Parkinson, c’e’ legame con solvente chimico

Fonte: http://www.ansa.it/web/notizie/specializzati/saluteebenessere/2011/11/14/visualizza_new.html_639975541.html

MILANO – Potrebbe essere un solvente la causa scatenante del Parkinson. Uno studio internazionale condotto su 99 coppie di gemelli, pubblicato sulla rivista ‘Annals of neurology’, ha infatti riscontrato un rischio 6 volte maggiore di sviluppare questa patologia nelle persone che sono state esposte sul posto di lavoro al tricloroetilene (tce, a molti noto anche come trielina), solvente chimico industriale. Nonostante molti usi del tce siano stati proibiti nel mondo, questo composto chimico continua a essere usasto come agente sgrassatore. Finora le cause del Parkinson erano rimaste sconosciute e le ipotesi avanzate dalla scienza suggerivano un mix di fattori genetici e ambientali.

Con questo studio ricercatori Usa, canadesi, tedeschi e argentini hanno esaminato l’impatto dell’esposizione a 6 solventi contenenti tce, selezionando 99 coppie di gemelli, dove uno era malato e l’altro no. In questo modo hanno riscontrato un aumento di ben 6 volte della possibilità di ammalarsi di Parkinson con l’esposizione a tce. Nello studio sono stati esaminati anche altri due solventi, il percloroetilene (perc, usato per il lavaggio a secco e per sgrassare, presente in molti casalinghi) e il tetracloruro di carbonio (cc14, usato per i refrigeranti), rilevando anche in questo caso un aumento del rischio. Non sono invece stati trovati legami con gli altri 3 solventi esaminati, il toluene, lo xilene e l’n-esano. “Riteniamo – spiega Samuel Goldman, coordinatore dello studio – che vi sia uno scarto temporale fino a 40 anni tra l’esposizione al solvente e l’inizio della malattia”. Il tce è stato usato in vernici, colla, lavamoquette, lavaggio a secco e come sgrassatore. E’ stato bandito da cibo e industrie farmaceutiche dagli anni ’70 per i dubbi sulla sua tossicita’, ma in Europa, anche se dal 2001 è stato riclassificato come carcinogeno, è ancora usato a livello industriale.

Israele, sempre più coloni si arruolano nelle Israel Defense Forces

Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo/31659/Israele%2C+sempre+pi%F9+coloni+si+arruolano+nelle+Israel+Defense+Forces

Si riducono invece i giovani provenienti dalle città che entrano come volontari all’esercito del “Tsahal”

“Tsahal diventa un esercito di periferie”, questo il commento del quotidiano israeliano, ‘Yediot Ahronot’, sul sondaggio effettuato per il reclutamento delle leve nel mese di novembre. Le ‘Forze di Difesa Israeliane’ (IDF, Israel Defense Forces), era nato come “un esercito di popolo”, ma la ricerca ha rivelato che i giovani che vivono nelle aree metropolitane sono sempre meno inclini ad affrontare un servizio militare la cui durata è di tre anni.

Secondo quanto confermato dall’indagine, il 61 per cento degli arruolati che si è offerto come volontario nelle unità speciali proverrebbe dalle colonie, mentre un altro ingente contributo arriverebbe dai kibbutzim e dalle cittadine periferiche.

La preoccupazione degli analisti è che questa disparità demografica negli arruolamenti potrebbe avere conseguenze su quello che è l’ambiente dell’esercito, provocando in primo luogo maggiori difficoltà all’integrazione delle donne soldato, la cui presenza è sgradita ai militari religiosi. Quello che più allarma in tal senso è l’inasprirsi dell’influenza dei rabbini nazionalisti tra le fila degli apparati militari, che da sempre hanno un forte ascendente sui giovani coloni.

 

La prima arma ipersonica

Fonte: http://www.giornalettismo.com/archives/169963/la-prima-arma-ipersonica/

Gli Usa provano missili cinque volte più veloci del suono. In grado di colpire chiunque nel mondo in 30 minuti

I militari statunitensi hanno svelato l’esistenza di un missile ipersonico in grado di colpire un bersaglio in qualsiasi parte del mondo in soli 30 minuti di tempo, ma non solo.

IERI IL TEST – Ha avuto successo la prova condotta ieri della Advanced Hypersonic Weapon (AHW), ovvero Arma Avanzata Ipersonica. Gli Stati Uniti hanno infatti lanciato un razzo dalle Hawaii alle ore 11.30. L’arma ha preso il via verso sud-ovest attraversando l’alta atmosfera sopra il Pacifico a velocità ipersonica, prima di colpire il bersaglio sull’atollo Kwajalein nelle isole Marshall – a circa 4.000 chilometri di distanza. La novità arriva sulla scia dell’annuncio dell’US Air Force di otto bombe bunker buster da 15 tonnellate, chiamate Massive Ordnance Penetrator, che possono far saltare 60 metri di cemento. Se gli Stati Uniti decideranno di implementare queste armi, potranno evitare di fare affidamento su stazionamenti di missili in paesi stranieri, ovvero un bel passo avanti dal punto di vista militare.

