Il fenomeno “droga”

Scritto da: Noemi Novelli
Fonte: http://guide.supereva.it/carceri/interventi/2005/01/192210.shtml

In Italia i reati legati all’uso ed al traffico di stupefacenti sono in aumento e di conseguenza le nostre carceri sono sempre più popolate da giovani tossicodipendenti. La droga è il male del secolo, contro il quale ancora non si è trovato un rimedio. In passato le tossicodipendenze erano tradizionalmente confinate in ambienti legati alla delinquenza o ristrette a gruppi di èlite, oggi si sviluppano tra i giovani indipendentemente dalle condizioni sociali. Ma come e perchè si è sviluppato il fenomeno “droga”?

Cenni storici:

Fin dai tempi più remoti l’uomo ha sempre ricercato sostanze in grado di rendere la vita “bella” e possibilmente eterna, ma che non provocassero danni fisici e psichici e tantomeno la dipendenza.

Sostanze in grado di guarire le malattie e di agire favorevolmente su psiche e corpo, anche per migliorare le prestazioni , per indurre piacere ed euforia, annullare ogni sgradevole sensazione quale ansia e dolore, procurarsi il sonno, evadere dalla realtà; facilitare l’esplorazione della mente ed il contatto con la divinità.

In pratica una ricerca continua dell’essenza della felicità, del sapere universale e dell’eterna giovinezza. Ma questo è un sogno che non è stato mai raggiunto in quanto le sostanze usate (erbe, estratti, prodotti sintetici, non hanno indotto gli effetti desiderati ma solo senzazioni illusorie pagate poi a caro prezzo: danni tossici e dipendenza, una schiavitù che obbliga al loro uso continuativo.

Queste sostanze sono chiamate droghe.

Nelle civiltà primordiali l’uso della droga è gestito dal potere con proprie modalità e per i propri fini mistici, religiosi, terapeutici, bellici e politici, e perfino come strumento di delitto. Chi le usa fuori di tali modalità viene considerato strega o mago, allontanato dalla comunità e talora condannato a morte.

Nell’Ottocento l’uso libero delle droghe si è diffuso in tutto il mondo occidentale, sopratutto negli ambienti artistici e alla moda.

Poi nel ventesimo secolo gli Stati occidentali le hanno proibite dichiarandole illecite, confinandole nella clandestinità.

Negli anni Settanta , con l’espoldere della contestazione giovanile e la nascita di movimenti come quello hippy, l’uso della droga si è diffuso a macchia d’olio tra i giovani diventando fenomeno di massa.

Nasce così in questo periodo una nuova cultura o meglio una controcultura.

L’assunzione di sostanze stupefacenti avviene di solito in gruppo. Tutti i componenti del gruppo vivono distaccati dalla società e dalle sue istituzioni avendo come comune denominatore l’uso della droga. Si riuniscono in particolari aree come il Village a New York, Piccadilly a Londra e Campo de’ Fiori a Roma.

In queste comunità si fuma hashish o marijuana, si usano allucinogeni, si assumano cocaina, eroina o alcool. L’uso di sostanze stupefacenti è comunitario e democratico , in netto contrasto con il passato. Queste specie di comunità sono però precarie , proprio per le caratteristica irrequietezza dei giovani componenti, sempre desiderosi di nuove esperienze e orizzonti. Soltanto una minoranza dei membri rimane nello stesso luogo e nel medesimo gruppo per più di un anno. Nello stesso territorio restano solo gli spacciatori che dominano, alimentano e perpetuano il fenomeno della droga di massa dei giovani e dei giovanissimi .

Contro lo spaccio i governi occidentali lottano fin dall’inizio del secolo , ma con scarso successo perchè l’enorme guadagno rende estremamente allettante questa attività.

Il collegamento della droga con la popolazione italiana e mondiale giovanile si è ulteriorarmente potenziato, negli ultimi decenni ed a favorito la formazione di un numero sempre maggiore di gruppi ed adepti.

Il movimento Pop ne ha fatto il simbolo della protesta e molti esponenti ( i Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, ed alcune Rockstar di oggi) hanno esaltato con canzoni di grande successo le droghe: dai barbiturici di “Yellow Submarine” dei Beatles, alla “Sister Heroin” dei Rolling Stones. Così accanto ai simboli della contestazione – jeans, catene al collo, gioielli hippies- si sono affiancati gli emblemi della droga: la siringa, la spatola, la bilancina, il cucciaio, la lametta, la carta arrotolata,

Un grande impulso alla diffusione della droga è venuto dal mondo asiatico per lo stretto contatto con la gioventù nord-americana nelle guerre di Corea e del Vietnam.

Non và dimenticato l’impulso più o meno occulto apportato dal cinema, dalla letteratura e dai mass-media; è nata così la moda della droga che ha creato modelli spettacolari. Basti pensare ai festival di Re Nudo del Parco Lambro in Italia: centinaia di migliaia di giovani, sotto l’influsso delle più diverse droghe, inneggiavano a cantautori tossici, loro idoli.

Malgrado l’informazione, prevenzione e repressione sempre più massicce, forse anche per reazione , oltre alla strapotenza del mercato clandestino, il fenomeno non si è fermato nè accenna ad arrestarsi:ormai conviviamo con la droga.

Mentre la tossicodipendenza era tradizionalmente confinata in ambienti legati alla delinquenza o ristretta a gruppi di èlite, oggi si sviluppa tra i giovani indipendentemente dalle condizioni sociali.

L’Italia è fortemente coinvolta dall’epidemia di peste tossica: secondo statistiche riportate dall’Express, sarebbe al primo posto in Europa come numero assoluto di tossicodipendenti assistiti dalle strutture pubbliche, seguita da Francia e successivamente da Gran Bretagna, Germania e Spagna.

