Personalità borderline, scoperti i circuiti cerebrali coinvolti

Fonte: http://www.flickr.com/photos/hey__paul/
Traduzione: http://www.iovalgo.com/  Scritto da: Gianluca Molinaro

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La diagnosi di disturbo borderline di personalità in origine è stata utilizzata per “etichettare” persone che si collocavano a livello comportamentale, relazionale ed emotivo in una via di mezzo tra i pazienti con disturbi nevrotici e quelli con una diagnosi di disturbo psicotico. Questi pazienti spesso manifestano una elevata reattività emozionale e presentano sintomi che soddisfano anche i criteri per il disturbo post-traumatico da stress e disturbi dell’umore.

Anthony Ruocco dell’ University of Toronto e i suoi collaboratori hanno condotto una ricerca, pubblicata su Biological Psychiatry, il cui scopo è stato quello di capirne di più circa i correlati anatomo-fisiologici che sono associati alle intense esperienze emotive dei pazienti borderline.

I risultati che sono stati tratti da questo studio sono importanti in quanto gettano luce su due basi cerebrali legate all’instabilità emotiva dei borderline: i ricercatori, infatti, hanno osservato come da un lato fosse intensa l’attività nei circuiti cerebrali coinvolti nell’esperienza delle emozioni negative, dall’altro hanno visto come, al contrario, fosse ridotta l’attivazione dei circuiti cerebrali che normalmente sopprimono l’emozione negativa una volta che questa è stata attivata. I primi circuiti descritti riguardano specifiche strutture del sistema limbico, i secondi sono composti da strutture appartenenti alle regioni frontali, deputate a regolare in modo appropriato le emozioni. Dai dati è emerso come una ridotta attività in una zona frontale del cervello, chiamata corteccia cingolata subgenuale anteriore, sia caratteristica del disturbo borderline di personalità e potrebbe servire per differenziarla da altre condizioni correlate, quali una depressione maggiore ricorrente.

Per giungere a tali conclusioni gli studiosi hanno condotto una meta-analisi di 11 studi che hanno permesso di raccogliere e confrontare dati riguardanti 154 pazienti con disturbo borderline di personalità e 150 soggetti di controllo sani.

“Dato che molte delle psicoterapie più efficaci per il disturbo di personalità borderline agiscono per migliorare le capacità di regolazione delle emozioni, questi risultati potrebbero suggerire che le disfunzioni nei centri critici ‘di controllo’ frontale potrebbero essere normalizzato dopo un trattamento di successo”, ha concluso Ruocco.

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Bufera Standard&Poors, gli USA fanno causa: hanno provocato la crisi

Scritto da : Davide Di Lorenzo
Fonte: http://www.you-ng.it/

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La notizia è di quelle che potrebbero cambiare l’intero scenario economico internazionale; sì, perché il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, quello che fu di Bon Kennedy e che ora è diretto da Eric Holder, ha citato in giudizio Standard&Poors, una delle maggiore agenzie di rating internazionale per aver valutato erroneamente l’effetto dei titoli “tossici” che hanno causato la devastante crisi finanziaria del 2007.

Il procedimento sarebbe il primo intrapreso dal governo americano a discapito di un agenzia di rating; S&P ha, ovviamente, negato ogni responsabilità in materia ma la borsa l’ha immediatamente penalizzata, condannandola ad un -14% per il valore dei suoi titoli. La richiesta del governo sarebbe sconcertante: 1 miliardo di dollari di sanzione ai danni dell’agenzia di New York che ha immediatamente avviato dei negoziati con il Governo.

L’accusa è di aver influenzato le proprie valutazioni di rischio su titoli immobiliari sulla base di conflitti d’interessi interni all’agenzia, sottovalutando coscientemente il rischio al fine di renderli più remunerativi, essendo essi presenti nel portfolio. Un’eventuale sconfitta di S&P rappresenterebbe senza dubbio un cambio di tendenza storico e una rivalutazione al ribasso senza precedenti nella complessa materia del rating. Già in molti denunciavano, infatti, il ruolo conflittuale di tali agenzie nelle loro valutazioni e gli effetti devastanti sui mercati che una valutazione erronea avrebbe potuto creare, proprio come nel caso, secondo l’accusa, dei titoli immobiliari poi rivelatisi fallimentari.

Dare ad un titolo un rating più alto di quello che in realtà meriterebbe, infatti, crea dei portfoli (pacchetti azionari) sopravvalutati che iniziano a girare sotto forma di garanzie di liquidità, coprendo investimenti e prestiti che in realtà non corrispondono all’affidabilità dichiarata e, in caso di crollo, portano giù con loro tutto l’apparato finanziario che si sorreggeva sugli stessi: una vera e propria frode a tutto il mercato finanziario mondiale che va a vomitare i suoi effetti sul benessere economico di ogni singolo lavoratore o cittadino.

Deve 7 euro a Equitalia, le pignorano la casa

Fonte: http://www.controcopertina.com/deve-7-euro-a-equitalia-le-pignorano-la-casa/

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La crisi genera mostri, ma uno di quelli che di più sta spaventando gli italiani è Equitalia, quell’istituto creato da Berlusconi e Tremonti ma al quale Bersani e Visco hanno dato pieni poteri. Insomma Equitalia tanto criticata da tutti i partiti è stata sempre supportata e incoraggiata da destra e sinistra. Quanto riportato oggi da ‘Il Fatto Quotidiano’, però, ha dell’incredibile: per un debito di 7 euro, o meglio 14.000 lire è stata pignorata ad una donna l’intera abitazione.

