amazzonia ha subito una profonda trasformazione. In pochi anni, è cresciuta fino a diventare uno delle cause principali della deforestazione amazzonica, ma una moratoria volontaria sulla recente espansione della soia nelle foreste in Brasile, sta mitigando questo fattore.

Bovini e pascoli: utilizzo di bestiame per produrre cibo carne richiede grandi quantità di terreno per produrre quantità relativamente piccole di cibo. Da quando gli allevatori hanno abbattuto le foreste per farne pascoli, il bestiame e i loro pascoli sono divenuti un importante motore della deforestazione in Sud America.

Legno e carta: Il mercato globale dei prodotti in legno e legno crea pressione sui paesi tropicali per distruggere le loro foreste e produrre legname e cellulosa a basso costo. Questa domanda ha incrementato la pressione sulle foreste tropicali ed è una delle principali cause della deforestazione. Se la domanda di mobili, carta, materiali da costruzione, e altri prodotti in legno continuerà ad aumentare, le foreste tropicali primarie saranno probabilmente destinate all’abbattimento.

Olio di palma: produzione di olio di palma raddoppiata nel giro di dieci anni, e continua a crescere, dominando il mercato globale per olio vegetale. La maggior parte dell’olio di palma è prodotto in grandi piantagioni industriali, la cui espansione ha distrutto grandi aree di foresta pluviale in Indonesia e Malesia. L’area delle piantagioni di olio di palma nel Sud-est asiatico è triplicato in appena un decennio.

La domanda di questi prodotti è globale e proviene principalmente nelle aree urbane.
Le recenti iniziative per affrontare alcune delle cause della deforestazione, come la pressione per cambiare l’industria della soia in Brasile, si sono rivelate un successo, mostrando come la deforestazione possa essere rallentato e fermato anche nei prossimi decenni.

Per fermare la deforestazione è necessario contenere la crescita della domanda di materie prime che la provocano. Sarà quindi necessario aumentare la produttività dei terreni già in uso e dirigere l’espansione dell’agricoltura verso aree già degradate, piuttosto che verso le foreste. La diffusione della produzione di biocarburanti, il che minaccia di creare una domanda di deforestazione non legata al cibo, potrebbe creare nuove e più forti pressioni sulle foreste tropicali. Ma se i recenti successi saranno replicati e diffusi in altri paesi tropicali, si può immaginare la fine della deforestazione nei prossimi decenni. Si tratterebbe di un successo di portata storica.

Libia, l’inversione di Parigi

Scritto da: Alberto Tundo
Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo/29404/Libia%2C+l%27inversione+di+Parigi

“E’ stato ampiamente dimostrato che non c’è alcuna possibilità con il ricorso alla forza. Abbiamo sollecitato le due parti a parlarsi, secondo noi è giunto il momento di sedersi attorno a un tavolo”. La notizia è che queste parole non le ha pronunciate il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon o un alto rappresentante di una di quelle potenze che la guerra in Libia l’hanno subita più che voluta, come Russia e Cina. Le ha dette Gerard Longuet, il ministro della Difesa francese, rappresentante di quel governo che i bombardamenti li volle a tutti i costi, dello stesso Paese che fu il primo a inviare i suoi bombardieri. La Francia ha cominciato “i giochi” e la Francia adesso invita coloro che le sono andati dietro a chiuderli. Eppure, solo a metà maggio il presidente francese Nicholas Sarkozy ribadiva che con il Colonnello Muhammar Gheddafi non si può trattare. Solo una settimana fa, i partner europei apprendevano con sorpresa e fastidio che i francesi paracadutavano armi alle formazioni ribelli che combattono sotto l’ombrello del Consiglio nazionale di transizione. Ma Parigi ha fatto un’inversione a U, abbracciando la diplomazia e sconfessando l’opzione militare.

Ribadire per l’ennesima volta che, quando a marzo la Francia dichiarò guerra al regime libico, avesse in mente tutto tranne che la sorte della popolazione, è necessario soffermarsi su alcuni retroscena rivelati questa mattina dal figlio del Colonnello, nonché portavoce del regime, Saif al Islam, dalle colonne del quotidiano algerino El Khabar. Precisazione d’obbligo: in guerra la disinformazione è uno strumento prezioso ed è verosimile che alcune dichiarazioni tendano ad aprire crepe all’interno della coalizione ma alcune coincidenze sembrano confermare la veridicità delle sue rivelazioni. Saif ha spiegato che la Francia avrebbe fatto capire agli emissari del Colonnello che è inutile che trattino con i ribelli del Cnt, perché quest’ultimo è un organo fantoccio, tenuto in piedi dalle armi e dai soldi di Parigi. Qui si sarebbe recato un inviato speciale di Gheddafi che dallo stesso Sarkozy si sarebbe sentito rivelare il segreto di pulcinella: se volete la pace, è a noi che dovete chiederla e soprattutto è a noi che dovete pagarla. Questo il senso del messaggio. Sarkozy, inoltre, perché tutto fosse ancora più chiaro, avrebbe mostrato all’emissario libico un elenco di futuri ministri, “tutti uomini della Francia”, da includere in un futuro governo di transizione al quale i francesi starebbero lavorando. Per fugare ogni dubbio, ha aggiunto che il sostegno garantito dai francesi ai ribelli si spiega “col nostro rifiuto di comprare caccia Rafale e di permettere alle compagnie francesi di estrarre petrolio nel nostro Paese”.

E in tutto questo dov’è e quanto conta l’Italia, l’ex potenza coloniale, che in Libia ha enormi interessi? A quanto pare, meno di zero. Che Roma sia la vera sconfitta di questa strana guerra lo si capisce rispondendo ad un’ultima domanda finale: come mai, proprio adesso, Parigi si è decisa ad ammettere che questo tipo di intervento non produrrà risultati? Forse perché i risultati cui la Francia mirava non avevano nulla a che fare con la cacciata di Gheddafi, e sono già stati ottenuti. Si torna sempre al petrolio: illuminante quella dichiarazione con cui i ribelli, il 29 giugno, hanno annunciato la revisione dei contratti petroliferi firmati dal vecchio regime: “Ci comporteremo di conseguenza, premieremo quei Paesi che ci sono stati vicini e ci ricorderemo di quelli che ci hanno voltato le spalle”. In Libia, una delle compagnie meglio inserite e più potenti era proprio l’Eni, proprietaria di giacimenti per un’estensione di 8500 chilometri quadrati, dai quali ricavava 244 mila barili di petrolio al giorno, su una produzione giornaliera totale pari a un milione e mezzo di barili. Per non parlare poi delle riserve: 46 milioni di barili che fanno della Libia il Paese con le maggiori riserve mondiali dopo l’Arabia Saudita. Ottenute alcune importanti concessioni, e ancora più importanti promesse, la guerra non serve più.