Usa: una petizione per l’etichettatura dei prodotti OGM

Scritto da: http://www.informasalus.it/it/articoli/usa-etichettatura-ogm.php

Il mercato del mais americano OGM è in continua espansione: il prossimo anno negli Stati Uniti ben 37,3 milioni di ettari saranno coinvolti nella produzione di mais, di cui il 90% a regime OGM, per una produzione totale che supererà i 300 milioni di tonnellate. Una parte consistente verrà destinata alla produzione di biodiesel e all’alimentazione animale, la restante parte andrà a finire nei piatti degli americani.

La legge americana, tuttavia, non prevede l’indicazione OGM in etichetta. Anche le catene di negozi che vendono cibo biologico, come WholeFoods, hanno ammesso di non poter garantire che i suoi prodotti bio siano liberi da ingredienti geneticamente modificati.

Eppure “il 93% degli americani ritiene che il cibo geneticamente modificato vada etichettato“, come si legge sul sito della campagna Just Label It portata avanti da associazioni, aziende, agricoltori e cittadini e rivolta alla Food and Drug Administration (FDA), l’Agenzia deputata al controllo degli Organismi geneticamente modificati negli Stati Uniti.

Al fine di dare ai consumatori la possibilità di scegliere cosa acquistare, è ora partita negli Stati Uniti una petizione legale per rendere obbligatoria l’etichettatura dei prodotti agroalimentari ottenuti da Ogm o contenenti Ogm.

Come hanno spiegato Simona Capogna, vicepresidente Vas (Verdi Ambiente e Società), e Rosario Trefiletti, presidente Federconsumatori: “Pur essendo un’iniziativa apparentemente ‘lontana’, ci riguarda da vicino, perché il cambio di rotta degli Usa avrebbe come conseguenza una diminuzione nella produzione di Ogm e una minore pressione sui mercati degli altri Stati, compresa l’Europa.

Stabilire l’obbligo di etichettare gli Ogm permetterebbe innanzitutto di scalfire il paradosso sui cui poggia l’ambiguità della proposta biotech negli Usa, dove è possibile richiedere brevetti industriali sui prodotti geneticamente modificati (in quanto ‘innovativi’) ma non c’è l’obbligo di etichettare gli stessi prodotti, ritenuti ‘sostanzialmente equivalenti’ rispetto ai corrispettivi convenzionali”.

Secondo le due associazioni, dunque, “l’etichettatura renderebbe il mercato statunitense un po’ più libero, perché finora gli Ogm sono stati imposti ai consumatori, che non hanno avuto i mezzi per scegliere i propri alimenti. Se la richiesta di prodotti Ogm-free aumentasse, i produttori dovrebbero, quindi, adeguarsi con un’offerta altrettanto Ogm-free”.

Il quarto “Satana”

Scritto da Giulietto Chiesa
Fonte: http://www.megachipdue.info/tematiche/guerra-e-verita/6981-il-quarto-satana.html

L’Impero non perdona. Crea i diavoli, e poi li uccide, inesorabilmente. Chi disobbedisce, chi si oppone, chi semplicemente si trova nel crocevia sbagliato – a prescindere dalle sue colpe  – deve essere punito.

A chi tocca un processo, a chi un linciaggio, a chi tocca semplicemente di sparire.

La nostra epoca attuale – epoca che precede una nuova guerra, che minaccia di essere grande e terribile, più delle precedenti – è puntellata di dittatori da eliminare.

Prima di liquidarli, li si trasforma in mostri, secondo la neolingua dell’Impero: satana, hitler, affinché le folle impaurite applaudano, liberate per un attimo dal terrore. Che però un attimo dopo viene ricreato, per non dare tregua alla paura, perché i consumatori possano tornare, inquieti ma sazi, a comprare nella discarica in cui vivono.

E’ toccato a Slobodan Milošević, poi a Saddam Hussein, poi a Osama bin Laden (facciamo finta che questo sia l’ordine dei fattori). Adesso è toccato a Muhammar Gheddafi.

Morti diverse, significato unico: chi osa resistere sarà annientato. Non c’è eccezione a questa regola.

È la regola non degli imperi che nascono, ma di quelli che muoiono.

 

Assassini

Scritto da: Marco Cedolin
Fonte: http://ilcorrosivo.blogspot.com/2011/10/assassini.html#more

La foto di Gheddafi sanguinante e senza vita campeggia a tutta pagina sulle TV, sui giornali e sui siti web, come un trofeo di caccia da esibire appeso sopra al caminetto, per compiacere l’ego degli “eroi” senza macchia e senza paura, che elevatisi al rango di gendarmi del mondo hanno “legalizzato” la strage e l’omicidio, inserendoli nel novero dei sacrifici necessari per ottenere un nuovo ordine mondiale che sia completamente funzionale alle loro esigenze.

Abbiamo prodotto riflessioni sull’argomento, fin dall’inizio della “guerra santa”, portata avanti dall’occidente con la vile compiacenza dell’ONU, nascosto sotto l’ombrello di una risoluzione farsa del tutto disancorata dalla realtà dei fatti e dalle azioni messe in atto sul campo.
Abbiamo seguito passo passo l’annientamento dello stato sovrano socialmente ed economicamente più avanzato dell’intero continente africano, le tonnellate di bombe lanciate sul suo popolo, la distruzione delle sue città e delle sue infrastrutture, la morte e la devastazione portata dal “mostro” occidentale e delegata nelle operazioni di terra ad un manipolo di mercenari e briganti della peggior specie……

Abbiamo stigmatizzato l’informazione mainstream, mai come oggi serva del potere e disposta a produrre documentazioni false a profusione, notizie destituite di ogni fondamento e fandonie di ogni genere, al solo fine di mistificare la realtà e compiacere i desideri del padrone.

