Renzi incontra alpino di 101 anni, ‘lunga vita al governo’

Fonte: http://www.ansa.it/

Adunata Alpini: per Renzi bagno di folla e picchetto d'onore“Gli Alpini sono un esempio per l’Italia”. Non ha dubbi Matteo Renzi, contagiato dall’entusiasmo delle Penne Nere nell’Adunata nazionale di Pordenone. Da oltre venti anni un presidente del Consiglio non prendeva parte alla manifestazione, nonostante la presenza costante di ministri e, talvolta, di Presidenti della Repubblica. Per il premier è stato dunque un battesimo tra le penne nere, alle quali ha elargito sorrisi e applausi durante la sfilata e dalle quali è stato ricambiato con altrettanto entusiasmo. A vederla dall’esterno, quella di Renzi per gli alpini è sembrata un pò la scoperta di un mondo. A Pordenone, secondo le stime, sono arrivati in 450 mila. La sfilata, cominciata alle nove del mattino, si è protratta fino a sera e ha visto protagonisti circa 70 mila Alpini, tra reparti in armi e in congedo al suono di fanfare e cori. In questa grande festa, per Renzi è stato un autentico bagno di folla. Il premier, accompagnato dalla presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, è stato accolto dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, dal capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, dal capo si Stato maggiore dell’Esercito, Claudio Graziano, e dal presidente dell’Associazione nazionale Alpini, Sebastiano Favero. Renzi ha passato in rassegna il picchetto d’onore degli Alpini, poi dalla tribuna d’onore ha ascoltato l’Inno di Mameli e ha assistito al passaggio delle Frecce Tricolori che hanno sfrecciato su Pordenone portando il saluto all’Adunata. L’entusiasmo alpino, dunque, ha contagiato Renzi, così come il ministro Pinotti. Entrambi sono scesi tra la gente e si sono intrattenuti, senza formalità, con reduci e giovani feriti in operazioni all’estero. Un entusiasmo che il premier ha voluto testimoniare in un esplicito tweet mentre rientrava a Roma: “Marco figlio di medaglia d’oro. Luca reduce e futuro sposo. Cristiano, che fece la Russia. Speranza e orgoglio: bella l’Italia degli Alpini”. E a Matteo Renzi non è mancato neppure l’incoraggiamento di un reduce di 101 anni al quale ha stretto la mano: “Vai avanti così!” ha detto il centenario al premier.

Cambiando gli elettrodomestici la bolletta elettrica può calare di 400 euro l’anno

Fonte: http://www.improntaecologica.it/

1391Secondo un’indagine di Facile.it, il sito italiano comparatore di tariffe, per riuscire a risparmiare in media 400 euro ogni anno è sufficiente sostituire gli elettrodomestici più usati con apparecchi nuovi di classe energetica migliore.
Nello specifico lo studio sostiene che le famiglie italiane potrebbero ogni anno risparmiare 32 euro sostituendo il frigorifero con uno in classe A+, 19 euro cambiando la lavastoviglie con una in classe A, 18 euro il forno elettrico ad alta efficienza, 35 euro con un televisore a LED anziché a tubo catodico, 14 euro con una nuova lavatrice in classe A+.
Solo poi sostituendo le lampadine a incandescenza con altre a basso consumo arriverebbero a risparmiare più di 190 euro.
E non è tutto: un ulteriore risparmio lo potrebbero ottenere con la sostituzione del condizionatore che se aggiornato con unità in classe A++ farebbe tenere loro in tasca ben 118 euro.
Così il commento di Paolo Rohr, responsabile della business unit Energia di Facile.it: “Nella sostituzione degli elettrodomestici spesso ci si fa scoraggiare dal prezzo del nuovo o anche dal fatto che, semplicemente, quelli che abbiamo in casa funzionino ancora bene, ma quello che non valutiamo correttamente è il costo nascosto di questi strumenti. Oggi, approfittando anche degli incentivi governativi, sostituire i vecchi elettrodomestici con altri in una classe energetica migliore può essere di grande aiuto all’economia delle famiglie”.