La protagonista della vicenda è una casalinga che nel 1996 ha presentato una dichiarazione dei redditi congiunta a quella del marito, di professione imprenditore. Una volta andato in rovina, l’uomo ha maturato un debito con il fisco italiano di 14.000 di vecchie lire, oggi circa 7 euro. A distanza di tanti anni, per quel debito, ora la moglie si è vista ipotecare la casa.

“Quanto successo è surreale: partendo da un debito di 7 euro, la mia cliente si è vista ipotecare la propria abitazione da parte di Equitalia”, ha dichiarato l’avvocato Minestrini al Fatto Quotidiano. “Il fondo patrimoniale – ha proseguito il legale – è una specie di vincolo che i coniugi possono creare sui propri beni per destinarli ai bisogni della famiglia; ed i beni ricompresi nel fondo patrimoniale non possono essere aggrediti per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

La dittatura portoghese e la transizione alla democrazia

Scritto da: Goffredo Adinolfi
Fonte: http://www.treccani.it/scuola/tesine/democrazie_europee_degli_anni_70/3.html

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Il 28 maggio del 1926, giorno del golpe vittorioso dei militari contro la repubblica liberale, Antonio Oliveira Salazar era professore di economia all’Università di Coimbra e dirigente di un piccolo partito cattolico nazionalista. Quando i nuovi dirigenti furono a bussare alla sua porta per proporgli il ministero delle finanze, Salazar era ancora sconosciuto ai più. Fu dall’interno del governo militare che il futuro dittatore costruì la sua carriera e il suo regime e fu solo a partire dal luglio del 1932 che il “mago delle finanze” riuscì a impadronirsi di tutte le leve del potere, diventando finalmente capo del governo.

La dittatura di Salazar
Salazar stimava il fascismo e Mussolini, ma non amava le masse, importò buona parte delle strutture costruite dal fascismo (milizia, corporativismo, propaganda, inquadramento della società in organizzazioni paramilitari, saluto romano eccetera), ma non ne condivise mai l’ansia espansionistica. Questo perché il Portogallo non aveva bisogno di nuove conquiste: contrariamente all’Italia, infatti, aveva già un vasto impero coloniale che si stendeva da Macao – in Cina – fino alle isole di Capo Verde, nell’Atlantico africano, passando per Goa – in India –, Mozambico, Guinea Bissau e Angola in Africa.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Salazar scelse di mantenere una posizione di neutralità piuttosto ambigua, neutralità che si trasformò in una conferma dell’alleanza con gli Inglesi in un momento in cui i destini del conflitto si erano chiariti quasi definitivamente, ovvero nel 1944. Il risultato di questa mossa permise a Salazar sia di annichilire le opposizioni democratiche, che speravano in un appoggio di Londra e delle armate ‘antifasciste’ sia di creare un solco tra il proprio regime e i fascismi sconfitti e ottenere quindi il lasciapassare che gli permise di governare tranquillamente fino alla sua morte.
Contrariamente a quanto molti avevano infatti ipotizzato, il dopoguerra non segnò la fine della dittatura salazarista. Il clima di guerra fredda che contrappose Stati Uniti e Unione Sovietica fecero del Portogallo – che fu accolto tra i membri fondatori della Nato – un prezioso baluardo contro il comunismo. Sebbene l’egemonia culturale si fosse spostata decisamente nel campo di coloro che erano partigiani di un netto rifiuto dell’autoritarismo, l’equilibrio delle forze continuava a essere decisamente favorevole alla dittatura. Salazar lanciò il motto “orgogliosamente soli” e cercò di isolare il paese dalle influenze esterne. La tragica fine dei fascismi e il conseguente affermarsi delle democrazie, il forte sviluppo economico e sociale e, infine, le guerre coloniali che tanto stavano sconvolgendo gli antichi equilibri non potevano però non avere ripercussioni anche in Portogallo. La dittatura riuscì comunque a trovare una sua stabilità, complice un certo sviluppo economico che, creando consensi, minava in partenza qualsiasi azione efficace da parte delle opposizioni. Periodiche elezioni – “libere come nella libera Inghilterra” – davano una parvenza di democrazia, mentre i territori dell’Impero si trasformarono in “territori d’oltremare”. Tutti cambiamenti di facciata che non modificavano la sostanza di una dittatura a cui, persa la legittimazione ideologica, rimaneva unicamente la violenza come forma di mantenimento del potere.