Abbiamo assistito all’annientamento del futuro di un popolo, che viveva dignitosamente, con disponibilità economiche e diritti superiori a quelle degli italiani, attraverso l’uso delle bombe, del fuoco e della distruzione. Il tutto perché all’impero occidentale necessitava la disponibilità del petrolio libico, così come necessitavano i denari di Gheddafi e la di lui dipartita.

E oggi assistiamo a quello che verrà presentato come l’ultimo atto della tragedia di Libia. L’assassinio a sangue freddo del leader di quello che era uno stato sovrano, per mano di un commando di briganti, di mercenari o di truppe scelte degli eserciti occidentali. In fondo poco importa l’identità del boia, trattandosi di una storia già scritta, dove i mandanti sono ben noti e pontificano ogni giorno con disinvoltura di civiltà, libertà e democrazia.

Non assisteremo invece al dopo Gheddafi, perché del popolo libico non si parlerà più, così come non si è più parlato del popolo iracheno e di tutti gli altri popoli caduti sotto la scure della Nato, con l’intercessione dell’ONU. Raggiunto l’obiettivo, anche la Libia uscirà dai palinsesti dell’informazione, per entrare nel novero dei paesi “democratizzati” e ridotti alla miseria, sui quali stendere il velo dell’omertà mediatica.

Il tutto con la compiacenza della”società civile” di casa nostra, sempre pronta a stracciarsi le vesti e abbandonarsi all’isterismo più becero, di fronte ai sampietrini e alle vetrine rotte, ma altrettanto pronta a voltarsi dall’altra parte, quando l’oggetto della violenza è un popolo intero, massacrato senza pietà.

Gravi tensioni tra la polizia turca e il Pkk: ancora morti

Scritto da: Lucia Morini
Fonte: http://www.dazebaonews.it/mondo/item/6145-gravi-tensioni-tra-la-polizia-turca-e-il-pkk-ancora-morti

Soldati turchi, i bombardieri dell’aviazione ed elicotteri da combattimento hanno lanciato un’incursione in Iraq, ore dopo che i  presunti membri del fuorilegge Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) avevano ucciso 24 soldati e ferito altri 18, con attacchi multipli: da sette diverse postazioni, lungo il confine, nella provincia di Hakkari, nel sud-est dell’Anatolia.  La nuova incursione è iniziata poche ore fa, nei pressi della città di frontiera di Çukurca e Yüksekova, questa mattina presto.
 Almeno quindici guerriglieri separatisti curdi sono stati uccisi nel nord dell’Iraq dalle forze turche.

La rappresaglia di Ankara si e’ sviluppata su tre livelli: avanzata in territorio iracheno di un battaglione delle unita’ speciali dell’Esercito, forte di seicento uomini; raid aerei e bombardamenti delle artiglierie pesanti direttamente dalla Turchia.  Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha detto che la Turchia ha lanciato operazioni su larga scala, tra cui “un inseguimento nei limiti del diritto internazionale”.  Erdogan ha cancellato una visita in Kazakistan dopo gli attacchi come il capo dei militari, e i ministri dell’interno e della difesa si sono diretti  alla zona di frontiera per sorvegliare  le postazioni anti-offensive. La Televisione Ntv, senza citare fonti, ha detto che le truppe turche erano sconfinate di circa 4 chilometri in Iraq con gli elicotteri.  Anni addietro, la Turchia aveva  organizzato una grande offensiva di terra contro l’Iraq, all’inizio del 2008; la settimana scorsa  l’invito a muoversi contro le basi militanti nel nord , a fronte di attacchi dei militanti diretti a Turchia dal suolo iracheno . “Nessuno dovrebbe dimenticare che a coloro che ci fanno soffrire questo dolore, sarà fatto per soffrire  un dolore ancora più forte”, il presidente Abdullah Gül aveva detto ai giornalisti mercoledì. “Vedranno che la vendetta di questi attacchi sarà immensa e molte volte più forte”.

Da un  partito filo-curdo,  sotto accusa da parte delle autorità, arriva la richiesta che sia il governo che i militanti pongano fine ai combattimenti. C’è un gruppo di veterani turchi, arrabbiati dei 27 anni di conflitto curdo, che  ha tentato di prendere d’assalto l’ufficio del primo ministro, al grido di “martiri non muoiono mai!” “Come amico e alleato, gli Stati Uniti continueranno a stare con  il governo della Turchia nella loro lotta contro il PKK, ufficialmente designata come un’organizzazione terroristica”, ha detto Francis Ricciardone, l’ambasciatore americano in Turchia,  in una dichiarazione resa  mercoledì. “Nessuna causa politica, e nessuna religione, può giustificare il terrorismo”. Con lui il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, che  ha condannato le recenti violenze dei militanti curdi.

“A nome della Nato, condanno nei termini più forti possibili i recenti attacchi nel sud est della Turchia, che hanno ucciso e ferito numerosi soldati turchi, poliziotti e civili, tra cui un bambino,”. Tutto questo all’indomani di un incontro, lo scorso 6 ottobre, in cui Sayed Alhakim,  Presidente del Supremo Consiglio  dell’Iraq,  aveva ricevuto una delegazione dell’Alleanza del Kurdistan, arrivata a Baghdad per risolvere i problemi in sospeso tra il governo federale e il governo regionale del Kurdistan.  In quella occasione,  la Kurdistan Alliance aveva  dichiarato la sua determinazione e la volontà politica di negoziare la legge sul petrolio.  Non si sa se il Supremo religioso sciita Sistani, che si rifiuta di ricevere i funzionari iracheni,  abbia concordato con i funzionari kurdi questa decisione o no, ma il rifiuto di Al-Sadr sull’ includere zone contese intorno a Kirkuk alla regione del Kurdistan,  significa che la coalizione sciita non è riuscita a unire la sua posizione, così come non ha  una posizione unitaria,  sulla crisi attuale con i curdi.