I MISSILI ALLA PROVA – Il portavoce tenente colonnello Melinda Morgan ha raccontato che il test tenutosi ieri era volto a raccogliere dati sull’aerodinamica, il sistema di navigazione, di guida e controllo, e sulle tecnologie di protezione termica dei missili ipersonici. Le nuove armi vanno a far parte del progetto ‘Prompt Global Strike’, ovvero il tentativo di fornire alle forze armate USA i mezzi per consegnare le armi convenzionali in tutto il mondo nel giro di un’ora. Gli scienziati classificano come velocità ipersonica quella dei mezzi che superano i Mach 5 – o cinque volte la velocità del suono – ovvero i 6.000 chilometri all’ora.

IL FALLIMENTO PRECEDENTE – L’11 agosto scorso, il Pentagono ha messo alla prova un altro aliante ipersonico chiamato HTV-2, teoricamente in grado di volare a 27.000 chilometri all’ora, ma si è rivelato un fallimento. Il range dell’AHW è inferiore a quella dell’HTV-2, ma non abbiamo altri dettagli. Il Pentagono ha investito 239.9 milioni di dollari nel progetto Global Strike solo quest’anno, di cui $69 milioni solo per il missile appena testato. Le bombe Massive Ordnance Penetrator verranno utilizzate su bombardieri B-2 Stealth guidate da GPS, sono soprannominate Big Blu e dotate di 2,5 tonnellate di esplosivi, in grado distruggere bunker sotterranei aperti e tunnel sospettati di contenere armi di distruzione di massa.

 

Seveso 1976: la nube tossica

Scritto da: Marina Rossi
Fonte: http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=584

Io non so come funziona uno stabilimento chimico, ma se provo ad immaginarlo mi sembra di vedere centinaia di metri di tubature collegate a silos giganteschi dove si miscelano sostanze chimiche. A volte è necessario combinare e far legare le sostanze tra loro per ottenere il prodotto finito, ed il prodotto finito può essere qualsiasi cosa: saponi, profumi, diserbanti, medicinali, plastiche, vernici, insetticidi.. In questo impianto, così come la vedo io nella mia fantasia, si aggirano operai, tecnici, e chimici ricoperti da capo a piedi di tute bianche e maschere protettive per evitare pericolose contaminazioni Ed è questo, quello che immagino io. Ma già il fatto di vedere le persone racchiuse in quegli scafandri ermetici m’inquieta.

Il pensiero che uno di quei prodotti possa fuoriuscire da quei tubi o dai quei silos per un qualsiasi motivo o accidente mi terrorizza. Penso: sicuramente ci saranno centinaia di sistemi di sicurezza per far si che ciò non accada. Ma ciò non mi tranquillizza affatto perchè mentre proseguo nella mia immaginaria visita in questo impianto immaginario, mi accorgo che c’è poco personale a controllare. Ma è luglio ed è sabato. E mi accorgo anche che proprio alla base di un di quei silos c’è un manometro la cui lancetta sta salendo verso il quadrante rosso e nessuno sembra accorgersene. Il silos si sta surriscaldando e comincia a vibrare forte. So che l’aumento della temperatura è pericolosissimo. ma penso: ci sono i sistemi di sicurezza, tra un po’ tutto tornerà normale. Ma così non è perchè il sistema di sicurezza pare non abbia funzionato quel giorno a Seveso…

Seveso 10 luglio 1976 ore 12.37

Nello stabilimento chimico dell’ ICMESA una valvola di sicurezza del reattore A-101 esplode provocando la fuoriuscita di alcuni chili di diossina nebulizzata. (la quantità esatta non è quantificabile, qualcuno dice 10-12 chili, altri di appena un paio). Il vento disperde la nube tossica verso est; nella Brianza. Il giorno dopo, domenica 11 luglio, nel pomeriggio, due tecnici dell’ICMESA si recano dal sindaco di Seveso, Emilio Rocca, per metterlo al corrente di ciò che è accaduto nello stabilimento e rassicurandolo che la situazione non desta preoccupazioni perché è già tutto sotto controllo. Dopo 4 giorni dall’incidente inizia la moria degli animali, muoiono galline, uccelli, conigli. Le foglie degli alberi ingialliscono e cadono, e gli alberi in breve tempo muoiono come tutte le altre piante. Nell’area interessata vivono circa 100.000 persone. E solo dopo pochi giorni si verificano i primi casi d’intossicazione nella popolazione. Il giorno 15 il sindaco emana un ordinanza di emergenza: divieto di toccare la terra, gli ortaggi, l’erba e di consumare frutta e verdure, animali da cortile, di esporsi all’aria aperta. Si consiglia un’accurata igiene della persona e dell’abbigliamento. Ci sono i primi ricoveri in ospedale e gli operai dell’ICMESA si rifiutano di continuare a lavorare. Soltanto il 17 luglio appaiono i primi articoli sul “Giorno” e sul “Corriere della Sera”.