Parigi, con molta abilità, ha giocato su due tavoli, ha dato una struttura politica a quelli che fino a qualche settimane fa erano soltanto degli straccioni in fuga, li ha armati e sostenuti mentre allo stesso tempo li usava con Tripoli come strumento di pressione. Il calcolo probabilmente ha funzionato. Sia Gheddafi che i suoi nemici si ricorderanno di Parigi. D’altronde Saif al Islam l’ha detto chiaramente: “Le vere trattative sono quelle con la Francia“. Il governo francese ha smentito che siano in corso trattative dirette, precisando di aver fatto arrivare messaggi al regime libico in accordo con il Cnt e gli alleati. Dell’Italia, della sua politica ondivaga, dei baciamani e delle bombe tirate con riluttanza, del “ci siamo, ma facciamo finta di non starci” nessuno si ricorderà volentieri, perché a Tripoli come a Bengasi nessuno ha mai saputo cosa farsene.

La Dittatura europea

Fonte: http://bur.rcslibri.corriere.it/libro/4542_la_dittatura_europea_magli.html

L’Europa doveva abolire la storia. La storia ha abolito l’Europa.
Lucio Caracciolo

L’Unione Europea, proposta più di cinquant’anni fa come un grande passo verso il futuro, nel 2007 ci è stata imposta come un processo giusto e inesorabile.
Oggi, i risultati sono davanti agli occhi di tutti, eppure in molti faticano a vederli, perché ormai la macchina degli interessi politici ed economici che l’ha messa in moto ha censurato le coscienze anche degli italiani, che accettano l’Unione come un dato di fatto, e con essa la perdita dell’identità nazionale, così come diversi diritti personali.
In questo personalissimo e forte pamphlet, Ida Magli, tra le prime e più autorevoli oppositrici dell’Unione, risale all’origine di questo disastro, andando a cercare, nella storia e nei suoi incontri, i principali colpevoli, senza sconti a nessuno, dalla cattiva politica alla Chiesa, dagli intellettuali pavidi ai banchieri pronti a imporre su tutti la loro legge. Il risultato è la storia di come un progetto nato solo sulle carte geografiche ha contribuito a renderci più poveri, meno sicuri, e certamente meno liberi.

Mentre l’unione mostra la sua inutilità, la politica tace.
La più irriducibile avversaria di Maastricht racconta le storie, i dati, le testimonianze, di come il sogno comunitario ci stia togliendo la libertà.