Identificato il batterio della Peste nera

Fonte: http://iidr.mcmaster.ca/IIDR-news/Poinar_BlackDeath.html
Tradotto da : Aezio per http://ilfattostorico.com/

Il batterio responsabile della Peste nera, uno degli eventi più catastrofici nella storia umana costato la vita a circa un terzo degli europei in pochi anni, è stato identificato grazie alla collaborazione tra l’Università di Tubinga, in Germania, e l’Università di McMaster, in Canada.

Utilizzando una nuova tecnica, gli scienziati Hendrik Poinar, Kirsti Bos e Johannes Krause hanno scoperto che fu un’ormai estinta versione della Yersinia pestis a causare l’epidemia che fece 30-50 milioni di morti tra il 1347 e il 1353.

“La Morte nera è senza dubbio uno degli esempi più drammatici delle malattie emergenti o riemergenti”, dice Poinar, notando che il suo studio suggerisce che questa sia stata la seconda di tre pandemie, cominciate con la peste di Giustiniano nel 541 d.C. e culminata con la pandemia moderna del XX secolo.

Fino a poco tempo fa non era certo che il batterio Yersinia pestis fosse il responsabile della Peste nera. Precedenti test genetici che indicavano tale batterio presente nei campioni medievali erano stati respinti poiché ritenuti contaminati dal DNA moderno o da quello dei batteri nel terreno. Ma soprattutto, se ne dubitava perché l’agente patogeno della peste moderna si diffonde molto più lentamente ed è meno letale della peste medievale – anche tenendo conto della medicina moderna.

Questo studio è finalmente riuscito a spiegare per la prima volta il mistero. Utilizzando una nuova tecnica per analizzare il DNA, i ricercatori hanno recuperato l’intera sequenza di uno dei plasmidi (pPCP1) che codifica i fattori di virulenza. I dati preliminari suggeriscono che l’agente patogeno della Morte nera potrebbe essere una variante ora estinta dello Yersinia pestis. Il batterio doveva essere particolarmente virulento nel 1348, dal momento che agiva sui geni che facilitano la trasmissione provocata dai morsi di pulce, favorendo la proliferazione batterica nel sistema respiratorio durante gli attacchi di polmonite.

Il campione è stato ottenuto grazie a 109 scheletri sepolti in un cimitero vicino a Londra. Il dott. Johannes Krause, che ha guidato il gruppo di ricerca e noto per altri sequenziamenti di DNA di hominini, dice: “Senza dubbio l’agente patogeno della peste conosciuta oggi come Yersinia pestis è stato anche la causa della peste nel Medioevo.

“Il nostro prossimo obiettivo – dice Poinar – è quello di sequenziare il DNA intero, e sono fiducioso che questa nuova tecnica porterà a risposte che cambieranno la nostra comprensione della storia della peste e il nostro concetto di malattie emergenti e riemergenti”.

 

 

Perchè il Kenya interviene in Somalia

Scritto da: Matteo Guglielmo
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/perche-il-kenya-interviene-in-somalia/27940

Sul confine somalo-keniano si susseguono rapimenti ai danni soprattutto di stranieri. L’intervento dell’esercito di Nairobi può essere molto rischioso. Le dispute sugli snodi commerciali e il business degli aiuti umanitari. Gli effetti del conflitto sui clan e le possibili ragioni della crescita del banditismo.

Clamorosi rapimenti, scontri armati e traffico di armi. Queste sono solo alcune delle dinamiche che hanno sempre caratterizzano il confine somalo-keniano, uno dei più instabili e porosi di tutto il Corno d’Africa. Il rapimento delle due cooperanti spagnole di Medici Senza Frontiere, avvenuto pochi giorni fa nei pressi del campo profughi di Dadaab, è solo l’ultimo degli atti criminosi le cui cause hanno radici storiche profonde.

Il primo ottobre Marie Dadieu, cittadina francese disabile, veniva prelevata con la forza da alcuni uomini armati in un piccolo villaggio dell’arcipelago di Lamu, una delle località turistiche più famose della costa keniana. Sempre a Lamu, circa un mese e mezzo fa, era sparita Judit Tebutt. I rapitori in quell’occasione avevano addirittura ucciso suo marito, per poi dileguarsi senza lasciare traccia.

Le autorità di Nairobi e la stampa internazionale puntano il dito verso il movimento islamista somalo al-Shabaab, che controlla gran parte della Somalia centro-meridionale ed è presente nella città costiera di Chisimaio, ma non nella vicinissima Kambooni, località che dista dal confine meno di cinque chilometri.

Come conferma il governo keniano, nessun movimento armato può per ora vantare un controllo esclusivo su queste coste: persino per gli Shabaab resta difficile spingersi fino al confine. Nell’area sono attive diverse bande armate, che sfruttano l’assenza di controllo per operare in territorio keniano attraverso azioni lampo.

Anche se gli Shabaab non hanno rivendicato alcun rapimento o azione in territorio keniano, Nairobi ha deciso di agire militarmente. I rischi di un’invasione militare diretta sono però notevoli, sia per le probabilità di ritorsione del movimento islamista sia per l’estrema pericolosità dei territori di confine in questione.

La deflagrazione del clan

Da un punto di vista clanico, le aree di confine tra Kenya e Somalia sono territori piuttosto complessi. Se è vero che queste zone sono abitate per lo più da clan Darod (Ogaden, Marehan e Harti), anni di lacerazioni e di scontri hanno prodotto cambiamenti consistenti sia nelle strutture sociali dei territori somali sia all’interno dei gruppi stanziati oltreconfine. Oltre ai clan Darod sono presenti anche Hawiye (Sheikal e Galje’el), Rahanweyn (principalmente Garre) e diversi gruppi che gli stessi somali definiscono minoranze, come i Bajuni e i Bantu (o Jareer), i quali sono stati tra quelli più colpiti dal conflitto civile.