L’accaduto diviene di dominio pubblico. Il 18 luglio parte un indagine dei carabinieri del comune di Meda ed il pretore decreta la chiusura dello stabilimento. Si procede all’arresto del direttore e del vicedirettore della fabbrica per disastro colposo. Ma ancora il 23 luglio dalla prefettura non viene ancora presa nessuna decisione su come far fronte all’emergenza. I casi d’intossicazione aumentano, i più colpiti sono i bambini. Si da nome ad una malattia finora quasi sconosciuta: la Cloracne. La cloracne è il sintomo più eclatante dell’esposizione alla diossina, colpisce la pelle, soprattutto del volto e dei genitali esterni, se l’esposizione è prolungata si diffonde in tutto il corpo. Si presenta con comparsa di macchie rosse che evolvono in bubboni pustolosi giallastri, orribili a vedersi e di difficile guarigione, e la pelle cade a brandelli. Può essere compromessa seriamente la funzionalità epatica. L’inalazione del composto crea problemi respiratori. Il 23 luglio dopo 13 giorni dall’incidente la verifica incrociata delle analisi effettuate dalle strutture sanitarie italiane e dei Laboratori Givaudan dell’ICMESA confermano una presenza notevole di TCDD nella zona maggiormente colpita dalla nube tossica. Il 10 agosto una commissione tecnico-scientifica stila una mappatura della zona contaminata. Si decide di evacuare l’area circostante l’impianto per circa 15 ettari, e le famiglie residenti nelle zone più colpite sono invitate ad abbandonare le proprie abitazioni. Reticolati sono posti per delimitare le zone pericolose. La commissione classifica il terreno contaminato in 3 zone a seconda della quantità della diossina presente sul terreno: “zona A” molto inquinata, “zona” B poco inquinata, “zona C” di rispetto. Continuano i casi d’intossicazione e aumentano i ricoveri ospedalieri tra la popolazione di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno.

Tra la popolazione colpita ci sono parecchie donne incinte e si diffonde la preoccupazione per gli effetti della contaminazione sui futuri nascituri. Ma gran parte degli “esperti” tendono a tranquillizzare tutti sminuendo gli effetti della diossina. Si fanno migliaia di analisi del sangue e delle urine, ma non si arriva a capo di nulla. Ulteriori controlli dei terreni fanno estendere la zona A suddividendola in 7 sotto sezioni. Intanto la televisione ed i giornali continuano a mostrare filmati e foto di bambini ricoverati in ospedale con i piccoli volti coperti da estese macchie rosse e le zone contaminate dove si aggirano uomini in tute bianche sigillate che raccolgono campioni di terreno e bruciano carcasse di animali. L’11 ottobre dopo 3 mesi, gli abitanti evacuati dalla zona A rientrano nei loro terreni e indicono una protesta bloccando la strada Meda-Milano. Vogliono rientrare nelle loro case e riprendere possesso della loro vita. Protestano contro il progetto della Provincia e della Regione di costruire un inceneritore a Seveso. Ritorna l’esercito per controllare la zona inquinata ed impedirne l’accesso. Sale la tensione e il malcontento verso le istituzioni che sembrano non voler prendere provvedimenti adeguati. Si chiede la bonifica dell’area come era stato promesso e si suggerisce l’asportazione del terreno inquinato e la collocazione in siti adeguati. Proprio per la tutela degli abitanti nel 1977 viene istituito l’Ufficio Speciale per Seveso.

ICMESA

Lo stabilimento ICMESA comincia la sua attività nel territorio del Comune di Meda nel 1947. Lo stabilimento produce prodotti farmaceutici ed è di proprietà della multinazionale GIVAUDAN. Nel 1963 la ICMESA diventa di proprietà della Hoffman-La Roche. Da subito iniziarono le proteste degli abitanti della zona e le denunce per gli effetti che l’impianto aveva sull’eco-sistema della zona: gas maleodoranti che fuoriuscivano dai camini, l’inquinamento del torrente Certosa o Tarò. Ma tutte le denunce sugli effetti nocivi della fabbrica e le varie accuse furono rigettate dai dirigenti dello stabilimento e non vennero mai presi provvedimenti. Al momento dell’esplosione del reattore chimico si era già al corrente tra gli addetti, che con il surriscaldamento dei materiali di lavorazione si sarebbe formata diossina, ma si sapeva anche, che aumentando la temperatura i tempi di reazione chimica dei prodotti sarebbe diminuita (da 5 a 1 ora) e si avrebbe avuto più prodotto in meno tempo. Gli addetti sapevano che altri incidenti da codesti impianti, erano avvenuti nel tempo in altre nazioni, e sapevano anche dei loro effetti catastrofici sull’ambiente. Sapevano anche che il camino sopra il tetto dell’impianto era privo di abbattitore. Sapevano che i termometri per controllare la temperatura degli impianti erano insufficienti a controllare la reazione. Perciò l’incidente fu provocato dalla omissione delle più elementari norme di sicurezza per un impianto del genere situato vicino al centro abitato E nonostante questo “la fabbrica dei profumi” ( così come la chiamavano gli a abitanti del luogo), ha continuato a funzionare per anni celando la sua pericolosità anche agli stessi operai che vi lavoravano.
La Diossina
“Diossina è un nome generico che indica vari composti tossici; il più noto, indicato con la sigla TCDD, si forma come sottoprodotto nella preparazione del triclorofenolo, sostanza utile a produrre erbicidi e battericidi.”
“La diossina è una sostanza altamente tossica in grado di provocare seri danni al cuore, ai reni, al fegato, allo stomaco e al sistema linfatico”.