SUCCESSO COLOSSALE DELL’UNGHERIA DI ORBAN! CRESCITA ECONOMICA AL RITMO DELLA CINA: +8,1% A FEBBRAIO! (+6,1% A GENNAIO!)

Scritto da: Max Parisi
Fonte: http://www.ilnord.it

ar_image_2953_lBUDAPEST – La crescita della produzione industriale ungherese ha un’accelerazione insapettata perfino per gli analisti più ottimisti. Gli ultimi dati resi noti per il mese di febbraio 2014 mostrano un tasso di sviluppo e di crescita che è il più alto e veloce degli utlimi tre anni. Questo indicano i dati preliminari dell’Ufficio Centrale di Statistica ungherese resi pubblici ieri.

L’indice della produzione industriale è aumentato di uno straordinario 8,1% anno su anno a febbraio, dopo una crescita del 6,1% nel mese di gennaio. Gli economisti avevano previsto una crescita del 5,9 per cento.

La produzione è cresciuta per il sesto mese consecutivo. Nei primi due mesi dell’anno, la produzione industriale è aumentata mediamente del 7,1% rispetto a un anno fa.  L’ufficio statistico è prevista per rilasciare i dati dettagliati sulla produzione industriale il 14 aprile.

Questo risultato porta l’Ungheria ad affiancare addirittura la Cina quanto a sviluppo dell’attività economica industriale e manifatturiera. E’ fuor di dubbio che questo risultato sia la prova provata della giustezza delle scelte politiche del governo Orban, che ha reciso le catene che costringevano l’Ungheria a sottostare alle folli politiche economiche dell’Unione Europea e della Banca Centrale Europea.

Bruxelles e Francoforte sono state abbandonate da Orban al loro destino infausto, e infatti mentre l’Ungheria sta crescendo al ritmo di Shanghai, la Zona euro si sta inabissando come il Titanic.

Non pensiamo servano molte altre parole per far capire che senza l’euro-BCE si prospera, con l’euro-BCE si muore.

Gli ultimi crociati. La Falange cristiana in Libano

Scritto da:  Lawrence sudbury
Fonte:http://www.centrostudilaruna.it/falange-cristiana-in-libano.html

Erano piombati alle nove d’un mercoledì sera, i falangisti di papà Gemayel… E con la complicità degli israeliani, sempre lieti di soddisfare la loro inesauribile sete di vendetta, avevano circondato i due quartieri per bloccarne ogni via d’uscita. Una manovra così veloce, perfetta, che pochi avevano avuto il tempo di nascondersi o tentare la fuga. Poi, fieri della loro fede in Gesù Cristo e in San Marone e nella Madonna, protetti dai figli d’Abramo che gli illuminavano la strada coi riflettori, erano irrotti nelle case. S’erano messi ad ammazzare i disgraziati che a quell’ora cenavano o guardavano la televisione o dormivano. Avevano continuato tutta la notte. E tutto il giorno seguente. E tutta la notte seguente, fino a venerdì mattina. Trentasei ore filate. Senza stancarsi, senza fermarsi, senza che nessuno gli dicesse basta. Nessuno. Né gli israeliani, ovvio, né gli sciiti che abitavano negli edifici attigui e che dalle finestre vedevano bene l’obbrobrio. E fortunati gli uomini uccisi subito a raffiche di mitra o colpi di baionetta, fortunati i vecchi sgozzati nel letto per risparmiare le munizioni. Le donne, prima di fucilarle o sgozzarle, le avevano violentate. Sodomizzate“.

Così Oriana Fallaci descrive nel suo Inshallah del 1990 i massacri di Sabra e Chatila compiuti tra il 16 e il 18 settembre 1982, quei massacri per i quali la Falange maronita rimarrà tristemente nella storia come una delle più feroci unità militari di sempre.