Crimini di guerra mediatico-giudiziaria

Scritto da:Giancarlo Chetoni
Fonte: http://byebyeunclesam.wordpress.com/

A distanza di un mese e passa dal primo attacco di elicotteri Apache finalizzato alla distruzione di centri comunicazione e radar in prossimità di Marsa el Brega, in Libia la situazione sul terreno è rimasta pressoché immutata.
Le forze di Gheddafi in Cirenaica continuano a mantenere sia il controllo di questo terminal energetico, di importanza strategica, posizionato a 800 km da Tripoli, che di ampie zone del territorio circostante fin sotto Ajdabiya.
L’ultima strage dall’aria, quindici morti tra i residenti, è arrivata a ridosso del porto della Cirenaica, nel centro città, nelle stesse ore in cui è uscita allo scoperto un’altra clamorosa balla sulle travolgenti avanzate dei ribelli del CNT lanciate alla conquista del compound di Bab al Azizia per consegnare Gheddafi, come hanno solennemente promesso, alla CPI dell’Aja.
L’ha raccontata il 27 Giugno alla Reuters, tramite telefono cellulare (!), il solito testimone creato dal nulla che questa volta ha assunto il nome di Juma Ibraim.
Il “suo“ racconto è arrivato dalla periferia sud di… Bir el Ghanam.
La “notizia“ è rimbalzata nel Bel Paese con l’Ansa. La diffusione della flagrante patacca su giornali e tv è stata tanto capillare da trovare spazio anche su quotidiani come Il Sole 24 ore e Milano Finanza.
Ci siamo presi la briga di andare a vedere su Google Earth dove si trovasse questo nuovo caposaldo dato nelle mani dei “sostenitori“ di Re Idris.
E’ un villaggio abbandonato di qualche decina di abitazioni, posizionato ad ovest di un tracciato in ambiente desertico a 87 km da Tripoli, difficilissimo da raggiungere, a ridosso com’è di una invalicabile catena collinare di sabbia.
Il 29 Giugno, Le Figarò darà notizia di altre armi paracadutate dalla Francia di Sarkozy a “formazioni di irregolari“ a Misurata, Nalut, Tiji, al Javash, Shakshuk e Yafran, precisando la natura dei “vettovagliamenti“ dall’aria: denaro, logistica, lanciarazzi, fucili d’assalto, mitragliatrici e missili anticarro Milan.
In realtà, al momento, di ribelli lanciati alla conquista di Tripoli non se ne vedono da un pezzo. Rimangono sulla difensiva in Cirenaica solo esigue formazioni “fluide“ di tagliagole, attestate ai margini della Litoranea, oltre i 30‘ nord e i 20‘ sud, pronte a innestare le marce avanti dei pick-up per qualche centinaio di metri nelle ore immediatamente successive ai bombardamenti della NATO e a ingranare le retromarce nei momenti di pausa tra uno strike e l’altro.
Una sorta di claque, vestita di un pagliaccesco criminale, usata fin dalla prima settimana di Marzo per dare credibilità a una rivolta popolare “repressa nel sangue dalle forze di Gheddafi“, capace di giustificare un “intervento umanitario“ dall’esterno e di portare a maturazione il progetto di Stati Uniti ed Europa di destabilizzare, con l’esplicito appoggio di Ban Ki Moon, uno Stato sovrano.
Metodo già ampiamente adoperato dall’Alleanza Atlantica in Kosovo con il sostegno economico, politico, militare e politico offerto all’UCK, compreso l’addebito di stragi di migliaia di “albanesi“ a Belgrado, per poi giustificare a livello di “comunità internazionale“ la devastante aggressione alla Serbia di Milosevic.
Nonostante il portavoce di Unified Protector Mike Bruken computi a oltre 7.000 le missioni aeree di attacco al suolo, di protezione e sorveglianza aerea effettuate sulla Jamahiryia ed elenchi, con dovizia di particolari, le perdite inflitte dai cacciabombardieri della NATO all’esercito del Rais, al momento, non ci sono notizie di ritiro, confermate da inviati e osservatori indipendenti, dei “lealisti“ di Tripoli dalle posizioni tenute sul campo.
La morte del figlio minore Saif Al Arab e dei suoi tre nipotini, Cartago di 3 anni, Saif di 2 e Mistura di 2 mesi, seppelliti sotto le macerie dalle bombe della NATO, è riuscita a cementare intorno a Gheddafi un’autentica solidarietà popolare.
Gli elicotteri d’attacco Linx, Gazzelle, Apache e Tiger di Francia e Gran Bretagna per ora non hanno prodotto sul campo i risultati che si aspettavano sia il segretario Rasmussen che il generale canadese Charles Bouchard, capo, dalla sede di Napoli, di Unified Protector.
La risposta va cercata nella disponibilità da parte delle forze libiche di ben 2.600 missili SA-14, 16 e 24 e da un numero elevatissimo di piattaforme mobili, con elevata capacità di sopravvivenza, di sistemi antiaerei e antimissile che fanno, o hanno fatto, della Jamahiryia un osso particolarmente duro, ben al di là delle aspettative della NATO, da vincere sul terreno.
Esaminando in dettaglio, in numero e qualità, i mezzi della difesa aerea della Libia siamo rimasti semplicemente di stucco.
La Russia di Putin ha fatto in tempo a fornire al Rais sia i temutissimi sistemi SA-300 V (SA-12 B Giant) a lungo raggio che batterie a breve di altrettanto modernissimi Tor-M1 (SA-15) Gauntlet, oltre a decine di SA-9 Gaskin e SA-13 Ghoper. Senza la pioggia di Tomahawk (tra i 500 e i 600 sui 110 ammessi ufficialmente) lanciati da sommergibili e incrociatori di Gran Bretagna e USA, le perdite aeree di Odissey Dawn sarebbero state particolarmente elevate.
Basterà un dato su tutti a smentire clamorosamente la notizia diffusa dopo il 17 Marzo dal ministro della Difesa La Russa sull’impossibilità da parte libica, assicuratagli dai suoi consulenti militari, di poter colpire il “nostro“ territorio metropolitano. Una storiella ripetuta, con enorme irresponsabilità, anche dal Presidente del Consiglio a Lampedusa per tacitare le preoccupazioni dei residenti su possibili azioni di ritorsione di Gheddafi.Tripoli possiede ancora, presumibilmente in parte, o possedeva ben 417 missili terra-terra R-17 (Scud C SS1), con una gittata compresa tra i 500 e i 600 km e 80 giganteschi lanciatori mobili 9 P-117 Uragan.
Le immagini degli R-17 mostrati in pubblico nella sfilata di Tripoli del 2010 sono ancora fruibili su Youtube.
Una “missione“, quella contro la Jamahiryia, che fin dalle prime battute definimmo sfiatata, affetta da tubercolosi, esaminandone in via breve gli assets aerei dopo il disimpegno del dispositivo d’attacco USA. La Repubblica delle Banane contribuisce con F-16, EFA-2000, Tornado IDS ed ECR e AV-8 B Harrier II, una portaerei, 4 tra pattugliatori e fregate e 3 navi appoggio. Le uscite finanziarie del Bel Paese per alimentare la guerra alla Libia si aggirano sui 235-240 milioni di euro mensili, cifra ben maggiore rispetto a quelle, poco credibili, dichiarate dal governo, in sede di approvazione del decreto semestrale per le missioni militari all’estero.
Il 10 Giugno, alla vigilia del suo abbandono, Robert Gates in una relazione al Comando Generale di Bruxelles, presenti tutti i ministri degli Esteri e della Difesa della NATO è stato durissimo con i partners degli USA. “… è dolorosamente chiaro – ha dichiarato – che l’Alleanza Atlantica ha enormi lacune nella capacità e nella volontà di perseguire un necessario obiettivo comune. Mancano inoltre i mezzi per condurre una campagna aerea e marittima integrata, efficace e prolungata. Unified Protector può contare solo su 42 aerei d’attacco al suolo e da bombardamento oltre a manifestare gravi, inammissibili carenze di approvvigionamento nel munizionamento di precisione. Ogni Paese aderente ha votato per la missione in Libia. Partecipano alle operazioni meno della metà degli Stati aderenti. E meno di un terzo si è dimostrato disposto a partecipare ai bombardamenti…“. Norvegia e Olanda dal 30 Giugno ritireranno i loro F-16, la Svezia farà altrettanto con i Gripen. Insomma, di fatto, l’Alleanza Atlantica è in vistoso debito di ossigeno e barcolla come un pugile suonato contro un Paese, certo non irresistibile come, la Jamahiryia del colonnello Gheddafi.
Misurata rimane sotto stretto assedio e a Bengasi il CNT subisce durissime perdite di dirigenti politici e di addetti alla sicurezza della Coalizione.
Derna pullula ormai da tempo di sospettissimi “combattenti afghani“ già detenuti a Guantamano.
Lo stesso titolare della Farnesina ha mancato un appuntamento a Bengasi con due cariche di esplosivo al plastico per un anticipo di 24 ore. In più, si contano ormai a decine le figure rappresentative del CNT “eliminate“ dalla contro guerriglia organizzata da Al Senussi. “Rats Council attacked in Bengazi, British, American, French Invaders killed “
L’oscuramento satellitare, della Jana e i bombardamenti sulla sedi radio e tv della Jamahiryia non sono sufficienti a impedire che dispacci di agenzie come Mathaba News raggiungano decine di migliaia di internauti in tutto il mondo, alimentando un’efficace controinformazione.
La nuova “emergenza“ ha costretto Frattini ad annullare un summit a Roma con “qualificate rappresentanze“ della Cirenaica che si volevano spacciare per personaggi politici di spessore e dignitari religiosi appartenenti all’intera Libia.
Un altro tentativo miseramente fallito dopo la messinscena di riunire in un albergo alla periferia della Capitale i capi militari della “rivolta“, che non è andato più in là dal mettere intorno ad un tavolo sette-otto vecchi arnesi doppiogiochisti passati per danaro o per evitare incriminazioni della CPI dalla parte degli “insorti“. Un’ultima notarella sul Tribunale Internazionale dell’Aja.
Da Malabo (Africa Equatoriale) il presidente, con gli occhi a mandorla (!), della Commissione dell’Unione Africana Jean Ping ha affermato che la CPI ha emesso altri mandati di cattura che finiranno per gettare benzina sul fuoco. Il riferimento esplicito è a Gheddafi, il figlio Saif al Islam e al generale al Senussi.
“Tutti constatano – ha affermato – che la CPI si pronuncia sempre nei momenti sbagliati. A giudizio della Commissione che presiedo in rappresentanza di tutti gli Stati dell’Africa si tratta di una circostanza sospetta che merita un attento approfondimento e decisioni conseguenti“.
Dopo la visita di Stato di Omar al Bashir in Cina la Corte Penale Internazionale dell’Aja, già ampiamente screditata, finirà per contare sempre meno sulla scena internazionale.
Qualche confezione di Viagra reperita, da mani sospette, nelle torrette distrutte di due T-72 della Jamahiryia, in Cirenaica, è stata sufficiente a formulare per Gheddafi un’accusa di crimini di guerra per stupro (!).
Il procuratore Moreno Ocampo si è ucciso col ridicolo. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sono suicidati con Hillary Clinton che ne ha pubblicamente confortato le accuse.
Più mandati di cattura “internazionali” arrivano dall’Aja, più declina il potere di coercizione economico militare e politico della ex potenza planetaria

PERCHE’ DOVETTI LASCIARE IL “TIMES”

Scritto da: Robert Fisk  Fonte:  The Independent dell’11 luglio 2011
Traduzione di Gianluca Freda  Fonte: http://www.blogghete.altervista.org/j

E’ un califfo, suppongo, più o meno della varietà mediorientale.