Il regime inizia a entrare in crisi
La stabilità però non era eterna e con la fine degli anni Cinquanta il regime sembrava subire una serie di scacchi destinati a travolgerlo. In particolare, le elezioni presidenziali del 1958 (ufficialmente Salazar era Presidente del consiglio nominato da un Capo dello stato eletto direttamente dai cittadini) che, pur sotto un rigido controllo della Pide, la temibile polizia politica, per un momento sembrarono sfuggire di mano. Il candidato delle opposizioni, il generale Humberto Delgado, riuscì a mobilitare la popolazione e molti sperarono in una sua vittoria contro il candidato del regime, l’ammiraglio Amerigo Tomas. Come è facilmente intuibile, le elezioni erano perse in partenza, troppi gli strumenti in mano alla dittatura per garantirsi un facile successo. Passato lo spavento determinato dal “terremoto Delgado”, cominciarono gli attacchi dei movimenti indipendentisti nei territori africani: era l’inizio di tredici anni di guerra coloniale. Nonostante le risorse economiche che essa assorbiva, nonostante la coscrizione obbligasse tutti i giovani a dedicare due anni della loro vita a combattere in Africa, nonostante fosse evidente che presto o tardi la guerra sarebbe finita con l’indipendenza delle colonie, Salazar riuscì sempre a controllare capillarmente tutte le forze che avrebbero potuto infastidirlo.

Marcelo Caetano e l’evoluzione nella continuità
Nell’agosto del 1968 Salazar cadde da una sedia riportando un grave ematoma cerebrale che in poche settimane gli provocò danni irreversibili, rendendolo incapace di governare. Il 18 settembre il Consiglio di stato attribuiva i poteri al delfino di sempre: Marcelo Caetano. Salazar morì nel luglio del 1970. Il nuovo corso introdotto da Caetano, “evoluzione nella continuità”, sembrò finalmente dischiudere le porte a una liberalizzazione e condurre quindi alla democrazia. Fu un periodo importante, ma che durò poco: il nuovo dittatore capì subito che l’Estado Novo oramai non era riformabile senza rischiare al contempo una rivoluzione e, intimorito, scelse la strada della continuità con il passato salazarista. La guerra senza sbocco, che assorbiva quasi la metà del bilancio pubblico portoghese, cominciava a creare malcontenti anche all’interno di una delle colonne portanti del regime: i militari. Nell’estate del 1973, un gruppo di ufficiali del quadro permanente si riuniva per protestare contro un decreto legge emesso dal governo che equiparava gli ufficiali di carriera agli ufficiali di complemento. La protesta ebbe una prima matrice di carattere sindacale, ma presto si trasformò in presa di coscienza politica da parte di chi, da anni, combatteva in Africa e si rendeva conto che l’unica via di uscita dalla guerra era la fine della dittatura: il 9 settembre del 1973 nasceva così il Movimento dei capitani.
Nei primi mesi del 1974, il vice capo di stato maggiore, generale Antonio Spinola, lanciò un attacco frontale, con l’appoggio del capo di stato maggiore Francisco Costa Gomes, contro la politica coloniale del governo e, se pur con diversi contrasti, aprì i contatti con il Movimento dei capitani: Marcelo Caetano era oramai rimasto solo.

La Rivoluzione dei garofani
Il 24 aprile del 1974 a Lisbona fu un giorno come un altro. Tutto sembrava ripetersi  stancamente uguale: la guerra, la miseria e le violenze. Tutto appariva assolutamente immutabile, l’opposizione era annichilita e impotente, prontamente disarticolata dagli onnipresenti uomini della Pide. La guerra in Africa continuava senza grandi vittorie e senza grandi sconfitte. La tragedia si era in sostanza routinizzata. Fu in questo clima di immanenza che si svolse la Rivoluzione dei garofani. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile i capitani lanciavano il segnale di inizio delle operazioni: da Radio Renascença occupata, le note della canzone proibita Grandola di José Afonso, il cantautore della libertà, si diffusero per tutto il paese, mentre dalle caserme i capitani si incamminavano verso la conquista dei luoghi strategici del potere. Alle 7,30 i militari diramavano un comunicato radio nel quale palesavano i loro obiettivi: ritorno alla democrazia, elezioni libere e fine della guerra coloniale. Alle 18.00, Marcelo Caetano, asserragliato sulla collina del Carmo, sede della Guarda Nacional Republicana, consegnava il potere nelle mani del generale Spinola. Poco distante, la Pide sparava una raffica di mitra contro i manifestanti, provocando gli unici due morti della giornata rivoluzionaria.
Il 25 aprile del 1974, a Lisbona, non fu un giorno come gli altri innumerevoli che l’avevano preceduto, perché da allora, per il Portogallo, la storia prese un’altra strada. Tuttavia, i problemi da risolvere erano enormi e sessant’anni di dittatura non potevano essere cancellati in un momento. Più e più generazioni si erano formate nelle scuole del regime e non esisteva una classe politica a cui rifarsi come era avvenuto per esempio in Italia. Servivano soldi, molti soldi per ridare dignità a una popolazione terribilmente povera, ma il mondo viveva la più grande crisi economica del dopoguerra e di soldi da ridistribuire ce n’erano pochi. Occorrevano nuovi dirigenti, nuovi partiti e una nuova costituzione. In meno di ventiquattro ore, il Portogallo dovette abbandonare ciò di cui era stato sempre orgoglioso: l’impero. In meno di ventiquattro ore il Portogallo girava le spalle all’Africa per tornare in Europa.