Ma chi erano, chi sono, al di là di questa macchia che ne infangherà per sempre il nome, i “Kataeb”, i falangisti libanesi, e come poterono arrivare, con la complicità degli israeliani del criminale di guerra Sharon, ad un tale livello di atrocità?

Non è facile rispondere a questa domanda, perché la storia della Falange si interseca inestricabilmente con quell’incredibile intreccio di eventi, alleanze e scissioni che forma la storia libanese dall’indipendenza alla guerra civile.

Cerchiamo di partire dall’inizio, da quell’inizio in cui la parabola del Kataeb corrisponde a quella di un uomo che fonderà una delle più potenti “dinastie” mediorientali: Pierre Gemayel.

Pierre Gemayel (1905-1984)

Nato in Egitto (dove la famiglia Gemayel era dovuta emigrare per la sua opposizione all’Impero Ottomano), cattolico, farmacista a Beirut ma soprattutto capitano della nazionale di calcio libanese, Pierre nel 1936 aveva partecipato ai giochi olimpici di Berlino, rimanendo impressionato dall’ordine e dall’organizzazione dei nazisti, quello stesso ordine e quella stessa organizzazione che, secondo lui, erano quanto più mancava al Medio Oriente. Per questo, tornato a casa, si diede da fare con i politici William Hawi e Charles Helou per creare una organizzazione giovanile che rispecchiasse quell’idea di ordine e che si rifacesse ideologicamente al conservatorismo ultrareligioso franchista. Fu così che nacque il Partito Social-democratico Libanese, più comunemente conosciuto come “Kataeb” (in arabo “Falange”), un partito che, nonostante le sue origini, nonostante le “camice brune” dei suoi militanti, nonostante il suo saluto romano, non fu mai né nazista né, probabilmente, neppure fascista, ma che era destinato ad essere il braccio politico del Cristianesimo tradizionalista maronita e del nazionalismo libanese, dei quali, con il suo moto “Dio, Nazione, Famiglia” voleva difendere i valori.

Anche qui, però, dobbiamo fare molta attenzione a non confondere tra Maroniti e falangisti: se tutti i falangisti furono maroniti, non è vero il contrario e, anzi, il fronte cristiano maronita fu molto diviso sia durante la fase di liberazione dal colonialismo francese che, soprattutto, durante la guerra civile, con frange anche radicalmente anti-falangiste.

Inizialmente, comunque, il partito non ebbe un grandissimo seguito: nella lotta anti-coloniale, pur avendo una posizione molto netta a riguardo (e infatti fu reso illegale nel 1937 dal governo francese), con i suoi 35.000 iscritti  il Kataeb non era che una delle numerose forze del frastagliato panorama politico e etnico del Paese dei Cedri.

La vera ascesa di Pierre Gemayel e della sua fazione cominciò solo a partire dalla grande crisi del 1958, quando si ebbero i prodromi della tragedia nazionale di diciassette anni dopo. Le vicende di quel periodo sono ormai poco note al grande pubblico: il patto nazionale post-coloniale aveva assegnato la Presidenza della Repubblica ai Cristiani e, negli anni del nazionalismo pan-arabista imperante, il presidente Camille Chamoun aveva scontentato le fazioni scite e sunnite assumendo posizioni fortemente contrarie alla nazionalizzazione nasseriana del Canale di Suez e alla formazione di una Repubblica Araba Unita tra Egitto e Siria e fortemente favorevoli alla “Dottrina Eisenhower” di intervento statunitense in Medio Oriente. Quando si era già sull’orlo di una guerra tra fazioni religiose, proprio la “Dottrina Eisenhower” aveva salvato lo status quo, con lo sbarco di 15.000 marines americani a Beirut in una di quelle “operazioni di polizia” che sarebbero divenute poi tristemente ricorrenti. La pace era stata salvata, ma Chamoun si era dovuto fare da parte, lasciando spazio ad altri gruppi di rappresentanza della maggioranza maronita, primo tra tutti, appunto, il Kataeb: Gemayel era entrato nel “governo di unità nazionale” e, due anni, dopo, sarebbe stato eletto al parlamento in un seggio di “Beirut città” che non avrebbe abbandonato fino alla sua morte (pur non riuscendo mai a farsi eleggere Presidente).