Il composto si deposita sui terreni è non assolutamente biodegradabile né l’intaccano i microrganismi presenti nel terreno. Penetra nell’organismo attraverso la respirazione, per contatto con l’assunzione di cibo, soprattutto carne, pesce e latticini. Nei casi di esposizione a concentrazioni e poiché si deposita nei grassi, è soggetta ad accumulo biologico. Nei topi da laboratorio provoca tumori, disturbi al sistema nervoso, anomalie genetiche . Ancora non è stato accertato quali possano essere gli effetti a lungo termine sull’uomo. Gli abitanti di Seveso e zone limitrofe sono ancora oggi soggetti da laboratorio per lo studio degli effetti della diossina. La diossina non uccise nessun essere umano al momento, ma distrusse l’equilibrio eco-biologico di una vasta aera di territorio e decretò la morte civile di un’intera popolazione. Si sospetta che a 30 anni di distanza il terreno sia ancora intriso di diossina nonostante lo stabilimento chimico sia stato interrato ed al suo posto ci sia ora
il ” Bosco delle Querce” impiantato in seguito nella zona, con flora e fauna importata a segnare con un itinerario della memoria un evento da non dimenticare.
Il disastro provocò una destabilizzazione socio-economica di tutta l’area con enorme disagio per gli abitanti che dovettero abbandonare la loro terra, le loro case, il loro lavoro, gli animali. Rinunciare a tutto quello che avevano costruito o progettato per il loro presente e per il futuro. Non si coltivò più Molte donne in gravidanza in quel periodo preferirono abortire e le coppie smisero di fare figli. Famiglie intere furono sradicate delle proprie radici e subirono, nei trasferimenti coatti, anche l’umiliazione di sentirsi emarginati dall’ignoranza della gente che non sapeva cos’era la diossina, e vedeva in loro un pericolo per la propria salute. 80.000 gli animali morti o abbattuti, 158 gli operai esposti alla contaminazione. Un numero imprecisato di bambini rimarranno sfigurati dalla cloracne e porteranno sulla propria pelle gli effetti di questa micidiale sostanza con problemi psicologici che mineranno la loro vita. La responsabilità ricadde in sede processuale sui dirigenti dell’impianto che vennero condannati nel 1983 per disastro colposo e lesioni. I 200 milioni in vecchie lire pagate dalla multinazionale svizzera per il risarcimento furono usati per la bonifica dei terreni più contaminati come la zona A di Seveso dove tutto era stato raso al suolo perché irrecuperabile. I danni materiali e morali di questo disastro ecologico provocato dall’uomo restano incalcolabili.

Discariche speciali

Tutti i materiali contaminati asportati vengono depositate in due discariche speciali: la vasca A, a sud di Seveso, dove finiscono le macerie dello stabilimento ICMESA, tutti i terreni oggetto della scarifica e i materiali usati per la bonifica del territorio di Seveso per un volume di circa 200.000 m3. Nell’altra vasca la B, posta più a nord nel Comune di Meda finiranno tutti i materiali contaminati della zona nord e i fanghi del depuratore di Seveso per un volume di circa 80.000m3.
“In seguito all’incidente di Seveso ed altri dovuti all’incuria dell’uomo in proposito di sistemi di sicurezza di impianti chimici e consimili, la Comunità Europea emanò nel 1982 la direttiva n° 82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali.
La direttiva prevedeva determinati obblighi amministrativi e sostanziali riguardo all’atteggiamento da seguire nella gestione dell’esercizio di attività ritenute pericolose sulla base della tipologia di pericolosità dei materiali, e del quantitativo detenuto.
La direttiva viene recepita dall’Italia 6 anni più tardi con il DPR 175/88.”

Moria delle api: l’Europarlamento chiede di mettere un freno

Scritto da: Daniela Sciarra
Fonte: http://www.ilcambiamento.it/estinzione/europarlamento_chiede_frenare_moria_api.html

In questi giorni l’Europarlamento ha chiesto all’Unione europea di affrontare con urgenza il grave aumento della mortalità delle api. Nella risoluzione votata dall’assemblea plenaria degli eurodeputati a Strasburgo, si chiede infatti di investire maggiormente in ricerca proprio per proteggere le api.

Quella della moria delle api è purtroppo diventata una ben nota questione, sulla quale da tempo sono stati attivati studi e monitoraggi per tracciare le cause del fenomeno. Da diverso tempo l’Agenzia Europea dell’Ambiente evidenzia come diverse specie di api selvatiche si sono già estinte e, nel resto del mondo, si sono decimate a causa di pesticidi, acari e malattie. (Rapporto Segnali ambientali 2010).

Un solo fattore non può spiegare tutte le perdite di api nel corso di un determinato periodo di tempo. Tuttavia è sempre più evidente che tra i fattori da tenere in considerazione, oltre alle malattie (per esempio la varroa), parassiti, fattori ambientali, ci sia l’impiego di pesticidi sistemici. Ormai da tempo numerosi studi evidenziano come il loro utilizzo in agricoltura possa colpire le api che sono esposte a queste sostanze chimiche proprio come conseguenza della loro attività di foraggiamento.

Se è vero che i danni da tossicità acuta non sono l’unica minaccia per le api, gli effetti sub-letali come paralisi, disorientamento o cambiamenti comportamentali, sia da esposizioni a breve termine sia a lungo termine, sono sempre più presi in considerazione visto che influenzano le diverse fasi di vita e i diversi livelli organizzativi delle popolazioni di api.

Diverse specie di api selvatiche si sono già estinte

Proprio per questi motivi, negli ultimi anni sono stati avviati diversi programmi nazionali di monitoraggio per le colonie di api. Uno dei più completi è il programma di monitoraggio DEMIBO (DEutsches BIenen MOnitoring), in cui dal 2005 circa 1200 colonie vengono continuamente seguite e analizzate. Anche se laborioso e costoso, questo progetto si sta dimostrando utile in quanto genera dati affidabili e consente di creare relazioni tra i fattori di rischio e la morte delle colonie.