Politica e democrazia
Tre furono le grandi forze intorno a cui si ricostruì la democrazia: il Partito comunista portoghese (PCP) di Alvaro Cunhal, l’unico che poteva vantare una certa continuità di azione durante tutto il periodo della dittatura, il Partito socialista (PS), guidato da Mario Soares e il Partito popolare democratico (PPD) di Francisco de Sá Carneiro, partito figlio della ‘primavera marcellista’ e già presente nel parlamento della dittatura. A fianco di queste tre forze si sviluppò, al di fuori dei partiti, un forte movimento popolare. Negli anni ’74 e ’75 sembrava che tutto ciò che era stato represso per più di mezzo secolo dovesse sfogarsi in un momento solo. Il “potere cadde nelle strade” titola un libro dedicato allo studio di quegli anni.
Non tutti gli equilibri si erano però stabiliti in quel 25 aprile, al contrario molte erano le strade che avrebbe potuto imboccare il paese: democrazia, golpe di sinistra, golpe di destra. Nel marzo del 1975, quando mancava appena un mese alle elezioni per l’Assemblea costituente, militari fedeli al generale Spinola tentarono, senza riuscirvi, di prendere il potere e guidare, soli, il processo di costruzione di un nuovo regime. Fu in questo clima incandescente che si tennero le elezioni del 25 aprile: fino ad allora nessuno aveva idea di quale sarebbe stata la forza su cui i partiti potevano contare. Il PCP era sicuramente la formazione che più aveva sofferto durante tutta la dittatura e il suo leader, Cunhal, dal 1937 al 1974 aveva vissuto la sua vita tra la clandestinità, la prigione e l’esilio. Dall’altro lato vi era il PS di Soares, il partito che più avrebbe garantito una transizione morbida al paese. Le elezioni furono vinte dai socialisti (38%), seguiti dal PPD con il 26,4%, mentre il PCP ottenne appena il 12,5%. Dopo l’estate calda del ’75 gruppi alla sinistra del Partito comunista tentarono la via armata, che, se pur facilmente neutralizzata, fu comunque fonte di delegittimazione per il PCP, accusato, ingiustamente, di essere uno dei principali responsabili.

Le elezioni del 1976
Fu dopo il novembre del ’75 che il quadro politico si fece decisamente più chiaro. Il 2 aprile del ’76 si conclusero i lavori dell’Assemblea costituente e il 25 aprile dello stesso anno si tennero le elezioni legislative. Sebbene il modello costituzionale scelto fosse quello del semipresidenzialismo alla francese, con un capo dello stato eletto dai cittadini, nella pratica la prassi tuttora in uso rende simile il modello portoghese a quello italiano che vede la sua centralità nel parlamento.
Il sistema elettorale adottato dai costituenti fu quello proporzionale, sebbene corretto in modo da scoraggiare il più possibile la frammentazione politica. I grandi vincitori delle elezioni furono ancora una volta i socialisti di Soares, con il 34% dei voti. Al secondo posto si affermò il PPD che, nel frattempo, era venuto a chiamarsi Partito social democratico (PSD, di centro destra). Il PCP sarebbe arrivato solamente quarto con il 14,4%, superato da un’altra forza di destra, il Centro democratico social (CDS), che con il 16% era il terzo partito. A chiudere un lungo percorso di stabilizzazione vi furono infine le elezioni del capo dello stato che videro la vittoria del generale Ramalho Eanes, candidato del PS, PSD e CDS contro uno degli eroi della rivoluzione, Otelo de Carvalho.

Il mercato dei crediti di carbonio è alla canna del gas

Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=20208

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Elena Gerebizza, Re:Common per greenreport.it

Salvare o non salvare il mercato europeo del carbonio (Emissions Trading Scheme – ETS) e come farlo? È questo il dilemma che attualmente a Bruxelles sta spaccando politica, istituzioni, industria e finanza. Il mercato dei crediti di carbonio è alla canna del gas. La scorsa settimana il prezzo dei permessi di emissione europei è sceso a 2,81 euro alla tonnellata, il 40 per cento in meno rispetto alla settimana precedente. La causa scatenante è rappresentata dal voto della Commissione industria al Parlamento europeo, che si è espressa contro il primo intervento programmato dalla Commissione europea per salvare l’ETS. Ovvero ritardare l’emissione di 900 milioni di permessi di emissione di carbonio per il 2013-15, onde evitare un ulteriore crollo dei prezzi.

Lo schema ETS, operativo dal 2005, è stato disegnato sulla promessa che il mercato avrebbe definito il prezzo del carbonio, facendolo aumentare nel corso del tempo fino a toccare i 30 euro a tonnellata nel 2013. Invece il mercato non solo non ha funzionato, ma ha mostrato tutte le sue contraddizioni. Al punto che la liberista Commissione europea vuole intervenire pur di impedire che il prezzo del carbonio tocchi lo zero storico e il mercato ETS si dissolva come neve al sole.

Se l’obiettivo è influenzare il prezzo del carbonio, un semplice ritardo nell’emissione dei permessi sembra poco risolutivo. Al contrario, darebbe a mercati e investitori ancora di più la possibilità di speculare sulle variazioni del prezzo a venire, fino al crollo quando gli stessi attori deciderebbero di far saltare tutto.

Se poi l’obiettivo fosse quello di ridurre le emissioni complessive, cosa che fino ad oggi l’ETS non è riuscito a garantire, la creazione di nuovi permessi avrebbe ancor meno senso, né ora né nei prossimi anni, vista la sovrabbondanza sul mercato. E quindi?