Da quel momento in poi, fu un continuo crescendo per i falangisti, grazie soprattutto all’abilità del loro leader di destreggiarsi (spesso con notevole cinismo) nei meandri della complicatissima politica nazionale: alla fine degli anni ’60, con 9 seggi parlamentari, il Kataeb (ora alleato nella Alleanza Tripartita con gli altri due partiti maroniti, i Nazional-Liberali di Chamoun e il Blocco Nazionale di Eddé, per un totale, includendo gruppi minori, di 30 seggi su 99) risultava la più importante compagine cristiana del Libano, anche grazie alla sua ferma opposizione al grande elemento destabilizzatore del Paese, il continuo afflusso di Palestinesi sunniti nei campi profughi.

La domanda che dobbiamo porci è che cosa avessero i falangisti (e, più in generale, i Cristiani) contro i Palestinesi.

La risposta va ricercata in due fattori: in primo luogo nel fragilissimo equilibrio confessionale che regnava in Libano, un equilibrio che l’enorme numero di Sunniti che dal 1948 in poi stava riempiendo numerose aree di Beirut, Tiro e Sidone rischiava di alterare, soprattutto togliendo la maggioranza relativa ai Cristiani in favore dei Musulmani; in secondo luogo, nell’ultranazionalismo falangista che vedeva nella presenza di un numero sempre crescente di profughi  sotto il comando di Fatah e non del governo nazionale un cancro capace di minare l’unità del Libano.

Su questi presupposti, è, dunque, logico che il Kataeb si opponesse al grande esodo palestinese post-1967 e agli “Accordi del Cairo” imposti al Libano nel 1969 dalla comunità internazionale, che rendevano i campi profughi, di fatto, area extraterritoriale in cui l’esercito libanese non poteva entrare. Soprattutto, appare logico che, prevedendo (o forse solo temendo) un tentativo delle forze di Arafat di prendere possesso con la forza del governo di Beirut, Gemayel desse ordine di creare una milizia (la “Forza Regolare Kataeb” o KRF affidata a suo figlio Bashir), a lungo armata e sovvenzionata da Israele.

Arriviamo così al 1975, anno cruciale per il Libano in generale e per la Falange in particolare: il 1975 è l’anno in cui il Kataeb raggiunge il suo massimo storico di iscritti (80.000) e in cui tutti i nodi vengono al pettine, con l’inizio della guerra civile.