 

Si sentono dire tutte queste cose terribili sui dittatori arabi, e poi, quando li incontri di persona, sono la quintessenza del fascino. Una volta Hafez al-Assad prese la mia mano e la tenne stretta a lungo, con un sorriso paterno. Non può certo essere così cattivo, dissi quasi a me stesso. Questo accadde molto tempo prima dei massacri di Hama, nel 1982. Re Hussein mi chiamava “Sir” e faceva lo stesso con molti altri giornalisti. In pubblico, questi potenti scherzano spesso con i loro vassalli. Gli errori si possono perdonare.

I “Diari di Hitler” furono l’errore di Murdoch, quando rifiutò di prendere in considerazione il fatto che un suo “esperto” aveva cambiato idea su quei documenti, proprio poche ore prima che il Times e il Sunday Times iniziassero a pubblicarli. Mesi dopo, ero di passaggio all’ufficio londinese del giornale poco prima di ripartire per Beirut, quando il responsabile per l’estero, Ivan Barnes, ricevette un dispaccio della Reuters proveniente da Bonn. “Aha!”, tuonò. “I diari erano falsi!”. Il governo della Germania Occidentale aveva dimostrato che dovevano essere stati scritti molto tempo dopo la morte del Führer.

Così Barnes mi spedì nell’ufficio dell’editore, Charles Douglas-Home, con la notizia arrivata dalla Reuters e lì trovai Charlie a colloquio con Murdoch. “Dicono che sono falsi, Charlie”, annunciai, cercando di non guardare verso Murdoch. Ma lo feci quando lui reagì. “Beh, eccoci qua”, commentò il boss con una risatina. “Chi non risica, non rosica”. Era molto allegro. La sua flemma era quasi ammirevole. Grande Storia. Aveva solo un piccolo problema. Che non era vera.

Stranamente, non mi apparve mai come l’orco del male, dell’oscurità e del veleno per cui si vuole farlo passare  negli ultimi giorni. Forse perché i suoi editori, sub-editori e giornalisti capivano sempre al volo ciò che Murdoch voleva dire. Murdoch era proprietario del Times quando, nel 1982, io facevo l’inviato durante la sanguinosa invasione e occupazione del Libano da parte di Israele. Dai miei reportage non venne mai tolta neanche una riga, per quanto critici essi fossero verso Israele. Dopo l’invasione, Douglas-Home e Murdoch furono invitati dagli israeliani a compiere una visita in elicottero nel Libano. Gli israeliani cercavano di gettare discredito sui miei reportage; Douglas-Home mi disse che era dalla mia parte. Sul volo di ritorno verso Londra, Douglas-Home e Murdoch si sedettero insieme. “Sapevo che Rupert era interessato a ciò che stavo scrivendo”, mi disse in seguito. “Credo che si aspettasse che gli dicessi che cos’era, anche se non me lo ha chiesto. Io non gli ho mostrato nulla”.

Ma le cose cambiarono. Prima di diventare editore, Douglas-Home scriveva per Al-Majella, una rivista in lingua araba, spesso ferocemente critica verso Israele. Ora i suoi editoriali sul Times presentavano una visione positiva dell’invasione israeliana. Scriveva che “non c’è nessun palestinese degno con cui il mondo possa parlare” e – Dio ci perdoni – che “forse adesso i palestinesi della West Bank e della Striscia di Gaza la pianteranno di sperare che un guitto come Arafat possa miracolosamente esentarli dal fare affari con gli israeliani”.

Tutto questo, naturalmente, era la posizione ufficiale del governo israeliano a quell’epoca.

Poi, nella primavera del 1983, un altro cambiamento. Con il pieno consenso di Douglas-Home, avevo trascorso mesi ad investigare sulla morte di sette prigionieri palestinesi e libanesi, catturati dagli israeliani a Sidone. Era evidente, concludevo, che quegli uomini erano stati assassinati. Il becchino mi aveva perfino raccontato che i loro cadaveri gli erano stati portati con le mani ancora legate dietro la schiena, pieni di lividi. Ma adesso Douglas-Home non capiva come fosse “giustificabile” pubblicare un simile rapporto “a tanta distanza dai fatti”.

In altre parole, le stesse fondamenta del giornalismo investigativo – controllo dei fatti e mesi di interviste – erano diventate un’arma a doppio taglio. Quando avevamo i fatti, era passato ormai troppo tempo per poterli pubblicare. Chiesi agli israeliani se pensavano di condurre un’inchiesta militare e loro, ansiosi di mostrare quanto erano umani, ci dissero che ci sarebbe stata un’indagine ufficiale. L’”indagine” degli israeliani, sospetto, era una pura messinscena. Ma fu sufficiente a “giustificare” la pubblicazione del mio lungo e dettagliato rapporto. Appena fu possibile presentare gli israeliani come i “buoni”, le preoccupazioni di Douglas-Home evaporarono.

Quando morì, di cancro, venne annunciato che il suo vice, Charles Wilson, sarebbe diventato editore del giornale. Murdoch disse che Wilson era stato “scelto da Charlie”, e anch’io lo credetti, quindi tutto in regola. Fino a quando, parlando con la vedova di Charlie, lei mi disse che era la prima volta che sentiva dire che l’assegnazione della direzione a Wilson fosse una scelta del suo defunto marito. Tutti sapevamo che Murdoch si era impegnato con ogni genere di garanzie per l’indipendenza editoriale, l’imparzialità e tanti buoni propositi quando aveva comprato il Times. E poi aveva licenziato il suo primo editore, Harold Evans. In seguito, si sarebbe occupato dei sindacalisti.

Charles Wilson – che molto tempo dopo divenne, per un breve periodo, l’editore dell’Independent – era un uomo ruvido, amichevole, che sapeva mostrare grande gentilezza, ma anche durezza, verso il suo staff. Anche con me fu gentile. Ma una volta che ero andato a trovare Wilson a Londra, Murdoch entrò nel suo ufficio. “Ciao Robert!”, mi salutò Murdoch, prima di iniziare una gioviale conversazione con Wilson. Dopo che se ne fu andato, Wilson mi disse a bassa voce: “Hai visto che ti ha chiamato per nome?” Era ridicolo. Era come il sorriso di Assad o il “Sir” di Re Hussein. Non significava nulla. Murdoch stava solo scherzando con i suoi vassalli e i suoi cortigiani.