Ritardare l’emissione dei permessi è solo la prima delle misure urgenti pensate dalla Commissione per “salvare” l’ETS, sottoposte a una consultazione pubblica che si concluderà il 28 febbraio. Mancano tuttavia diversi elementi per informare la discussione. A partire da una trasparente valutazione degli impatti di ciascuna delle riforme strutturali proposte, sull’industria e sul sistema produttivo, e il loro effetto trasformativo per la società. Salvare l’ETS significa dare all’Europa la possibilità di risolvere la crisi economica, ambientale e climatica? O significa semplicemente garantire agli investitori l’occasione di continuare a speculare, e alla grande industria di inquinare grazie al trucchetto delle compensazioni (offsets)? E quale sarebbe il costo per i cittadini europei di ciascuna delle riforme proposte dalla Commissione?

Visto che si tratta di un meccanismo che non ha saputo raggiungere i propri obiettivi, l’unica opzione di buon senso sarebbe quella di lasciar perdere. Meglio chiudere l’ETS e cominciare a ragionare su politiche e regolamentazioni che vadano nella direzione di raggiungere gli obiettivi al cuore della questione climatica: tagliare le emissioni collegate all’economia reale e incentivare la transizione verso un modello economico svincolato dai combustibili fossili e in armonia con l’ambiente, capace di generare lavoro sui territori e di mettere fine alla distruzione ambientale e alle violazioni dei diritti prodotti dal sistema attuale. E’ questa la proposta mossa da una quarantina di organizzazioni – tra cui Re:Common – da oggi aperta all’adesione da parte di altri gruppi e movimenti a livello internazionale (http://scrap-the-euets.makenoise.org/italiano/). L’obiettivo è aprire uno spazio politico di discussione e proposta per parlare di ciò che realmente serve e non solo e unicamente di mercato.

 

Gli assassini del XXI secolo

Testo e foto: Mauro Villone
Fonte:  http://unaltrosguardo.wordpress.com/2013/01/26/gli-assassini-del-xxi-secolo/

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Un’equipe dell’università di San Paolo del Brasile ha fatto una ricerca molto interessante, dalla quale sono emersi diversi dati, tanto per cambiare, molto preoccupanti. In estrema sintesi su 6,7 miliardi di persone che vivono sul pianeta 1 miliardo patisce seriamente la fame. Ma se si prende in considerazione quello che l’equipe di ricercatori chiama “fame occulta”, ovvero una fame che non viene avvertita fisicamente, ma si manifesta nella denutrizione per mancanza di elementi fondamentali quali proteine, vitamine, oligoelementi e via dicendo, il numero delle vittime sale a 3 miliardi. Quasi la metà dell’intera popolazione del pianeta. Se a questo aggiungiamo, e qui si tratta di osservazioni personali, che c’è gente che non patisce la fame, ma vive in condizioni di indigenza, miseria o povertà, ci accorgiamo che chi se la passa bene sulla terra è una minoranza di privilegiati. Una minoranza che spesso crede di vivere in un mondo reale, mentre invece è più come un set di Hollywood o Cinecittà, bello da vedere, ma con niente dietro. A Rio de Janeiro, dove vivo, c’è la zona sud dei ricchi, con le sue favelas certo, ma che stanno affannosamente cercando di lucidare in vista di Mondiali e Olimpiadi. Mentre nella famigerata Zona Norte, di cui ho descritto solo un pezzettino, cracolandia, in un mio precedente articolo, viene spinta la spazzatura e la feccia umana. Dai tossici ai narcotrafficanti, dai poveracci qualsiasi ai senza tetto. La Zona Norte è un’estensione gigantesca di baracche, viadotti e orribili edifici della quale non si vede la fine. Nairobi, Città del Messico, Manila, San Paolo, Buenos Aires, Capetown, Lagos, sono solo alcuni esempi di altre metropoli gigantesche che ormai hanno periferie suburbio a perdita d’occhio, senza capo né coda e incontrollabili. I programmi di aiuto sono una finzione. La maggior parte delle organizzazioni umanitarie mondiali sono carrozzoni che si autosostentano con fondi rastrellati qua e là dei quali arriva ben poco ai veri bisognosi.

Il Brasile viene sbandierato a destra e a sinistra come un paese in crescita e in sviluppo che sta combattendo la miseria. Senza dubbio un po’ di sviluppo c’è e in alcune aree stanno migliorando le attenzioni. Ci sono nuove aziende, nuovi servizi, ma tutto è circoscritto a minoranze, spesso strumentalizzate per le pubbliche relazioni internazionali. Vediamo cosa accade.

Negli ultimi due anni, dice il governo, 18 milioni di persone sono entrati nella classe media e hanno un lavoro, una casa e possibilità di crescita. 18 milioni di persone sono il 10% della popolazione, ma il governo evita di entrare nei particolari sulla qualità della vita di queste persone. Hanno sì un po’ più di più potere d’acquisto, ma per comprare cianfrusaglie inutili e cibi non esattamente salutistici in orrendi centri commerciali. A Sao Luiz, nel Maranhao, per costruirne uno vicino alla città hanno addirittura abbattuto una foresta. Quello che la gente non riesce a comprare cash, che è quasi tutto, viene venduto a rate per incentivare i consumi. A rate si possono comprare persino scarpe, ali di pollo, cene da 10 euro, magliette, auto, qualsiasi cosa. Ma l’educazione in paesi come il Brasile, il Messico, l’Argentina, rimane rigorosamente una cosa da ricchi. Le scuole “buone” possono costare 1.000 euro al mese. I poveracci non imparano nemmeno a parlare la lingua del loro paese. Dappertutto, grazie al crescere dei consumi della “classe media”, aumentano a dismisura i rifiuti e l’inquinamento. Il traffico è invivibile, i consumi di carburante stratosferici. Ma anche la violenza non è da meno. In Brasile la violenza sulle donne è aumentata del 27% in 4 anni. 50.000 bambini l’anno spariscono, per lo più perché violentati e uccisi. In Messico il 10% dei bambini delle scuole ha subito violenze regolari in famiglia o occasionalmente per strada. Sempre in Messico, ma anche in altri paesi, come per esempio l’India, la parità tra uomo e donna al massimo è una barzelletta. Che non fa ridere nessuno però.