Per quanto riguarda il nostro Paese, secondo gli apicoltori italiani ci sarebbero tutti i presupposti scientifici per vietare definitivamente l’impiego dei neonicotinoidi. Gli insetticidi sistemici che negli anni scorsi hanno causato una moria di api senza precedenti, come confermato da uno studio dell’Università di Padova pubblicato di recente anche su Journal of Environmental Monitoring.

Secondo gli apicoltori e gli ambientalisti, dopo la fase di studi e monitoraggi, ci sono le informazioni necessarie per una risoluzione definitiva e non più temporanea che vieti per sempre l’impiego dei neonicotinoidi per la concia delle sementi del mais. Gli apicoltori sottolineano che dopo le tre stagioni senza concianti sistemici è stata dimostrata l’assenza di danni agli alveari, ma anche il conseguimento di produzioni ottime di mais, se non addirittura record, come nel 2011.

Gli apicoltori continuano la loro mobilitazione e chiedono di avere risposte alle seguenti domande: “Quale altro monitoraggio e controllo a livello territoriale è ancora necessario? Cos’altro è necessario perché il Governo italiano sappia attivarsi per ottenere l’avvio di una revisione indipendente dell’autorizzazione comunitaria delle molecole insetticide sistemiche, per cui si è accertata scientificamente la pericolosità?”.

LA TEMPESTA PERFETTA PER CENSURARE INTERNET

Scritto da: James Corbett
Tradotto da:
http://www.agoravox.it/

Nelle ultime settimane i governi di Gran Bretagna , Israele , la Stati Uniti , Giappone , India e Cina hanno segnalato presunti attacchi informatici da militari stranieri, hacker e software maligni come Duqu , un virus simile a quello di Stuxnet, cyber arma costruita da Israele e Stati Uniti e da utilizzare contro il programma nucleare iraniano. Sebbene la natura e l’origine degli attacchi o anche se ha avuto luogo non possono essere confermati, le presunte minacce vengono utilizzate per fermare una nuova legislazione volta a soffocare la libertà in internet ed accendere una nuova rivalità in quello che molti vedono come il campo di battaglia di 21° secolo: il cyberspazio.

Negli Stati Uniti, un rapporto al Congresso del National Counter intelligence Executive propaganda il cyber-spionaggio come una grave minaccia per l’economia americana.
In una sezione intitolata “Pervasive Threat from Adversaries and Partners” (Minaccia Pervasiva da avversari e partner), si legge:

“Attori cinesi sono nel mondo gli autori più attivi e persistenti dello spionaggio economico” e “i servizi di intelligence russi stanno conducendo una serie di attività per raccogliere informazioni economiche e tecnologiche sugli obiettivi degli Stati Uniti.”

Sulla scia del rapporto, la DARPA, Defense Advanced Research Projects Agency con il compito di mantenere il vantaggio tecnologico delle forze armate Usa, ha chiesto un aumento dei finanziamenti del 73% nell’anno fiscale 2012, da120 milioni a 208 milioni dollari. Nel frattempo, la Cina si è scagliata contro il rapporto, definendo queste accuse “irresponsabili”.

Ora, i governi di tutto il mondo utilizzano i timori di attacchi informatici come pretesto per reprimere le libertà internet della propria popolazione.

Il mese scorso, la Cina ha promesso un giro di vite sui social media, siti web e microblogs come risposta a una maggiore audacia dei blogger cinesi nel criticare il governo. La scarsa risposta di Pechino sull’incidente ferroviario dell’alta velocità a Wenzhou all’inizio di quest’anno, ha portato ad una tale effusione di abusi su internet che la storia è stata ripresa da emittenti cinesi mainstream. Una dichiarazione presso lo State Internet Information Office ha assicurato che tali critiche non saranno tollerate comunque, l’agenzia Xinhua riporta che tre dei blogger incriminati sono stati puniti dalle autorità locali.

Pochi giorni dopo l’annuncio, il Department of Homeland Security Usa (DHS) ha annunciato che è da considerare l’uso dei social media per monitorare e sorvegliare la propria popolazione. Il sottosegretario del DHS, Caryn Wagner ha detto che il governo teme disordini sociali come quello visto in Tunisia lo scorso dicembre e vuole utilizzare servizi di social media come Twitter per monitorare la propria popolazione.

Lo scorso gennaio, i senatori Lieberman e Collins rinnovano l’appello per dare al presidente un “kill switch” su Internet per proteggere il governo in tempi di emergenza, una telefonata dal senatore McCain ha fatto eco lo scorso luglio.