La caduta del regime di Siad Barre nel 1991 ha prodotto un rimescolamento della conformazione clanica in diverse regioni. Oltre a Mogadiscio e al Basso Shabelle, a risentire maggiormente degli effetti della guerra civile furono proprio le regioni di confine con il Kenya, dal Gedo al Basso Giuba. Il flusso di profughi che nei primi anni Novanta si riversò su questi territori era infatti composto da diversi clan Darod in fuga dalla capitale, soprattutto Marehan vicini a Siad Barre.

Il processo di “marehanizzazione” del Gedo e del Basso Giuba – iniziato in realtà alcuni anni prima della caduta di Barre – ha esacerbato la competizione clanica sui territori di confine, innescando uno scontro tra quei gruppi che si percepivano come autoctoni (guri) e altri segmenti clanici considerati come stranieri (galti). I cambiamenti nella relazione tra clan e territorio, diventata oggi molto più stretta e lontana da quella dimensione pastorale basata sul nomadismo, hanno in molti casi depotenziato il ruolo delle leadership claniche e dello xeer (diritto consuetudinario) a vantaggio di nuovi quadri politico-militari sorti all’ombra del conflitto.

La guerra civile ha fatto saltare i meccanismi di autoregolamentazione delle comunità stanziate sulle zone di confine, cancellando alcune forme di solidarietà interclanica alla base dei delicati equilibri di gestione dei centri sia del Basso Giuba e del Gedo, come Chisimaio e Luuq, sia di quelli dei distretti keniani di Wajir, Garissa e Mandera.

Gli scontri al confine

Allo sfilacciamento sociale e alla destrutturazione identitaria di alcune realtà urbane si è accompagnata la crescita di un’economia basata quasi interamente su due elementi: lo sfruttamento dell’indotto (e spesso la predazione) dei flussi di aiuti umanitari e il controllo dei principali snodi commerciali. Questi due fattori sono particolarmente legati, e nel tempo hanno causato una forte competizione sui principali centri di interscambio commerciale e di distribuzione degli aiuti come quelli di Beled Xaawo e Baardheere, nel Gedo, e della direttrice Buaale-Jilib-Chisimaio nell’alto e nel basso Giuba.

Proprio la cittadina di Chisimaio ha visto decuplicare la propria popolazione, che è passata dai circa 80 mila abitanti degli anni precedenti alla caduta di Barre agli attuali 800 mila. Il controllo della città è stato al centro di diversi scontri, fino alla conquista definitiva degli Shabaab avvenuta nell’ottobre del 2009.

In realtà gli islamisti erano riusciti a espugnarla già nell’agosto del 2008 grazie all’apporto decisivo di altri due movimenti armati: il Canoole (composto per lo più da Harti) e la Brigata di Ras Kambooni, costituita da milizie Ogaden allora guidate dall’ex colonnello Hassan Turki. Ad avere la peggio furono i Marehan fedeli a Barre Aden Shire “Barre Hirale”, l’allora ministro della Difesa del Governo federale di transizione (Gft).

Dopo essere riuscito a riacquisire il controllo di Chisimaio nel gennaio del 2007, con l’aiuto dell’esercito etiopico, Barre Hirale viene sconfitto dalle milizie islamiste e costretto a ripiegare nel Gedo, tra la cittadina somala di Doolow e il villaggio etiopico di Dollo Ado, da dove avrebbe ripreso gli scontri con gli Shabaab, sostenuto militarmente da Addis Abeba.

La “scalata” degli Shabaab a Chisimaio è paradigmatica rispetto al processo d’imposizione sugli altri gruppi armati dell’opposizione islamista al Gft. L’inclusione della Brigata di Ras Kambooni e di Canoole in Hizbul Islam, sotto la guida dell’ex leader della Shura dell’Unione delle corti islamiche Sheikh Hassan Dahir Aweys, aveva lasciato la gestione di Chisimaio – dunque degli introiti del porto e dell’aeroporto – nelle mani di due sole fazioni armate.

La conquista definitiva da parte degli Shabaab della città nell’estate del 2008 rompeva l’alleanza tra i giovani mujahideen e Hizbul Islam, inaugurando un processo di erosione della fazione di Dahir Aweys che sarebbe terminato con il definitivo inglobamento dell’intera opposizione islamista negli Shabaab. Per evitare lo scoppio di tensioni da parte dei clan maggioritari, l’amministrazione di Chisimaio e delle regioni del Giuba sarebbe stata affidata a Sheikh Abubakar Ali Aden, originario di Buaale e appartenente al clan Galje’el (Hawiye), dunque potenzialmente equidistante rispetto ai gruppi maggioritari presenti nell’area.

A restare fuori dal processo erano alcune frange Ogaden della Brigata di Ras Kambooni guidate da Sheikh Ahmed Mohamed “Madobe”. Le sue milizie oggi sono stanziate per lo più sulla strada che connette il villaggio keniano di Liboi a quello somalo di Dobley. Nella sua opposizione armata agli Shabaab “Madobe” ha potuto usufruire del sostegno anche delle forze armate keniane, interessate ad evitare che gli islamisti possano avvicinarsi troppo al confine.

Se sul piano degli interessi lo scontro sembra concentrarsi sul controllo di Chisimaio e degli snodi strategici dislocati sul confine, il mezzo per imporsi utilizzato dai diversi gruppi armati resta la competizione sui clan. È proprio lì che si gioca la partita più importante in una delle regioni più colpite dal conflitto.

La chiusura dello spazio umanitario

La militarizzazione del confine e i continui scontri armati hanno diminuito la capacità delle agenzie umanitarie di operare in queste zone, di conseguenza riducendo l’indotto economico a disposizione degli attori armati. Il controllo Shabaab su gran parte dei territori meridionali ha impedito a diverse agenzie dell’Onu – come ad esempio il World food programme (Wfp) – di intraprendere attività di distribuzione degli aiuti, causando il congelamento di quell’economia informale sorta negli anni all’interno dei principali centri a ridosso del confine somalo-keniano.