Tutto precipita a partire dal 13 aprile e il KRF è protagonista dell’episodio che, storicamente, dà il via alle ostilità. Alla mattina di quel giorno, fuori dalla Chiesa di Notre Dame de la Délivrance nel quartiere a maggioranza cristiana di Ain el-Rammaneh a Beirut Est, si verifica un alterco tra una mezza dozzina di feddayyn dell’OLP, su un veicolo di passaggio che svolge il consueto carosello sparando in aria (in arabo: “baroud“) e una squadra di miliziani del KRF che sta deviando il traffico dalla parte anteriore della chiesa, in cui si stava svolgendo un battesimo. La rissa provoca la morte del conducente del veicolo dell’OLP, colpito accidentalmente, ma, fino a questo punto, si tratta di uno dei numerosi incidenti piuttosto frequenti nel clima di tensione di quel periodo. Il problema è che un’ora dopo, quando gli invitati al battesimo sono tutti di fronte alla chiesa, una banda di uomini armati non identificati su due auto civili (abbastanza stranamente, tanto da poter far pensare ad una montatura, con manifesti e adesivi appartenenti al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, una fazione dell’OLP) improvvisamente apre il fuoco sui presenti, uccidendo quattro persone dell’entourage personale di Pierre Gemayel. Nel trambusto che segue, falangisti del KRF e  miliziani delle Tigri di Chamoun cominciano a istituire posti di blocco in tutti i quartieri cristiani di Beirut Est, mentre feddayyn palestinesi fanno lo stesso nei quartieri musulmani di Beirut ovest. La tragedia avviene verso le 12.30, quando un autobus di Palestinesi e Musulmani (tra cui donne e bambini) di ritorno da un comizio politico a Tel el-Zaatar e sulla via del campo profughi di Sabra viene attaccato dai falangisti, che uccidono 27 persone e ne feriscono altre 19. E’ l’ultima goccia: dopo il “massacro del bus” scontri tra Cristiani e Musulmani divampano in tutto il Paese, causando 300 morti, Gemayel non riconosce più il governo in carica del sunnita Rashid Al-Sulth (che aveva cercato, con l’intervento della Gendarmerie, di farsi consegnare i responsabili del massacro) e le forze si polarizzano, con, da un lato, i Musulmani di sinistra del Movimento Nazionale Libanese (MNL)  e, dall’altra, tutti i gruppi para-militari cristiani (KRF, Tigri, Al-Tanzim di ultra-destra, Brigata Marada del Presidente Franjieh, Guardiani dei Cedri di Etienne Saqr, Movimento Giovanile Libanese ultracattolico di Bashir Maroun El-Khoury,  Team Commando di Tiro nazisti) che, l’anno seguente, si sarebbero ufficialmente riuniti nel Fronte Libanese (FL).

Durante la guerra civile, il KRF si distinse per l’estrema violenza (oltre che per le vere e proprie azioni di racket criminale sulle zone da lui controllate) con cui attaccò non solo i nemici musulmani, ma anche i concorrenti alla leadership cristiana (la Brigata Marada e le Tigri furono, di fatto, distrutte proprio dai falangisti del Kataeb). Fu soprattutto la prima parte della guerra ad essere confusa. Dopo una serie di massacri (Karentina, Damour) perpetrati da entrambi gli schieramenti, nel giugno del 1976, con i Maroniti sull’orlo della sconfitta, il Presidente Suleiman Franjieh chiese l’intervento della Siria in Libano, formalmente per la difesa del porto di Beirut, la cui chiusura avrebbe arrecato un enorme danno economico a Damasco. Era una mossa disperata ma, inizialmente, Gemayel e il Kataeb si dimostrarono d’accordo. La Siria, da parte sua, accettò di appoggiare il governo maronita, staccandosi dall’alleanza stipulata con l’OLP, anche per eliminare i nuclei anti-Ba’athisti dei Fratelli Musulmani presenti in Libano. Questa mossa, tecnicamente, metteva la Siria dalla stessa parte del nemico storico Israele (che aveva già iniziato a rifornire le forze maronite con  armi, carri armati e consiglieri militari dal maggio 1976), ma, mosse dalla ragion di Stato, le truppe siriane entrarono in Libano, occupando Tripoli e la valle della Bekaa, vincendo facilmente le resistenze dell’MNL e dei Palestinesi e imponendo un cessate il fuoco che, comunque, non impedì il massacro di 2.000 Palestinesi da parte delle milizie cristiane nel campo profughi di Tel al-Zaatar.