La scorsa settimana, il primo ministro britannico David Cameron ha parlato della necessità di trovare un equilibrio tra sicurezza informatica e la libertà di parola. Parlando ad una conferenza a londra sul cyberspazio, ha rinnovato l’appello britannico per un quadro internazionale di sicurezza informatica. L’ esperto di sicurezza in internet, Eugene Kaspersky, parlando alla stessa conferenza, ha difeso la sua idea per i passaporti internet come requisito per l’accesso ad Internet e una forza di polizia in internet per un giro di vite sul comportamento indesiderato, aggiungendo che i paesi che non era d’accordo su tale quadro dovrebbero essere semplicemente tagliati fuori da Internet.
Kaspersky non è l’unico a sostenere un cosiddetto passaporto o patente per accedere a Internet. In passato, l’idea è stata proposta da Craig Mundie, capo funzionario di Microsoft, e la Casa Bianca ha elaborato una proposta all’inizio di quest’anno per incoraggiare il settore privato allo sviluppo di un documento d’identità su Internet.
I critici dicono che tale piano sarebbe la fine di Internet come la conosciamo, rendendo legittima la protesta politica e impossibile la critica al governo. In una critica pungente della proposta Kaspeserky, il tecnologo per la sicurezza Bruce Schneier si è scagliato contro i tentativi di porre fine all’anonimato su internet:

L’identificazione universale è impossibile. Anche l’attribuzione – sapere chi è responsabile per particolari pacchetti internet – è impossibile. Tentare di costruire un tale sistema è inutile, da solo a criminali ed hacker nuovi modi per nascondersi”, ha scritto. “I tentativi di bandire l’anonimato in internet non interesserà quelli abbastanza esperti per aggirarlo, avrebbe un costo di miliardi, ed avrebbe solo un effetto trascurabile sulla sicurezza”.

L’Italia è sempre più Predator

Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/

Borse in picchiata, tagli draconiani a istruzione, sanità, pensioni e stipendi, ma intanto crescono a dismisura e segretamente le spese per l’acquisto di nuovi sistemi di guerra da destinare alle nostre forze armate. Gli ultimi gioielli di morte vengono dagli Stati Uniti d’America: due velivoli senza pilota UAV Predator, nella versione B “MQ-9 Reaper” per il bombardamento teleguidato contro obiettivi terrestri. A darne notizia non è il ministro della difesa italiano, come ci si aspetterebbe, ma il Dipartimento della difesa USA.

“Il contratto, per un valore di 15 milioni di dollari, è stato sottoscritto dall’Aeronautica Militare italiana e prevede pure la fornitura di tre radar LYNX Block 30 e un motore di ricambio”, annuncia Washington. L’acquisizione rientra all’interno del cosiddetto Foreign Military Sales (FMS), il programma per la vendita a paesi terzi di sistemi d’arma prodotti negli Stati Uniti con l’interposizione del Pentagono. In sostanza l’Aeronautica non potrà acquistare direttamente gli UAV dall’industria produttrice (la General Atomics Aeronautical Systems di San Diego, California) ma dovrà affidarsi agli intermediari della Defense Security Cooperation Agency.

Subito dopo la consegna, i due velivoli “MQ-9 Reaper” saranno trasferiti al 28° Gruppo Velivoli Teleguidati “Le Streghe” di Amendola (Foggia), l’unico reparto italiano dotato di velivoli senza pilota, il primo in Europa a fornirsi di sistemi UAV. Il gruppo ha già a disposizione sei “Predator” nella versione A “RQ-1B” (per le missioni d’intelligence, sorveglianza, riconoscimento degli obiettivi e per la lotta all’immigrazione “clandestina”) e due nella versione “MQ-9 Reaper”. Si tratta di strumenti militari sofisticatissimi e particolarmente costosi.
Per l’acquisto (nel 2004) dei primi cinque sistemi Predator, l’Italia ha speso 47,8 milioni di dollari; due anni più tardi è arrivato un secondo lotto di due velivoli e relativi mezzi di supporto per 16 milioni di dollari (un UAV era intanto precipitato in fase di addestramento). Dopo aver utilizzato i Predator in missioni di guerra in Iraq ed Afghanistan, l’Aeronautica militare ha chiesto di acquistare pure il modello “Reaper” che può essere armato con missili e bombe a guida laser. Il 12 febbraio 2008, la Commissione difesa della Camera ha autorizzato la spesa sino a 80 milioni di euro per l’acquisizione di quattro Predator B e relativi sensori, sistemi di controllo a terra e supporti logistici, con termine il 2011. Per ottenere il consenso unanime al nuovo sistema d’attacco, l’allora sottosegretario ulivista Giovanni Lorenzo Forcieri assicurò che i “Reaper” avrebbero avuto il ruolo di meri ricognitori e che non sarebbero stati armati.
“L’opzione di dotare i Predator di armamenti potrà avvenire solo dopo un’eventuale autorizzazione del Parlamento”, spiegò Forcieri. Il contratto con la General Atomics Aeronautical Systems fu sottoscritto nel febbraio 2009 e i velivoli divennero operativi ad Amendola nell’estate 2010. Glissando il dibattito alle Camere, il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha autorizzato l’uso dei “Reaper” contro obiettivi in Libia a partire dello scorso 10 agosto, nell’ambito dell’operazione Unified Protector. Stando all’Aeronautica, i velivoli sono stati impegnati “senza armi” in “attività di ricognizione e sorveglianza durate all’incirca 12 ore ciascuna”. È forte il sospetto, tuttavia, che i Predator italiani siano stati impiegati anche in vere e proprie operazioni di strike.
Con una lunghezza di undici metri e un’apertura alare di venti, il “Reaper” assicura maggiori prestazioni dei Predator A in termini di raggio d’azione (3,200 miglia nautiche), altitudine di crociera (15.000 metri), autonomia di volo (tra le 24 e le 40 ore), velocità (440 Km/h) e carico trasportabile (quasi 1.800 kg). A differenza della prima versione per la “ricognizione”, il nuovo UAV può essere armato con missili “Hellfire”, bombe a guida laser Gbu-12 “Paveway II” e Gbu-38 “Jdam” (Joint direct attack munition) a guida Gps. La postazione standard consiste in una stazione di controllo a terra che, grazie al data-link satellitare, può guidare il velivolo anche oltre la linea dell’orizzonte. Il Predator B può essere trasportato a bordo di un aereo C-130 ed essere reso operativo in meno di dodici ore.
Il 28° Gruppo Velivoli Teleguidati “Le Streghe” è alle dipendenze del 32° Stormo AMI “Armando Boetto” di Amendola, uno dei reparti più importanti dal punto di vista operativo e strategico delle forze armate italiane. Oltre al gruppo di controllo degli sistemi UAV, il 32° Stormo sovrintende alle attività del 13° Gruppo, dotato di cacciabombardieri AM-X, già impegnato a fine anni ’90 nelle operazioni di guerra in Bosnia e Kosovo, successivamente in Afghanistan e più recentemente in Libia. Gli AM-X di Amendola hanno funzioni di routine nell’interdizione e nel supporto aereo alle forze terrestri e navali e partecipano periodicamente a importanti esercitazioni militari in Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Egitto ed Israele.
Amendola è destinata a divenire entro un paio d’anni la prima base italiana per i nuovi cacciabombardieri Lockheed Martin F-35 (Joint Strike Fighter) che nelle intenzioni del ministero della Difesa sostituiranno prima gli AM-X e poi i Tornado. l’Italia si è impegnata ad acquisire 131 velivoli per la folle spesa di 16 miliardi di euro. Sempre che i prototipi riescano a superare i test di volo e si risolvano i numerosi problemi tecnici e progettuali di quello che è ormai il programma più controverso e più costoso della storia dell’aviazione militare mondiale.