I rapimenti a scopo estorsivo potrebbero dunque configurarsi come l’effetto indiretto di una situazione politica difficile, oltre che di un clima di scontro che ha modificato un sistema economico cresciuto in un periodo certamente conflittuale, ma in cui l’accesso alle risorse non era impossibile.

Con il porto di Chisimaio controllato dagli Shabaab e i principali snodi commerciali del confine trasformati in teatro di scontro più o meno permanente, ciò che sembra esser venuto meno è proprio la linfa economica per quegli “uomini in armi” che da molti anni sono presenti in queste zone.




Essere positivi? Il segreto è accettare se stessi

Scritto da: Laura Pavesi
Fonte: http://www.buonenotizie.it/salute-e-benessere/2011/08/02/essere-positivi-il-segreto-e-accettare-se-stessi/

Secondo Tal Ben-Shahar, docente di “Psicologia positiva” presso le Università di Harvard (USA) e di Herzliya (Israele), per vivere e pensare in modo positivo è importante riuscire ad accettare sia noi stessi per quello che siamo, sia la realtà così come si presenta. Il suo corso insegna a diventare consapevoli che è inutile cercare il successo a tutti i costi o tentare di essere i migliori in tutto, quando siamo semplicemente delle persone con i nostri pregi e i nostri difetti. Quando cominciò ad insegnare “Psicologia positiva”, ad uno studente che gli aveva detto “mi iscriverò al suo corso solo quando la vedrò sempre felice e sorridente”, Ben-Shahar rispose: “Se mi vedrai sempre sorridente, vorrà dire che sono psicopatico oppure morto. Solo gli psicopatici e i morti non provano mai invidia, tristezza, dolore, rabbia e, di conseguenza, non sbagliano mai”.

Ben-Shahar sostiene che sin da piccoli ci viene insegnato a mitizzare il successo e a non accettare i nostri – inevitabili, ma necessari – errori. Molto spesso i genitori fanno pressione sui figli affinché lavorino duramente per avere successo e, se poi non lo raggiungono, rimproverano loro di non aver lavorato abbastanza. “Io stesso – ha dichiarato Ben-Shahar al periodico spagnolo La Vanguardia – mi sono rovinato la giovinezza con due frasi ricorrenti: “niente può sostituire il lavoro duro” e “più lavoro sodo, più successo ottengo”. Ma tutto questo conduce alla grande ipocrisia del perfezionismo. La verità è che se vuoi avere successo, devi cominciare a sbagliare e devi iniziare ad accettare le emozioni che la sconfitta porta inevitabilmente con sé”.

Il professor Tal Ben-Shahar 

“Il paradosso è” afferma Ben-Shahar “che quando accettiamo l’errore, il dolore, la solitudine e tutte le emozioni negative da essi provocate (odio, tristezza, invidia, frustrazione, ecc.) e le lasciamo defluire senza reprimerle, queste smettono di essere le “nostre emozioni” per diventare semplici “emozioni”. E, quindi, svaniscono da sole”. E continua: “Negare le emozioni, al contrario, ci allontana dalla realtà. Molti uomini, ad esempio, si negano il diritto di essere fragili. Nella nostra cultura, il maschio che chiede scusa è meno virile: è un sentimentale, cioè un debole. Il “peccato emozionale” delle donne, invece, è reprimere la collera. Esplodere di rabbia, o darla a vedere, è considerato poco femminile. Di conseguenza, risulta molto più semplice e comodo continuare ad indugiare nella menzogna”.

Permettere a noi stessi di essere “umani”, cioè deboli e imperfetti, è un enorme sollievo. Le persone che accettano se stessi e la realtà (cioè il fatto che sono esseri umani che fanno errori) non aspirano ad essere i più intelligenti, i più belli o i più ricchi, ma si amano per come sono e sono già appagate. E paradossalmente, proprio partendo da questa profonda serenità interiore, riescono ad avere successo in molti campi. Essere positivi non significa ignorare o negare la realtà, ma riconoscerla in quanto tale ed accettare tutte le emozioni che provoca in noi. Quando smettiamo di negare i nostri errori e di trattenere inutilmente le emozioni negative, solo allora lasciamo spazio al nuovo e ci facciamo coinvolgere pienamente dalle emozioni positive

Serpenti e partenogenesi

Scritto da: Jennifer Viegas
Fonte: http://news.discovery.com/animals/virgin-births-snakes-111014.htm
Traduzione: http://www.ditadifulmine.com/2011/10/serpenti-e-partenogenesi.html

l parto verginale nei serpenti non pare essere una grossa novità: sono noti diversi casi di rettili che hanno dato alla luce dei figli senza apparentemente accoppiarsi con alcun esemplare maschile.