Nel mese di ottobre 1976 la Siria accettò la proposta del vertice della Lega Araba a Riyadh, che le dava mandato di mantenere 40.000 soldati in Libano come parte (preponderante) di una forza di deterrenza araba (ADF) che mantenesse la calma nel Paese. Di fatto, gli altri contingenti abbandonarono quasi subito le regioni più calde, lasciando il Paese dei Cedri in mano alla Siria con in più uno scudo diplomatico che legittimasse la presenza delle truppe di Damasco in una Nazione estera sovrana. In realtà, poi, il Libano in quel momento era solo nominalmente una entità unitaria: in pratica, infatti, il nord era controllato dai Cristiani dell’FL, mentre il sud era in mano ai Musulmani dell’MNL. Su entrambi gli schieramenti la Siria giocò pesantemente per frammentare le coalizioni in una tattica di “divide et impera” che risultò particolarmente facile, per quanto riguarda l’MNL, dopo la morte del leader druso  Kamal Jumblatt (probabilmente per mano di Damasco). Questo gioco non piacque a Gemayel che, a partire dal 1978, cambiò rapidamente posizioni portando il Kataeb, in unione con le forze di Chamoun e di Saqr, su posizioni fortemente anti-siriane.

Intanto la guerra stava assumendo un aspetto completamente nuovo. Dopo un attacco di alcuni feddayyn di stanza nel sud del Libano a civili in territorio israeliano, Israele, l’11 marzo 1978, lanciò l’”Operazione Litani”, che portò all’occupazione del Libano meridionale fino, appunto, al fiume Litani. Immediatamente il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò la Risoluzione 425 che chiedeva l’immediato ritiro israeliano e la creazione di una forza di pace internazionale (UNIFIL) che controllasse l’area di 19 chilometri al confine tra Libano e Israele. Gerusalemme accettò di ritirarsi, ma formò una milizia cristiano-sciita (a maggioranza cristiana), l’Esercito del Libano del Sud (SLA), guidato dal maggiore Haddad, per “mantenere pulita” l’area dall’OLP e dai suoi alleati.

Gli scontri tra Israeliani e SLA da una parte e OLP dall’altra furono violentissimi e, politicamente, ebbero soprattutto l’effetto di mutare lo scenario politico, facendo sì che la Siria ritirasse il supporto ai Cristiani a favore dei Palestinesi, divenendo, così, nemica della KRF falangista dei Gemayel. Se, dunque, Franjhe rimaneva il paladino siriano, ora Israele gli contrapponeva il suo alleato più fedele, quel Bachir Gemayel, figlio di Pierre, le cui milizie si distinguevano per ferocia e determinazione nella lotta contro i Palestinesi. In particolare, Bachir era diventato il pupillo di Sharon, il falco che, Ministro della Difesa del secondo governo Begin, avrebbe voluto una invasione del Libano con la distruzione di ogni traccia dell’OLP dal Paese e la Presidenza del maronita per avere una pace permanente con lo scomodo confinante.

Bashir Gemayel (1947-1982)

La Knesset, nel 1981, anche su pressione americana, rifiutò ogni ulteriore intervento se non in caso di gravi provocazioni che, per altro, continuavano ad esserci (Arafat comandò 270 attacchi a Israele dopo il cessate il fuoco ONU, che il leader palestinese intendeva limitato unicamente al Libano). Dopo un tentativo da parte dell’estremista palestinese Abu Nidal (già condannato a morte dallo stesso OLP) di assassinare l’ambasciatore israeliano a Londra (3 giugno 1982) Sharon riuscì a dare l’ordine di bombardare Beirut Ovest con l’assenso dell Knesset. Per ritorsione i Palestinesi violarono il cessate il fuoco e questo portò immediatamente, il 6 giugno 1982, l’esercito israeliano a dare il via, con il consenso americano (che in sede ONU usò il diritto di veto contro ogni condanna dell’azione), all’operazione “Pace in Galilea”. In meno di 9 giorni Beirut Ovest era sotto assedio, continuamente bombardata dagli aerei con la stella di David per snidare i 16.000 feddayyn che vi si rifugiavano. Dopo 11 giorni l’ONU chiese il ritiro delle truppe di Gerusalemme a 10 chilometri dalla città e, con la mediazione dell’americano Philip Habib, si giunse, il 12 agosto, ad una tregua con l’invio di un contingente di pace americano, francese e italiano.