Per non farsi scoprire dalla moglie chiama la polizia sostenendo che l’amante è una rapinatrice

Fonte: http://abcnews.go.com
Tradotto da:http://notizie.delmondo.info/2011/11/14/per-non-farsi-scoprire-dalla-moglie-chiama-la-polizia-sostenendo-che-lamante-una-rapinatrice/

La polizia di Colorado Springs aveva mandato cinque agenti dopo avere ricevuto la chiamata di Kevin Gaylor, che aveva chiesto soccorso perché “c’è in casa mia un intruso armato”. Ma c’era qualcosa di strano nella chiamata.

In realtà, quello che era successo è che l’uomo aveva deciso di incontrare una ragazza che aveva conosciuto tramite Craiglist: la serata però era caratterizzata da una forte nevicata, che aveva reso le strade impraticabili. E così la giovane è arrivata tardi, impiegando più di un’ora per arrivare da Denver.

Solo che, sempre a causa del cattivo tempo, la moglie dell’uomo è tornata a casa molto prima del previsto. Gaylor ha chiesto alla ragazza con cui aveva appuntamento, che non era ancora scesa dall’auto, di andarsene: la giovane si è però rifiutata, pretendendo chiarimenti sul perché, dopo aver fatto tutta quella strada, ora dovesse andarsene. Gaylor però non voleva darle chiarimenti, per evitare di ammettere di essere impegnato.

Dopo pochi minuti, Gaylor ha dovuto affrontare anche la moglie, che voleva sapere chi fosse la ragazza che lo attendeva in macchina, ma lui non ha avuto idea migliore che sostenere che fosse una ladra, e per rendere più credibile la storia ha chiamato la polizia.

Quando gli agenti sono intervenuti, hanno impiegato pochi minuti per chiarire la realtà dei fatti, ed hanno denunciato l’uomo per il falso allarme. Ma soprattutto, ora Gaylor dovrà vedersela con le due donne…

26enne INVECCHIA IN POCHISSIMI GIORNI

Fonte:http://www.runabianca.it/news.asp?id=17&T=3

La sua storia ha scatenato un dibattito internet, dove specialisti e popolo del web si chiedono se il rapido invecchiamento subito da una donna vietnamita sia davvero possibile e cosa possa essere stato ad innescarlo.
Nguyen Thi Phuong ha ventisei anni ma ora sembra un settantenne, a quanto le è stato detto ciò sarebbe dovuto ad una reazione allergica ai frutti di mare. La sua triste storia è iniziata nel 2008, quando, secondo il racconto della donna, la sua bellezza giovanile ha cominciato a svanire nel corso di pochi giorni, lasciandole la pelle cascante, rugosa su tutto il viso e corpo.

Fino ad ora la donna è stata costretta a indossare una maschera in pubblico per nascondere il suo aspetto dagli occhi indiscreti, mentre i medici stanno tentando di stabilire cosa ha causato il suo invecchiamento improvviso e terrificante.
Suo marito, Nguyen Thanh Tuyen, falegname, dice che il suo amore per la bella moglie non si è spento mentre Phuong racconta come la sua condizione non ha fatto che peggiorare col tempo.

Alcuni medici hanno sostenuto che si tratti di lipodistrofia, una “manifestazione clinica caratterizzata da un anormale o degenerativa condizione del tessuto adiposo che si può manifestare come ridistribuzione dei lipidi nel corpo, avendo di fatto in alcune parti una mancanza e in altre un eccesso dei grassi”.
La pelle della giovane stessa continuerebbe a crescere ad un ritmo sorprendente.