Ma vediamo altri numeri. Sempre secondo i ricercatori dell’Università di San Paolo solo 4 alimenti coprono il 27% dell’alimentazione mondiale. Questo dato ci dice che la biodiversità sta andando a farsi benedire.

Sempre secondo gli stessi ricercatori la biodiversità, e qui arrivo al motivo del titolo di questo articolo, è uccisa, tra le altre cose, dalla crisi finanziaria. Gli assassini dei miserabili, degli affamati, della biodiversità, sono proprio gli speculatori finanziari che per fare soldi finti hanno indotto una crisi planetaria terribile. La miseria, che so, di Calcutta, endemica, ma in crescita come ovunque, è in parte dovuta alle stesse cause a cui possono dire grazie gli 8 milioni tra disoccupati e nuovi poveri italiani. L’avidità di relativamente pochi sta ammazzando molti. Come? È semplice. I ricercatori hanno spiegato che le grandi finanziarie hanno in mano anche il sistema alimentare mondiale e con esso la registrazione delle sementi e gli organismi geneticamente modificati. In parole povere se prendiamo ad esempio la piccola patata delle Ande, cibo ricco di elementi, base dell’alimentazione per centinaia d’anni o millenni per gli abitanti di remote regioni del Perù, viene via via abbandonata poiché non è più conveniente produrla. Costa meno acquistare alimenti, come per esempio il riso, prodotti altrove a minor costo. Questo apparente risparmio è in realtà una condanna a morte culturale ed etnica, ma anche fisica, poiché intere popolazioni di ogni dove cadono così nelle mani dei giganteschi produttori mondiali. È vero che un giorno in teoria si potrebbero riprendere le antiche coltivazioni, ma non è così semplice poiché si vanno perdendo le conoscenze, le sementi, la continuità. Slowfood e Terra Madre stanno facendo molto per questo, ma purtroppo l’imperatore Petrini è molto accentratore. Si tratta di una grande organizzazione, ma che da sola non può affrontare l’enormità del problema che ci troviamo di fronte. Un nuovo umanesimo bisogna farlo in tanti, non una sola organizzazione con un marchio registrato. Altrimenti diventa semplicemente un servizio di qualità ben inserito nel panorama di mercato attuale. Il problema è serio, lo strapotere alimentare e agricolo ha prodotto anche molti suicidi in tutto il mondo.

In sostanza la crisi finanziaria in una società globale come sta diventando la nostra, non può più essere ignorata nemmeno da chi non è interessato al denaro e al capitalismo, poiché, come un cancro, sta distruggendo anche società e regioni remote con la speculazione, l’utilizzo indiscriminato di risorse e, soprattutto, creando un mondo fatto di megaproduzione, megadistribuzione, marchi registrati, pochissima diversità e in mano a pochi individui.

La crescita di paesi come il Brasile (ma anche molti altri, come quelli del famoso BRICS) è fasulla. È basata sull’iperproduzione industriale di cianfrusaglie di bassa qualità e inutili, vendute e rate, con conseguente enorme necessità di energia prodotta a scapito della salute e del territorio. Nella realtà aumentano i disperati e la violenza, i tossici e il senso di inutilità, mentre a dispetto dei 18 milioni di miracolati entrati nella meravigliosa classe media, la forbice economica si allarga sempre di più. Senza contare che i “miracolati” presto si troveranno con un fisso di rate da pagare che li inchioderà al muro, come è successo in altri paesi, USA compresi, anni fa.

Le popolazioni indigene sono considerate ovunque, come lo erano nel periodo coloniale, solo una seccatura. L’ideale per governi del genere sarebbe quello di sterminarle. Vengono buttate fuori dai loro territori e vengono distrutte le loro case, come avviene in Amazzonia. Vengono fatti fuori con droga e malattie. Il crack si sta diffondendo enormemente nei villaggi rurali. In Sudamerica ormai crack e cocaina costano pochi centesimi di euro poiché la produzione è massificata e i governi sono conniventi con i produttori. Molti, in diversi paesi del centro e Sudamerica, sono invece proprio braccati e uccisi dai latifondisti. I più fortunati sono quelli che abbandonano l’orgoglio personale ed etnico per abbassare la testa ed entrare anche loro, buoni buoni, nella fottutissima classe media, se ci riescono. Altri, i sopravvissuti, sono oggetto del turismo etnico, ed essendo le loro tribù ormai ridottissime, si sposano tra parenti generando dei bambini con gravissimi difetti fisici che sono costretti, vista la durezza delle condizioni in cui vivono, ad abbandonare nella foresta, come accade in Perù. Altri ancora sono oggetto di traffico di esseri umani, come accade ad esempio ai confini tra Brasile e Paraguay e tra Brasile e Bolivia.