Come da  volontà di Sharon, il 23 agosto Bachir Gemayel veniva eletto Presidente di uno Stato che, in realtà, era sotto il controllo di Israele. Bachir era un militare più che un politico e da molti era considerato un fanatico anti-palestinese (cosa pienamente spiegabile visto che nel 1980 un attentato OLP gli aveva ucciso la figlia di 18 mesi), piuttosto rozzo e giunto ad alti gradi di potere solo grazie alla presenza, alle sue spalle, del padre Pierre. In effetti non ebbe mai modo di dimostrare il contrario, dal momento che fu ucciso in un attentato il 14 settembre, pochi giorni prima del suo insediamento.

La risposta dei falangisti all’attentato fu la più feroce possibile: Sabra e Chatila. Trasportati dagli Israeliani (che poi, durante la notte, illuminarono i campi a giorno), 200 miliziani del Kataeb, tutti scelti tra coloro che avevano avuto famigliari uccisi dall’OPL nel precedente massacro di Damour, guidati da Elie Hobeika, uno dei più famigerati capi militari della Falange (che, per altro, aveva avuto famiglia e fidanzata trucidati a Damour), già responsabile dell’omicidio del leader maronita avversario Tony Franjieh e, in seguito, più volte ministro di vari governi nazionali, penetrarono nei campi e per tre giorni misero in atto uno dei più terribili massacri di civili inermi della storia, per il quale tribunali internazionali di varia natura bollarono, in seguito, Hobeika stesso e il suo complice (e forse mandante) Sharon (che si dovette dimettere dalla carica di Ministro della Difesa, ma rimase, comunque, influente Ministro senza portafoglio dello Stato d’Israele) come criminali di guerra.

Nonostante lo sdegno internazionale, comunque, con il sostegno degli Stati Uniti, Amine Gemayel, fratello di Bechir (rispetto al quale aveva, comunque, posizioni molto più moderate e meno fanatiche), venne scelto dal Parlamento libanese a succedere al fratello come Presidente, con il preciso mandato di occuparsi del ritiro delle forze israeliane e siriane. Le due cose, però, in qualche modo si escludevano reciprocamente e, infatti, l’accordo del 17 maggio 1983 con cui Amine riuscì a far evacuare le truppe israeliane dal Libano fu visto come un tradimento dai governi arabi, in primo luogo, dalla Siria che rifiutò di ritirare i propri soldati dal nord-est del Paese. Le pressioni siriane (e di parte dei Maroniti) portarono Gemayel ad annullare l’accordo del 17 maggio, con il risultato di ridare forza ai Musulmani e di acuirne i sentimenti anti-occidentali, fino ai famigerati attentati ai quartier generali dell’UNIFIL americani e francesi del 23 ottobre 1983 (che provocarono 241 morti statunitensi e 58 morti francesi). Di fatto, in questo momento la Falange risulta perdente, nonostante la presidenza di Gemayel che, in realtà non ha alcun margine di manovra, stretto com’è  tra “protettorato siriano”, esplosione delle forze maronite in decine di rivoli sparsi e sviluppo del neonato movimento Hezbollah nel sud del Paese.

Infatti, il periodo tra 1984 e 1988 risulta, in assoluto, il più confuso della già caotica storia libanese: Amal, il principale partito sciita attacca i Palestinesi dell’OLP, difesi, però, da Hezbollah, a loro volta attaccato dai Siriani mentre il Kataeb, dopo la morte del vecchio Pierre Gemayel e la sua sostituzione con Elie Karame, perde il controllo dell’esercito libanese, all’interno del quale i Musulmani si uniscono ai gruppi sciiti e sunniti e il partito si sfascia, con una contrapposizione diretta tra Karame (sostituito nel 1986 da Georges Saadeh) e Amine Gemayel da un lato, con posizioni moderatamente filo-siriane, e Samir Gaegea, nuovo leader delle Forze Libanesi (praticamente l’esercito maronita), fortemente contrario alla presenza di truppe di Damasco e sostenuto (in funzione anti-sciita) dall’Iraq di Saddam Hussein. E’ una sorta di tutti contro tutti che, per certi versi, viene risolto dall’unico atto importante compiuto da Gemayel, paradossalmente un atto contrario al fondamentale “accordo nazionale” fondativo della convivenza inter-religiosa libanese che voleva un Presidente cristiano e un Primo Ministro musulmano: poco prima del termine del suo mandato, nel 1988, egli nomina Primo Ministro il generale cristiano Michel Aoun. La nomina non viene accettata, ovviamente, dai Musulmani, che formano un loro governo autonomo, dividendo, in pratica, il Libano tra una zona cristiana con un governo militare e una zona musulmana con un governo civile.