Un segnale d’avvertimento. Mentre ero ancora a Beirut ovest, nel periodo in cui dozzine di occidentali venivano rapiti, aprii il Times e scoprii che uno scrittore filo-israeliano affermava sul paginone centrale che tutti i giornalisti di Beirut ovest, palesemente intimiditi dal “terrorismo”, dovevano essere considerati dei “succhiasangue”. Il giornale sosteneva forse che anch’io ero un succhiasangue? In tutto questo tempo, Murdoch aveva espresso esclusivamente opinioni filo-israeliane e aveva accettato un premio come “Uomo dell’Anno” da parte di una nota organizzazione ebreo-americana. Gli editoriali del Times divennero sempre più filo-israeliani, il loro uso della parola “terrorista” sempre più ambiguo.

La fine, per me, arrivò quando nel 1988 andai a Dubai dopo che la USS Vincennes aveva abbattuto sul Golfo un aereo passeggeri iraniano. Nel giro di 24 ore, parlai con i controllori del traffico aereo britannico a Dubai, scoprii che le navi americane minacciavano in continuazione gli aerei della British Airways e che l’equipaggio della Vincennes sembrava entrato in preda al panico. Alla sede estera del giornale, mi dissero che il mio rapporto sarebbe andato in prima pagina. Li avvisai che le “voci” americane secondo le quali il pilota della IranAir stava cercando di schiantarsi contro la Vincennes in un attacco suicida erano fuffa. Concordarono.

Il giorno dopo, il mio rapporto fu pubblicato con tutte le parti che contenevano critiche verso gli americani cancellate; tutte le mie fonti erano state ignorate. Il Times conteneva perfino un editoriale in cui si insinuava che il pilota fosse davvero un attentatore suicida. Un successivo rapporto ufficiale americano e i resoconti degli ufficiali della marina statunitense provarono in seguito che il mio articolo era corretto. Solo che ai lettori del Times non fu consentito leggerlo. Fu allora che presi contatto per la prima volta con l’Independent. Non credevo più al Times; e di sicuro non credevo a Rupert Murdoch.

Mesi dopo, un caporedattore che era in servizio la sera in cui arrivò il mio rapporto sulla Vincennes, mi scrisse per lettera che aveva proposto il mio rapporto per la prima pagina, ma che Wilson aveva detto: “Non c’è dentro niente. Non contiene neanche un fatto. Non voglio neanche sentirli questi deliri”. Wilson, mi disse il caporedattore, aveva chiamato “bubbole” e “ciance” i miei materiali. I compiti assegnati al caporedattore per quella sera erano: “Shambles, articolo sul caos nel Golfo; [George] Brock [il responsabile di Wilson per gli esteri], riscrivere l’articolo di Fisk”.

Le buone notizie: pochi mesi dopo ero corrispondente dell’Independent per il Medio Oriente. Le cattive notizie: non credo affatto che Murdoch abbia mai interferito personalmente con gli eventi appena descritti. Non ne aveva bisogno. Aveva trasformato il Times in un docile quotidiano pro-Tory, filo-israeliano, privo di qualunque indipendenza editoriale. Certo, se non avessi vissuto per tanto tempo in Medio Oriente, ci avrei messo di più a capire tutto.

Ma lavoravo in una regione in cui quasi ogni giornalista arabo conosce bene l’importanza dell’autocensura – o censura diretta – e in cui i re e i dittatori non hanno bisogno di impartire ordini. Hanno satrapi, vassalli e ufficiali di polizia – e governi “democratici” – che conoscono i loro desideri, sanno cosa gli piace e cosa non gli piace. E tutti fanno esattamente ciò che pensano che il padrone desideri. Ovviamente tutti mi dicevano che non era vero e proseguivano affermando che il loro re/presidente aveva sempre ragione.

Nelle ultime settimane, ho ripensato a cosa abbia significato per me lavorare per Murdoch, a cosa ci fosse che non andava, all’esercizio del potere per interposta persona. Perché non si poteva in nessun caso dare la colpa a Murdoch. Murdoch era più califfo che mai, non responsabile di un editoriale o di una “storia” più di quanto un presidente siriano sia responsabile di un massacro – quest’ultimo sarebbe stato sempre perpetrato in base agli ordini di governatori che avrebbero poi potuto essere processati o licenziati o mandati a fare i consiglieri di un primo ministro – e il capo avrebbe invariabilmente nominato suo figlio come successore. Pensate ad Hafez e Bashar Assad o a Hosni e Gamal Mubarak o a Rupert e James. In Medio Oriente, i giornalisti arabi sapevano cosa volevano i loro padroni e contribuivano a creare un deserto giornalistico, senza più l’acqua della libertà, una versione della realtà completamente distorta. Lo stesso accade nell’impero di Murdoch.

Nel mondo sterile dei Murdoch, le nuove tecnologie erano usate per privare le persone della libertà di parola e della privacy. Nel mondo arabo, i potenti sopravvissuti non avevano problemi nel nominare primi ministri addomesticati. Chi non risica, non rosica.

 

Veicoli elettrici e terre rare: la soluzione sta nel nuovo motore SRM

Fonte: http://www.howtobegreen.eu/

Veicoli elettrici, terre rare e motori a riluttanza commutata. Come noto le auto elettriche utilizzano batterie speciali per immagazzinare energia e per la costruzione delle stesse sono impiegate materiali facenti parti del gruppo delle 14 materie prime valutate come critiche, fra cui: antimonio, berillio, cobalto, fluorite, gallio, germanio, grafite, indio, magnesio, niobio, MGP (Platinum Group Metals), terre rare, tantalio e tungsteno. (vedi reportage specifico: www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=408 ).

Non solo: anche i motori elettrici e quindi NON solo le batterie sono realizzati utilizzando metalli appartenenti al gruppo delle terre rare (in particolare il neodimio).

Costruire un veicolo come la Toyota Prius richiede da 8 a 10 kg di metalli delle terre rare, tra cui due più chili di neodimio. Considerando che il 95 percento delle Terre Rare si trovano in Cina e che il governo ha messo in atto una serie di freni per rallentarne le esportazioni, è chiaro che qualsiasi soluzione che non ne contempli l’uso si sta facendo molto interessante.

Quale soluzione per ottenere dei motori elettrici che non utilizzino il neodimio?

Una tecnologia – sviluppata da St. Louis, Nidec Motor – denominata motore a riluttanza commutata (SRM), potrebbe offrire una valida alternativa a quelli finora progettati per i veicoli elettrici. I motori SRM utilizzano un rotore in acciaio a velocità variabile il quale gira all’interno di un alloggiamento che contiene fasci di fili. Secondo il vicepresidente della Nidec Motor, Nieberle Scott, è essenzialmente possibile ottenere lo stesso tipo di prestazioni senza bisogno di utilizzare magneti realizzati con terre rare.

I motori a riluttanza commutata SRM sono già una realtà.

La fattibilità commerciale dei motori SRM è aumentata negli ultimi tre decenni. Nei primi mesi del 2011, John Deere ha lanciato due caricatori ibridi diesel-elettrico dotati di motori SRM.