Non solo ci sono boa constrictor che hanno partorito cuccioli su cuccioli senza essersi mai accoppiati, ma c’è anche un caso molto recente: un crotalo diamantino orientale (Crotalus adamanteus) sembra aver dato alla luce 5 piccoli a distanza di cinque anni dall’accoppiamento, un caso più unico che raro di “immagazzinamento dello sperma” documentato di recente nello studio di una coppia di ricercatori della Georgia State University e della North Carolina State University. Nella ricerca, pubblicata sulla rivista Biological Journal of the Linnean Society, viene anche presentato il primo caso documentato di partenogenesi in un serpente “testa di rame” (Agkistrodon contortrix) mai accoppiatosi con altri animali nel corso della sua vita.
La partenogenesi “è stata osservata in natura in tutti i vertebrati mandibolati, con l’eccezione dei mammiferi” spiega Warren Booth, co-autore della ricerca ed ecologo molecolare alla North Carolina State University. “Abbiamo recentemente ottenuto una conferma genetica in specie come boa constrictor, boa arcobaleno, diverse specie di squali, draghi di Komodo, e tacchini domestici, solo per nominarne alcuni”.
Booth ha analizzato il DNA del serpente testa di rame esposto da anni al North Carolina Aquarium di Fort Fisher, scoprendo che non c’è stato alcun intervento di un maschio nella nascita dei figli. Nonostante questo, il serpente è riuscito a partorire 4 piccoli apparentemente normali.
Il parto del crotalo diamantino è stato un evento ancora più bizzarro: 19 figli, vivi e in salute, 10 maschi e nove femmine. Tutti i 19 hanno un padre, ma c’è un problema: l’accoppiamento si è verificato circa cinque anni prima del parto. “Questo serpente è stato catturato quando aveva circa un anno, per cui veniva considerato sessualmente immaturo. E’ rimasto isolato dal gruppo di maschi fino a quando non ha partorito. In ogni caso, questo serpente si è accoppiato in natura nonostante fosse un esemplare giovanile sessualmente immaturo” spiega Gordon Schuett, co-autore della ricerca.
Non solo alcune specie di serpenti sarebbero in grado di generare figli per partenogenesi, ma anche di immagazzinare per anni lo sperma di maschi della loro specie per poter procreare al momento più opportuno.
Pare che il crotalo diamantino sia in grado di conservare lo sperma per il momento più propizio grazie all’ipotetica capacità di manipolare una porzione del proprio utero per creare una sacca. “Una regione dell’utero si avvolge e si contrae” dice Booth.
Questa strategia non è esclusiva dei serpenti, ma di molte altre specie viventi, e questa volta possiamo includere anche un mammifero nell’elenco: le femmine di pipistrello giallo asiatico (Scotophilus heathii) sono capaci di conservare lo sperma di un maschio per diversi mesi.
La partenogenesi, invece, è un discorso del tutto differente. Fino ad ora nessun mammifero si è dimostrato capace di dare alla luce dei figli senza la presenza di un maschio e di una femmina, ad esclusione di un topo da laboratorio geneticamente modificato.
“Alcune specie sembrano aver sviluppato dei meccanismi riproduttivi per promuovere l’accoppiamento tra consanguinei” spiega William Holt, professore di biologia riproduttiva alla Zoological Society of London’s Institute of Zoology. “Questa ricerca è molto significativa perchè mostra che alcuni dei precedenti resoconti sulla conservazione dello sperma per lunghi periodi nei serpenti (interpretati come tali, in buona fede, dai precedenti autori) siano stati causati, in realtà, da partenogenesi”.

In Africa centrale la prossima guerra di Obama

Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/

Dopo Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen e Libia è l’ora dell’escalation militare USA in Africa centrale. Assassinato Osama bin laden, sconfitto Gheddafi, il nemico number one dell’amministrazione Obama è divenuto Joseph Kony, il capo supremo del Lord’s Resistance Army (Esercito del Signore), l’organizzazione di ribelli ugandesi che dalla seconda metà degli anni ’80 ad oggi si è macchiata di gravi crimini contro l’umanità, massacri, stupri e rapimenti di bambini e adolescenti.