In realtà le popolazioni indigene sarebbero portatori di conoscenze millenarie che forse potrebbero essere determinanti per la salvezza del pianeta sia sul piano logistico che, ancora di più, su quello umano e spirituale. Gli assassini del XXI secolo, che vengono venduti come i winner della nostra epoca, sono in realtà solo dei poveracci perdenti e inconsapevoli che credono di vincere, nient’altro che un cancro che alla fine distrugge anche l’organismo che lo ospita e quindi se stesso.

I razionali e i cinici probabilmente pensano che quanto ho scritto sia solo frutto di una visione allarmista e che la meravigliosa tecnologia del XXI secolo risolverà tutto. Magari, vorrei che fosse così. Purtroppo invece credo che siano gli assassini del XXI secolo che dovranno aprire gli occhi e guarire anche loro dall’avidità, dalla stupidità e dal bisogno di prevaricazione che si stanno mangiando tutto.

 

Germania rimpatria oro. Motivo? Rischio di una grande crisi globale

Fonte: http://www.wallstreetitalia.com/

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Crisi valutaria, implosione dell’euro, o fallimento Usa: Berlino agisce prima che sia troppo tardi. Rumor: anche l’Olanda si prepara. D’altronde i lingotti non sono solo commodity e strumenti di trading. Sono moneta: che può essere utilizzata quando tutto il resto fallisce.

ROMA (WSI) – La Germania riporterà in patria circa 36 miliardi di dollari in oro dai depositi negli Stati Uniti e in Francia. Ha affidato a una nota il suo messaggio la Bundesbank: lì in poche righe, la Banca centrale del paese ha comunicato il rientro entro il 2020 nelle casse tedesche di 374 tonnellate d’oro immagazzinate a Parigi. Mentre ulteriori 300 tonnellate faranno ritorno in Germania da New York. Calcolatrice alla mano, entro il 2020 la Germania distribuirà l’oro in modo da avere la metà delle sue 3.400 tonnellate a Berlino, mantenendo il 37% delle riserve a New York e il 13% a Londra.

Secondo gli esperti dietro queste manovre di rientro del metallo prezioso c’è una strategia chiara che a qualcuno sfugge, dal momento che la Germania possiede già parecchio oro in casa, le riserve complessive della Banca centrale tedesca che ammontano a 183 miliardi di dollari in oro rappresentano circa il 10% di tutto l’oro mondiale e un simile trasloco ha costi notevoli.

Cosa sta succedendo? Gli economisti sono convinti che la Bundesbank ritenga plausibile una crisi anche di grande proporzione. I media, infatti, spesso non pongono l’accento sul fatto che, in caso di eventuale fallimento degli Stati Uniti, implosione dell’euro o di una catastrofe finanziaria di grande portata, l’accesso all’oro sarebbe quasi certamente limitato.
Insomma, se la Germania volesse rientrare in possesso del suo oro in tempi di crisi conclamata, qualsiasi richiesta di trasferimento sarebbe difficile da concretizzarsi e, come minimo, ci sarebbero ritardi.

Nel peggiore dei casi tali richieste potrebbero essere negate, a seconda della circostanza del momento. Ecco spiegato dunque perché Berlino ha deciso di non aspettare più tempo. Si sta probabilmente preparando a fronteggiare un evento di grande portata: che forse non è probabile che accada nel breve termine, ma che è sicuramente possibile. L’atteggiamento della Germania conferma e anzi rafforza il fatto che l’oro, alla fine, è sinonimo di moneta. Il lingotto fisico, in definitiva, non è solo una commodity, o un veicolo per fare trading giornaliero, o anche un investimento. E’ una protezione, un hedge che protegge contro determinati eventi: e, in casi estremi, diventa qualcosa che può essere utilizzato per pagare beni o servizi, quando tutti gli altri mezzi di pagamento falliscono.

E visto che ormai si parla di crisi valutaria, visto che la stessa Bundesbank è consapevole di questo rischio, si decide di rimpatriare, a maggior ragione, le quantità dell’oro. Purtroppo c’è da ricordare un particolare che viene spesso dimenticato: nessuna valuta dura per sempre. E a questo punto una crisi valutaria è inevitabile visto che niente è mutato nei livelli dei debiti dei paesi mondiale, dei deficit, nella stampa di moneta: a parte il fatto che tali fenomeni continuano a crescere.

E ora ci sono rumor secondo cui anche l’Olanda e l’Azerbaijan sono pronti a rimpatriare parte dell’oro dislocato all’estero. Corsa all’oro come corsa agli sportelli?

MASSACRO IN ETIOPIA: DOVE SONO I MEDIA ITALIANI?

Fonte: Pubblicato da Rumore Viola
Fonte: http://ruomoridalmondo.blogspot.it/2013/01/massacro-in-etiopia-dove-sono-i-media.html

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MEDIA ITALIANI: DOVE SIETE?

La notizia del massacro del Governo etiope è stata riportata in alcuni media esteri. Dove sono i media italiani?

Il 28 dicembre 2012, 147 membri della tribù dei Suri, la maggior parte dei quali donne e bambini, sono stati massacrati dai soldati governativi etiopi, che volevano sfrattarli dai loro terreni.