Nonostante i motori SRM non siano stati progettati appositamente per applicazioni su veicoli elettrici, secondo la Nidec Motor, renderli competitivi con quelli utilizzanti terre rare è solo una questione di volontà, non di tecnica.

Il vero De Benedetti: storia di un cannibale che divora le aziende

Scritto da: Mario Giordano
Fonte: http://effedieffe.com/

Suo padre produceva tubi, lui non ha mai prodotto un tubo. La storia del «capitalismo cannibale» di Carlo De Debenedetti, come l’ha definito Marina Berlusconi, è tutta qui: un’esistenza passata a fare soldi per fare soldi per fare soldi per non fare nulla. Nulla di costruttivo, s’intende. Aziende costruite: nessuna. Aziende rilanciate: poche. Aziende distrutte: tante. Dicono che gli imprenditori siano la spina dorsale di un Paese. Per fortuna, allora, che gli imprenditori non sono tutti come l’Ingegnere: altrimenti diventeremmo in un amen paralitici.

Il suo capolavoro resta naturalmente l’Olivetti. Fra il 1985 e il 1996 l’Ingegnere ha bruciato a Ivrea 15.664 miliardi delle vecchie lire. Le azioni crollarono da 21mila all’abisso delle 600, furono persi decine di migliaia di posti di lavoro, l’intero distretto produttivo del Canavese venne raso al suolo, seppellita per sempre una storia industriale d’eccellenza. Alla fine dell’impresa De Benedetti commentò piuttosto compiaciuto: «Missione compiuta». Missione compiuta, ma sicuro. Gli operai lo salutarono con una pièce teatrale. Tema: come si fa a pezzi una fabbrica. In scena l’avevano ribattezzato l’Ingegner De Maledetti.

Eppure all’Ingegner De Maledetti, nonostante i fallimenti, è sempre piaciuto dare lezioni sul senso etico dell’impresa e sulla lotta alla disoccupazione. Che è un po’ come se un macellaio volesse dare lezioni sull’importanza di non uccidere i vitelli. Di disoccupati, infatti, De Benedetti, ne ha sempre creati tanti, di lotta alla disoccupazione poca: nato da una famiglia di piccoli imprenditori, ha fin dalla tenera età preferito il coté finanziario a quello produttivo. Mai amato stare fra le macchine, al massimo fra le macchinazioni: scalate, opa, ardite operazioni di Borsa, alchimie da Piazza Affari. Risultato: ha fatto girare molti denari, s’è arricchito, ha fagocitato tanto. Ma che cosa ha costruito? Gli unici mattoni che lascia alle sue spalle sono gli editoriali di Scalfari.

Anche il suo rapporto con le società è sempre stato da cannibale. Quattro morsi e via. Dalla Fiat se ne andò dopo 4 mesi, dal Banco Ambrosiano dopo 40 giorni. In entrambi i casi se ne uscì con tanti soldi e qualche ombra. Della Olivetti s’è detto. La sua irruzione a Ivrea fu raccontata così: «Un esempio di mancanza di stile che rimarrà memorabile, con londata di terrore aziendale che ne seguì, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni. E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento di decine di dirigenti». Del resto s’è mai visto un raider che si preoccupa della lealtà organizzativa e del futuro dei suoi dirigenti?

Fateci caso: si sa cosa produce la Fiat, si sa cosa produce la Barilla. Che cosa ha prodotto nella sua storia imprenditoriale De Benedetti? Tonnellate di carta (finanziaria). E tonnellate di carta (editoriale) per coprire le carte finanziarie. Ricorderete il 28 marzo ’94: l’ultimo atto del presidente del Consiglio Ciampi, prima di passare la mano a Berlusconi, fu la decisione per il secondo operatore di telefonia mobile italiano. In gara c’erano Fiat-Fininvest e De Benedetti. Naturalmente vinse De Benedetti. «Così come i generali nazisti, con gli americani alle porte, fuggivano bruciando le ultime carte», ha scritto Geronimo, «quella sera il moribondo governo Ciampi fece nascere Omnitel».

Fra l’altro, la documentazione per la gara d’appalto era un malloppo da 1.200 chili, esaminato con insolita e straordinaria rapidità. «Ora lIngegnere mostri quello che sa fare», scrissero i giornali. E l’Ingegnere lo dimostrò: infatti poco dopo rivendette Omnitel ai tedeschi della Mannesmann.

Ancora una volta un’operazione perfetta per sé, un po’ meno per il «sistema Paese» di cui si riempie la bocca nei convegni ufficiali. Il prezzo concordato fra Ciampi e De Benedetti per Omnitel fu di 750 miliardi di lire e il pagamento fu rateizzato in 14 anni con rate annuali di 76 miliardi. Ai tedeschi la medesima Omnitel fu venduta invece per 14mila miliardi. Naturalmente senza rateizzazione. Da 750 a 14mila miliardi: il guadagno val bene la svendita all’estero di un patrimonio italiano. Del resto non si può mica chiedere a De Benedetti di amare l’Italia. Al massimo, lui ama la Svizzera, dove infatti ha preso cittadinanza. Dopo tutti i buchi che ha fatto, evidentemente, si è trovato a suo agio con l’emmenthal.

Per finire, anche una delle sue ultime imprese, la M&C Management e Capitali, non ha tradito tutta la storia del capitalismo cannibale di De Benedetti. Fondata nel 2006, aveva il compito di risanare le imprese in difficoltà. La prima impresa in difficoltà che rilevò fu la Domopak: infatti, appena rilevata, l’Ingegnere annunciò il taglio di 190 operai. Scioperi, proteste, blocchi dell’autostrada. Poi di M&C non si seppe più nulla sul piano industriale. Nessuna impresa salvata. In compenso se ne è parlato moltissimo sul piano finanziario: un susseguirsi di operazioni in Borsa, scalate, opa, accordi, annunci di vendita, riacquisti, rilanci a Piazza Affari. Un tourbillon che, come al solito, nulla ha creato, al massimo ha distrutto. O incartato tutti, come con la Domopak. Ma in fondo che importa? È noto che il capitalista cannibale non si preoccupa di lasciare nulla dietro di sé. A parte la scia della propria barca, s’intende.

“L’OCCHIO” DI COSTANZO … !!!

Scritto da: Martina Manescalch
Fonte: http://maestrodidietrologia.blogspot.com

«Nella P2 erano tutte persone serie, l’unico a non esserlo stato è Maurizio   Costanzo, che poi si è pentito» (Licio Gelli)
Corre l’anno 1978. Milano – Angelo detto Angelone, giovane rampollo della dinastia Rizzoli, è all’apice della sua (breve) carriera dopo l’acquisizione del Corriere della Sera. Sposato al tempo con l’attrice Eleonora Giorgi, è di fatto uno degli uomini più invidiati ed apparentemente più potenti d’Italia. Tessera n. 532.