La sindrome, che non ha cura, lascia le sue vittime con pieghe di pelle su tutto il corpo, generando volti rugosi o i caratteristici volti scarni tipici delle persone anziane.
Guardando le di foto di quando era una ventunenne, il giorno del suo matrimonio, nel 2006, Phuong ha commentato: “Cinque anni fa ero piuttosto carina e non così brutta come sono ora, giusto?”

Phuong sostiene che si tratti di una reazione allergica ai frutti di mare che le aveva provocato una reazione particolarmente aggressiva nel 2008: “Avevo molto prurito su tutto il corpo e non riuscivo a dormire”.
La donna ha raccontato di aver preso delle medicine in farmacia locale invece di andare in ospedale, perché lei e suo marito Tuyen, ora trentatreenne, erano troppo poveri per pagare le cure.
“Poi sono passato alla medicina tradizionale e il prurito è sparito ma la mia pelle ha cominciato a incurvarsi e piegare”.

Antichi “castelli del deserto” scoperti in Libia

Fonte:http://news.nationalgeographic.com/news/2011/11/111111-sahara-libya-lost-civilization-science-satellites/
Tradotto da: http://www.ditadifulmine.com/2011/11/antichi-castelli-del-deserto-scoperti.html

I ricercatori della University of Leicester hanno recentemente scoperto nel deserto del Sahara i resti di antiche fortezze appartenute ad una civiltà perduta vissuta in Libia un paio di millenni fa, i Garamanti.

I “castelli nella sabbia” si trovano a circa 1.000 km a sud da Tripoli, e si sono conservati in ottimo stato. “Siamo rimasti sorpresi nel vedere il livello di conservazione” spiega David Mattingly, leader della spedizione che già nei primi mesi del 2011 aveva intuito la presenza delle fortezze. “Nonostante le mura abbiano subito dei crolli principalmente a causa dell’erosione del vento, sono ancora alte 3-4 metri”.
Inizialmente i siti erano stati scambiati per forti romani per via della loro struttura geometrica, ma la posizione e la presenza di cimiteri e campi coltivati ha fatto cambiare opinione agli archeologi.
Le fortezze sono circa un centinaio, spesso circondate da insediamenti simili a villagi. In una sola area di 4 km quadrati sono stati contati almeno 10 insediamenti, una densità straordinaria che ha fatto escludere l’ipotesi dei forti di costruzione romana e lasciato il campo a quella di un grande impero africano. “Queste fortezze si trovano oltre le frontiere dell’Impero Romano; questi siti sono simboli di un regno africano molto potente”.
“Ci siamo fatti l’idea che sia stata una civiltà di alto livello molto sofisticata” continua Mattingly. “Possedevano la metallurgia, tessuti di alta qualità, un sistema di scrittura…quel tipo di indizi che dicono che siamo davanti ad una società statale organizzata”.

La civiltà di cui stiamo parlando è quella dei Garamanti (Gargamantes), un popolo che viveva nel Sahara e che fondò un prospero regno a sud della Libia, dove oggi c’è solo deserto. Possedevano sistemi d’irrigazione sotterranei molto sofisticati, e l’esistenza delle strutture da loro edificate è stata rivelata al mondo grazie all’analisi di fotografie aeree scattate negli anni ’50 e ’60 del 1900.

I Garamanti erano un popolo di lingua berbera che iniziò ad occupare la regione del Fezzan intorno al 1.000 avanti Cristo. Abbiamo testimonianza della loro esistenza da alcune fonti scritte greche e romane risalenti al V° secolo d.C.: sappiamo che i Romani intrattenevano frequenti rapporti commerciali con questo popolo, ma anche che non venivano considerati del tutto civilizzati.
I Garamanti crearono delle vere e proprie oasi verdi in pieno deserto in grado di ospitare fino a 6.000 persone in villaggi dal raggio di 5 km. La loro imponente opera di irrigazione creò terra discretamente fertile e abitabile dove oggi c’è solo sabbia e terra polverosa.
Questo fu possibile grazie ad un complesso sistema di tunnel lungo quasi 1.000 km in grado di convogliare l’acqua fossile del deserto verso i campi, e al lavoro degli schiavi che effettuavano la manutenzione dei condotti per l’irrigazione.
La recente scoperta delle fortezze e degli insediamenti dei Garamanti fornisce un’ulteriore dimostrazione del livello di sofisticatezza del loro sistema di irrigazione. “Siamo in pieno Sahara, un ambiente iper-arido, e solo l’abilità di un popolo di sfruttare l’acqua sotterranea può cambiare la situazione”.
Mattingly ha calcolato che siano occorsi 77.000 anni-lavoro (un anno-lavoro equivale al lavoro svolto da una persona in un anno) per poter completare la rete di canali e di pozzi necessaria ad estrarre l’acqua fossile del Sahara.
Perchè i Garamanti siano scomparsi è ancora un quasi-mistero. E’ probabile che l’acqua fossile, una risorsa non rinnovabile, sia stata esaurita e abbia consentito al deserto di avanzare verso le aree fertili. “L’acqua fossile sotterranea è una risorsa non rinnovabile: quando si esaurisce una riserva, non si riempirà di nuovo” spiega Paul Bennet della Society of Libyan Studies.