Con una lettera al Congresso, il presidente Barack Obama ha annunciato l’invio in Africa centrale di un “piccolo numero di militari equipaggiati per il combattimento” per “fornire assistenza alle forze armate locali impegnate a sconfiggere Joseph Kony. Si tratta, in una prima fase, di un team di “consiglieri” delle forze operative speciali USA, il cui numero dovrebbe crescere entro un mese a un centinaio tra militari e “civili”, compreso un “secondo gruppo equipaggiato al combattimento con personale esperto in intelligence, comunicazioni e logistica”. I militari hanno raggiunto l’Uganda, ma successivamente le forze armate statunitensi potrebbero estendere il loro raggio d’azione al Sudan meridionale, al Darfur, alla Repubblica Centroafricana e alla Repubblica Democratica del Congo. Il controllo della missione è stato affidato allo Special Operations Command – Africa, il comando per le operazioni speciali nel continente con sede a  Stoccarda (Germania).
“Il personale USA fornirà informazioni e consulenza, ma non sarà impiegato per combattere”, scrive Obama. “Non entrerà in azione contro i miliziani del Lord’s Resistance Army se non perché costretto all’auto-difesa. Sono state prese tutte le precauzioni per assicurare la massima sicurezza al personale militare USA durante la sua missione”.
Il portavoce di USAFRICOM, il comando degli Stati Uniti per l’Africa, Vince Crawley, ha dichiarato di non sapere sino a quando sarà necessario disporre dei militari in Africa centrale, “tuttavia le nostre unità sono preparate per tutto il tempo che servirà a consentire alle forze armate della regione d’intervenire contro l’LRA in modo autonomo”. Per il Pentagono l’obiettivo a medio termine dell’intervento è la costituzione di una brigata mobile con un migliaio di uomini delle forze armate di Congo, Repubblica Centroafricana, Sudan ed Uganda, a cui l’Unione Africana affiderà i compiti di pattugliamento delle frontiere. Secondo quanto riferito alla BBC da una fonte diplomatica USA, il piano fa pure affidamento sull’intervento della Nigeria e del Sud Africa, “le due sole nazioni africane che hanno le adeguate capacità logistiche”. Per la BBC, anche se nei documenti ufficiali il riferimento è solo al Lord’s Resistance Army, è forte il sospetto che “questa brigata potrebbe intervenire in operazioni esterne contro i gruppi di al-Qaeda in Maghreb e coloro che stanno tormentando oggi le aree del Mali e della Mauritania”.
Nel dicembre 2008, gli eserciti di Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Sudan lanciarono una violenta offensiva militare contro i miliziani dell’LRA (Operazione Linghting Thunder). Determinanti furono il supporto logistico, le armi e le apparecchiature “non letali”, per il valore di 23 milioni di dollari, forniti da Washington. Secondo i maggiori quotidiani USA, l’operazione fu pianificata direttamente dagli strateghi del Comando AFRICOM di Stoccarda (Germania). Diciassette consiglieri militari furono inviati in Uganda per lavorare a stretto contatto con gli ufficiali locali e fornire i dati d’intelligence e le riprese satellitari sugli accampamenti nel parco nazionale di Garamba in cui si nascondevano gli uomini di Joseph Kony.  L’intervento contro l’LRA si rivelò tuttavia fallimentare e per certi versi pure controproducente: le milizie ribelli scampate ai bombardamenti si vendicarono contro la popolazione civile, massacrando più di 900 persone, in buona parte donne e bambini. L’Esercito del Signore si rifugiò in Darfur, Congo e Repubblica Centroafricana, paese quest’ultimo dove vivrebbe adesso Kony. Alcune organizzazione per i diritti umani con sede negli Stati Uniti affermano tuttavia che le forze ribelli non disporrebbero di più di 400 uomini, un dato che lascia apparire del tutto sovradimensionata ed ingiustificata la mobilitazione militare internazionale contro il “pericolo” LRA.
Secondo il Pentagono, personale militare USA è stato impiegato per lungo tempo nell’addestramento delle forze armate ugandesi in funzione anti-Kony. Washington ha fornito al paese africano aiuti militari per 33 milioni di dollari, principalmente apparecchiature di telecomunicazione e e camion per il trasporto truppe. Lo scorso anno, 550 uomini di US Army Africa, il Comando per le operazioni terrestri nel continente con base a Vicenza, hanno partecipato a Kitgum, nord Uganda (area di aperto conflitto contro l’LRA), ad una delle maggiori esercitazioni mai realizzate in Africa (Natural Fire 10), congiuntamente ai reparti armati di Kenya, Tanzania, Uganda, Rwanda e Burundi. Lo scorso mese d’aprile, ancora con il coordinamento di US Army Africa, il nord Uganda è stato sede di una vasta operazione di lancio paracadutisti, a cui hanno partecipato militari ugandesi, il 21st Special Troops Battalion dell’esercito USA con sede a Kaiserslautern (Germania) e la 197th Special Troops Company della Guardia Nazionale dell’Utah.
Dal 2003 gli statunitensi sono impegnati pure nell’addestramento delle ri-costituite forze armate del Congo, accusate da più parti (comprese alcune agenzie Onu) di efferate violenze contro la popolazione civile. Il Dipartimento di Stato, in particolare, ha finanziato una luna missione di “consiglieri” dell’US Special Operations Command – Africa, prima a Kisangani e successivamente nella regione meridionale del paese. Nello specifico, il team ha curato la formazione sul campo nelle attività di sminamento e distruzione di vecchie munizioni inesplose. Come recentemente annunciato dall’ambasciatore USA in Congo, un battaglione di fanteria leggera congolese, formato e addestrato da personale USA, ha raggiunto la città di Dungu, nel nord-est del paese, per “combattere contro le milizie del Lord’s Resistance Army”. Per creare da zero questo battaglione mobile, Washington ha speso circa 15 milioni di dollari, quasi un quarto dell’ammontare dei programmi di “riforma del settore difesa” destinati al Congo nel 2010. Intervenendo ad un seminario dell’ultraconservatore Center for Strategic and International Studies di Washington, il generale Ham, comandante AFRICOM, ha annunciato che le forze armate USA “accresceranno il proprio aiuto a favore delle forze armate del Congo e della Repubblica Centroafricana contro l’LRA”. “Se mi chiedete se nel mondo esiste oggi il diavolo, io rispondo che esiste nella persona di Joesph Kony e della sua organizzazione”, ha concluso Ham.
La guerra a “bassa intensità” contro l’Esercito del Signore venne lanciata dall’amministrazione USA dopo l’approvazione con voto unanime dei congressisti (primavera del 2009) del cosiddetto LRA Disarmament and Northern Uganda Recovery Act, che invocava il pugno duro per “chiudere definitivamente la lotta al gruppo ribelle di Joseph Kony”. Nel novembre 2010, il presidente Obama presentò al Congresso un piano per “smantellare” il Lord’s Resistance Army e catturare il suo leader. Quattro gli obiettivi chiave: “maggiore protezione dei civili; rimozione di Kony dal campo di battaglia; promozione degli sforzi per reintegrare nella società i restanti combattenti dell’LRA; potenziamento dell’intervento umanitario nella regione per assicurare una continua assistenza alle comunità vittime”. Il piano affidava gli interventi ai Dipartimenti di Stato e alla Difesa e a USAID, l’agenzia alla cooperazione e allo sviluppo degli Stati Uniti d’America.
L’intervento militare USA è stato richiesto alcuni mesi fa dai rappresentanti di quattro “organizzazioni non governative” (Resolve, Enough Project, Invisible Children e Citizens for Global Solutions). Con una lettera aperta al presidente Obama, le ONG lo hanno invitato “a dimostrare tutta la serietà possibile per porre fine alla violenza dell’LRA contro i civili”. “Anche se il supporto a favore dei militari dell’Uganda può sembrare a breve termine il modo migliore per arrestare gli anziani comandanti del Lord’s Resistance Army, è sempre più evidente che essi non sono in grado di farlo”, commentavano i portavoce delle organizzazioni. “La leadership USA ha pertanto l’urgente necessità di trovare alternative praticabili alla strategia odierna e al tipo di sostegno offerto”. Washington li ha prontamente accontentati inviando la special task force in Africa centrale. Alla prossima guerra, militari, ONG e contractor ci andranno piacevolmente insieme.