Bruno Tassan Din è l’amministratore delegato eminenza grigia del Gruppo Rizzoli – Corriere della Sera.
È lui a tenere le briglie dei rapporti con la dirigenza del Banco Ambrosiano del cui cda Rizzoli è membro da circa due  anni. Tessera n. 534.
Franco Di Bella è subentrato da una anno alla direzione del Corriere, sostituendo il dimissionario Piero Ottone  Tessera n. 655.
Il vero potere risiede nelle mani dei detentori dei mass-media, sosteneva Licio Gelli.
Alla fine degli anni Settanta lo scopo era stato praticamente raggiunto, riassunto nella triade di cui sopra.
In breve, Gelli e i suoi vedono nel giovane imprenditore di casa Rizzoli una facile preda da manovrare per saziare la voracità massmediatica della Loggia.
Poco più che trentenne, Angelone ha infatti ereditato il colosso editoriale dal padre Andrea, ritiratosi a vita privata. L’allegra brigata Gelli&Co. – composta nello specifico da Umberto Ortolani (tessera n. 494) e Roberto Calvi (tessera n. 519) – nel 1974 spinge il Rizzoli all’acquisizione del Corriere della Sera.

A sostenere economicamente l’impresa penserà il presidente di Montedison Eugenio Cefis. A foraggiarla nel lungo periodo, il Banco Ambrosiano allora diretto dallo stesso Calvi che un anno dopo ne assumerà la presidenza.

Stando così le cose, le sorti di Angelone sono in mano alla Loggia che gli impone di espandere il dominio editoriale. Non ostanti i debiti contratti, fra il ’77 e il ‘79 il Gruppo Rizzoli acquista infatti anche La Gazzetta dello SportIl PiccoloL’Alto AdigeIl Giornale di Sicilia, finanzia L’Adige, diventa il maggior azionario di Tv, Sorrisi e Canzoni ed entra nella proprietà de Il Lavoro.
Il resto è storia.
Nella massonica scalata alla conquista dei mezzi di comunicazione rientra però anche un’altra strampalata iniziativa editoriale di cui si è un po’ persa la memoria: quella del quotidiano L’Occhio.
Corre l’anno 1978, dicevamo.
A questo punto la P2 ritiene di aver bisogno di un quotidiano tutto suo. Fatto su misura per essere votato alla causa.
Deve essere un quotidiano popolare, a grande tiratura. Deve rag-giungere proprio tutti e fare opinione. Ispirato ai tabloid inglesi, sarà un genere di quotidiano come ancora in Italia non ne esistono (né più esisteranno).
Un’operazione ambiziosa, in somma, a dirigere la quale viene convocato niente meno che il tesserato P2 n. 1819: Maurizio Costanzo.
Direttore de La Domenica del Corriere ed anchorman dalla carriera in ascesa, con i salotti televisivi di sua invenzione il telegiornalista rampante spopola in Rai e nelle case degli italiani.
Il nuovo progetto viene commissionato a Costanzo nell’autunno 1978 per partire ufficialmente un anno dopo, dopo un breve rodaggio nella zona di Pavia.
Il tabloid strillone, identico nella grafica al più notoDaily Mirror porta un nome che definire evocativo sarebbe un eufemismo: L’Occhio.
E, per  fugare ulteriormente ogni dubbio di paternità, per la campagna promozionale venne scelto un logo inequivocabile corrispo-ndente ad un occhio racchiuso dentro un triangolo.
I fratelli, del resto, non badano a spese. Pare in fatti che fra il lancio e le prime settimane di pubblicazione L’Occhio sia costato la bellezza di dieci miliardi.
Ad affiancare Costanzo, oltre ad una redazione composta da 111 giornalisti (fra i quali non mancano figli di politici, dirigenti Rai e notabili vari),  Alberto Tagliati e Pier Augusto Macchi in qualità di vicedirettori, la caporedattrice Isabella Bossi Fedrigotti e Marino Bartoletti come responsabile delle pagine sportive.
L’Occhio fa la sua prima uscita in edicola il 10 ottobre 1979 stampato in tre edizioni (Nazionale, Milano e Lombardia, Roma e Lazio). Il prezzo è di duecento lire, cento in meno rispetto agli altri quotidiani, la tiratura di seicentomila copie.
Il risultato sono 32 pagine di titoli strillati a caratteri cubitali, così come le dimensioni delle foto sempre ad impatto. E tra un finto scoop, una storia strappalacrime ed un gossip, il Direttore si lancia in appassionati articoli ispirati direttamente al Piano di rinascita democratica.
Con le sue false denunce con cui spara nel mucchio imprecisato dei potenti, Costanzo riesce nel duplice compito di non infastidire realmente nessuno e, allo stesso tempo, incarnare le generiche opinioni del popolino che dibatte di politica e ingiustizie varie al mercato del pesce.
Praticamente il target del suo giornale. Demagogo e populista fino all’inverosimile, non manca di onorare i suoi fratelli. Incensa i libercoli di Roberto Gervaso (tessera n. 622), le doti danzerecce della figlia di Gustavo Selva (tessera n. 1814) e quelle imprenditoriali dell’immarcescibile Silvio Berlusconi (tessera n. 625).
Le pagine sportive de L’Occhio grondano elogi rivolti al futuro premier quando, nel dicembre 1980, manda in onda sulle frequenze della sua Canale 5 il torneo calcistico Mundialito, minando dalle fondamenta il monopolio della rete pubblica.
«L’attacco del piduista Berlusconi al monopolio della Tv di Stato avvenne nel dicembre 1980.
Dopo aver assicurato a Canale 5, mediante una misteriosa transazione in Svizzera, i diritti esclusivi del torneo calcistico Mundialito organizzato dalla giunta militare che insanguinava l’Uruguay (a Montevideo, Licio Gelli era di casa), la Loggia P2 scatenò in Italia un’offensiva propagandistica tesa a consentire alla Tv privata berlusconiana la teletrasmissione nazionale degli incontri calcistici, benché la legge in vigore vietasse tale possibilità.
La manovra trovò il decisivo sostegno di tutta la stampa controllata dai piduisti (in prima fila: Il Giornale NuovoIl Corriere della SeraLa Gazzetta dello Sport, e naturalmenteL’Occhio)» (Riccardo Bocca, Maurizio Costanzo Shock, Kaos Edizioni, Milano 1996  p. 99).
Così, fra un’intervista a Licio Gelli (Corriere della Sera, 5 ottobre 1980) e la direzione del telegiornale Contatto della neonata tv di Rizzoli Prima Rete Indipendente, Costanzo va avanti per la sua strada, non ostante  L’Occhio, con 160.000 copie vendute ogni giorno, si stia rivelando sempre di più un fallimento. Ma l’importante è andare avanti con gli insegnamenti del Gran Maestro.
Non per niente, su questo punto Costanzo è il primo della classe.
E sui brevi articoli del suo giornale va giù duro attaccando continuamente il sistema dei partiti, il Parlamento, lo Stato in generale. Fino a spingersi troppo in là.
L’occasione di gridare al golpe si presenta il 12 dicembre 1980 con il rapimento, rivendicato dalle Brigate Rosse, del magistrato Giovanni D’Urso. Il 4 gennaio 1981 le Br annunciano con un comunicato la condanna a morte del magistrato.
Morte fortemente auspicata dalla Loggia, che avrebbe così avuto il pretesto per la svolta autoritaria.
Ed ecco l’editoriale scritto in merito dal direttore che auspica palesemente il colpo di stato: « è guerra. Siamo in guerra. Tanto vale prenderne atto e agire di conseguenza. Il codice di guerra va rimesso in vigore…Rendiamoci conto che abbiamo il nemico in casa; è perciò necessario rinunciare temporaneamente ad alcune garanzie costituzionali per snidarlo e neutralizzarlo.
È un prezzo altissimo, addirittura mostruoso, ma va pagato (1)».
È troppo anche per gli stomaci forti degli organismi sindacali de L’Occhio che, minacciando il blocco del giornale, costringono Costanzo ad edulcorare non poco lo zelante editoriale.
Che uscirà in queste nuove vesti: « D’Urso è stato condannato a morte. Che ora la “sentenza” venga o meno eseguita, nulla toglie al nuovo oltraggio che lo Stato di diritto deve subire dal partito armato.
Questa ennesima dichiarazione di guerra da parte delle Brigate rosse non può essere ignorata o sottovalutata. Siamo in guerra: tanto vale prenderne atto e agire di conseguenza, per consentire alle forze impegnate contro i brigatisti la massima libertà di azione.
Rendiamoci conto che abbiamo il nemico in casa; è perciò il caso di rinunciare a un eccesso di garantismo per snidarlo e neutralizzarlo. È una linea da seguire subito per allontanare la Repubblica dal disfacimento, mai vicino come in questo momento».
Inutile dire che le nuove vesti non convincono affatto i fratelli.
A marzo Costanzo viene esonerato dal suo incarico e sostituito dal suo vice Pier Augusto Macchi. Giusto due mesi prima che la lista degli affiliati venga scoperta e la bufera si abbatta sulla Loggia. L’Occhioscivola sotto le 100.000 copie e chiude i battenti il 15 dicembre dello stesso anno.
Se l’impresa fosse andata a buon fine quest’anno festeggeremmo il trentennio del primo giornale controllato direttamente dalla P2. Ma così non è stato.
O forse sì.