I Suri vivono nel sud dell’Etiopia nella zona Maji e sono divisi in tre gruppi: Chai, Tirmaga e Balessa. Suri è un nome che identifica tutti e tre i gruppi. Questi gruppi sono simili ai Mursi che vivono oltre il fiume Omo, nella parte est. Queste quattro tribù hanno usi e culture similari e la stessa lingua.

Oggi sono tutti vittime di espropri dei loro terreni da parte di investitori stranieri favoriti dal governo etiope. Le azioni di questi investitori stranieri supportati dal Governo sono catastrofiche per queste popolazioni.

La italiana Salini S.P.A. è coinvolta nella costruzione di una diga (denominata GIBE III) sul fiume Omo, fiume che con le sue piene stagionali regola da sempre il flusso idrico di queste zone. La diga dovrebbe entrare in funzione nel 2014 e sarà una delle più imponenti di tutta l’Africa, andando a sconvolgere l’ecosistema della valle dell’Omo.

Il motivo dei massacri dipende dai piani di reinsediamenti delle popolazioni locali da parte del Governo etiope, dal momento che questa area è stata data in locazione a una compagnia mineraria per l’estrazione dell’oro. I Suri hanno resistito a spostarsi lontano dall’area e le persone che lavorano per la compagnia quindi hanno difficoltà ad espandere gli scavi. Il mattino i militari etiopi sono arrivati nel villaggio Balessa Suri di Beyahola (che significa roccia bianca) e hanno circondato gli abitanti del villaggio. Hanno poi arrestato tutte le persone del villaggio, uomini, donne e bambini e hanno legato le mani a tutti. li hanno poi condotti nella foresta ed hanno sparato a tutti loro, eccetto sette ragazzi che sono riusciti a fuggire. Era un villaggio di 154 persone. La ragazza nella foto è una delle persone uccise.

Il Governo etiope ha tentato in tutti i modi di far si che le persone non riportassero la notizia del massacro ma grazie a Dio la notizia è trapelata.

Come possono i governi, compreso quello italiano, appoggiare il Governo etiope coinvolto in questa strage? Non si suppone che i nostri governi siano contro il terrorismo?

I corpi sono stati poi seppelliti in fosse comuni nella foresta. Qualcuno è stato gettato nelle vicine miniere non lontane. Qualche altro è stato lasciato sul posto preda di avvoltoi e iene. La maggior parte dei bambini sono stati gettati nel fiume Akobo. Dopo il massacro i militari hanno minacciato di fare anche peggio a quelli che avrebbero parlato dell’episodio.

Il massacro delle tribù dei Suri sta ancora procedendo e diventa peggio ogni giorno che passa ma ci sono rare testimonianze di ciò che succede in quella zona e si può capire il perché.

Media italiani: DOVE SIETE? DOVE SIETE? DOVE SIETE?

Un sito estero che riporta la notizia
//ireport.cnn.com/docs/DOC-907872

Cina: diplomati, laureati, e disoccupati

Scritto da: debora Billi
Fonte: http://crisis.blogosfere.it/2013/01/cina-diplomati-laureati-e-disoccupati.html

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I laureati cinesi schifano il lavoro in fabbrica. Che, nel frattempo, è diventato quasi appetibile per i laureati italiani…

Curioso il fenomeno che si va verificando in Cina. Ricorda un po’ quello che accadde in Italia intorno agli anni ’70, seppur con l’accelerazione tipica dei nostri tempi.

I giovani cinesi, a milioni, si stanno diplomando e laureando nelle Università. E’ finita l’epoca del contadino cinese che zappa in qualche sperduta campagna… ma sembra anche finita l’epoca del contadino che corre in città pensando di trovare il paradiso in qualche fabbrica del mercato globale. I ragazzi cinesi, in fabbrica, non vogliono andarci più.

Non considero e non considererò mai l’ipotesi di andare a fare l’operaio, perché dovrei star lì seduto ore ed ore a compiere un lavoro ripetitivo? Così afferma uno dei tanti diplomati, al New York Times. Il risultato è che le industrie non riescono più a trovare lavoratori da impiegare alla catena di montaggio dei gadget, del tessile, della meccanica malgrado l’aumento dei salari e appetibili benefit, e i milioni di diplomati e laureati si ritrovano a spasso, senza lavoro perché i posti da “colletti bianchi” in Cina si contano ancora sulla punta delle dita.

Ingegneri, scienziati, le università ne sfornano a pacchi. Tutti si aspettano un lavoro e soprattutto uno stipendio adeguato ai loro studi, e non lo trovano. Un cul de sac.

Comunque, qualora qualche laureato qui stia meditando di andarsene in Cina ad accettare il lavoro in fabbrica che i cinesi schifano, sappiate che non è più così male: gli stipendi sono arrivati a 400 dollari al mese (più di uno stage in Italia), niente più dormitori ma appartamentini da due persone gratuiti (risolto il problema della convivenza con la fidanzata), e c’è anche un bonus in più per ogni mese che rimanete al lavoro.

Insomma: mentre i giovani cinesi si illudono di poter fare tutti in massa gli ingegneri, forse è il caso di andare a lavorare in Cina prima che l’Europa ci cinesizzi definitivamente. Anche perché qui, sicuramente, faranno di peggio.

Foto – Flickr