Camion della spazzatura alimentati dai rifiuti stessi

Fonte: http://www.buonenotizie.it/

Dalla California arriva la notizia di un’esperienza virtuosa che trasforma i rifiuti in “risorse”. All’interno dell’enorme discarica di Altamont (ubicata vicino alla città di Livermore), si produce carburante pulito e amico dell’ambiente da una fonte non proprio pulita: la spazzatura. Ad Altamont, nella quale sia i residenti che le aziende di grandi città come San Francisco e Oakland conferiscono i loro rifiuti sin dal 1980, si ottiene Gas Naturale Liquefatto (GNL) dalla decomposizione degli scarti organici. Questo GNL, serve ad alimentare i camion della spazzatura e della raccolta differenziata della Waste Management Inc. – la società che gestisce la discarica stessa.

I batteri che decompongono scarti alimentari, carta, erba falciata e altri materiali organici danno vita ad un processo di fermentazione che rilascia nell’atmosfera una serie di gas – il 50% circa dei quali è costituito da metano – contribuendo all’effetto serra. Secondo l’EPA (Environmental Protection Agency, l’Ente di protezione ambientale degli Stati Uniti) il metano è il secondo gas colpevole dell’effetto serra, dopo l’anidride carbonica. Ma ad Altamont, attraverso più di cento pozzi, tutti questi gas vengono aspirati e catturati prima che entrino in contatto con l’atmosfera e convogliati in una serie di tubature collegate ad un impianto innovativo, che li purifica e li trasforma in GNL.

I benefici a medio e lungo termine prodotti dall’impianto, che è a regime da novembre 2009 e che è stato insignito dall’EPA nel 2010 del prestigioso premio LMOP AWARD , sono molteplici: oltre ad impedire la fuoriuscita di gas effetto serra, il GNL prodotto viene utilizzato per tutti i mezzi di servizio della Waste Management Inc. consentendo un notevole abbattimento dei costi ed evitando gli effetti negativi causati dai carburanti tradizionali sull’ambiente. In California esiste già un piccolo impianto sperimentale a 65 km a sud di Los Angeles, ma quello di Altamont è “il più grande impianto di GNL prodotto da discarica al mondo; questo impianto produce circa 50.000 litri di GNL al giorno ed evita l’emissione di 30.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno”, ha detto Jessica Jones, manager della Waste Management Inc.
La Waste Management Inc. sta pianificando l’apertura di altri impianti in alcune delle 270 discariche che gestisce a livello nazionale. Per il momento, però, la tecnologia che consente togliere le impurità dal metano e renderlo GNL utilizzabile è ancora molto costosa e, quindi, risulta redditizia solo nelle discariche più grandi, nelle quali c’è abbondanza di gas. L’impianto di GNL è stato costruito ed è gestito da una joint venture costituita nel 2008 da Waste Management Inc. e The Linde Group North America, a fronte di un investimento di oltre 15 milioni di dollari.

Haiti, Onu: stop ai rimpatri, sull’isola si soffre ancora troppo

Fonte:http://it.peacereporter.net/

Appello delle Nazioni Unite affinché vengano prorogati i permessi di soggiorno degli haitiani espatriati

Il 21 giugno le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per fermare il rimpatrio degli haitiani in un Paese che ancora soffre enormemente le conseguenze del terremoto di 18 mesi fa. Adrian Edward, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), ha chiesto, insieme all’ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu, che Paesi come le Bahamas, Jamaica, Brasile e Stati Uniti proroghino i permessi di soggiorno concessi ai cittadini di Haiti che soggiornano nei loro territori, per ragioni umanitarie.

Nell’isola più povera dei Caraibi, i 680mila sopravvissuti al catastrofico terremoto del 2009 vivono in condizioni precarie, in mille tende allestite nella capitale Puerto Principe e nelle zone limitrofe. Il sisma causò più di 300mila vittime e 1,5 milioni di sfollati.

L’appello dell’Onu ai governi include non solo gli haitiani che sono stati evacuati dall’isola a causa del terremoto, ma anche coloro che a causa di esso sono stati bloccati fuori da Haiti e i loro famigliari. Per tutti costoro, Edward si è detto “seriamente preoccupato” a causa delle carenti strutture di protezione umanitaria. A causa dell’epidemia di colera, ad Haiti da ottobre hanno perso la vita oltre 5mila persone.