Ciò che, comunque, risulta più fondamentale è che il 14 marzo 1989 Aoun lanci quella che viene definita la “guerra di liberazione” contro i Siriani e i loro alleati delle milizie libanesi: nonostante le diffidenze dei Musulmani anti-siriani (che vedono Aoun come un leader settario maronita) e le continue accuse di illegittimità di governo da parte del Primo Ministro musulmano Selim al-Hoss, questa campagna ha almeno il merito di portare la situazione fuori dallo stallo e di indurre la Lega Araba a tentare una mediazione, il cui risultato è dato dagli accordi di Taif del 1989, che, per certi versi, segnano l’inizio della fine dei combattimenti.

E’ vero che gli accordi davano un ruolo importante alla Siria e che Aoun non accettò mai la nomina presidenziale di René Mouawad (assassinato 16 giorni dopo la sua elezione) e del suo successore Elias Hrawi, frutto proprio degli accordi, ma, almeno, ciò permise alle Forze Libanesi di prendere posizione contro il presunto Presidente Aoun e di smuovere il Parlamento, inducendolo a promuovere riforme istituzionali e accordi che, per quanto filo-siriani, pacificarono finalmente il Paese. Così, nel 1991, con una legge di amnistia generale per tutti i crimini politici del periodo bellico e lo scioglimento di tutte le milizie (a eccezione di Hezbollah), la guerra civile si può dire ufficialmente chiusa, sebbene con una sorta di “Pax siriana”.

Nel nuovo assetto non appariva esserci più spazio per forze confessionali, con un esercito nazionale, in pratica piuttosto dipendente dalla Siria, che controllava due terzi del Paese (con la sola eccezione dell’area meridionale in mano a Hezbollah, visto come gruppo di difesa contro possibili invasioni israeliane) e, dal novembre 1992, con il governo in mano all’uomo d’affari miliardario Rafiq Hariri (vuoi come Primo Ministro, vuoi, in altri momenti, come “uomo forte” del Parlamento).

Nel clima di ricostruzione degli anni seguenti, il Libano è sembrato aprirsi ad un nuovo sistema democratico in cui le varie componenti che avevano combattuto nella guerra civile parevano essersi riconvertite alla politica dialogata. In questo quadro, a partire dal 1997, hanno fatto ritorno nel Paese anche i nuovi eredi della dinastia Gemayel, Pierre e Sami, figli di quel Amine che, dopo la fine del suo mandato presidenziale, era andato in volontario esilio per non aprire un conflitto intra-cristiano con Gaegea. Con un paradosso tipicamente libanese, la terza generazione di Gemayel, comunque, si è messa a capo di un movimento, denominato “Base Kataeb”, in aperta contrapposizione con la leadership del partito che era stato di loro nonno e loro padre, ora guidato da Karim Pakradouni, il cui asservimento al governo siriano aveva reso la forza politica falangista ormai insignificante.

I fatti sembrano aver dato ragione a questa nuova linea, portata avanti in particolare da Pierre. La svolta è data dall’omicidio di Hariri, il 14 febbraio 2005: Hariri, al tempo Primo Ministro, si era appena ritirato dall’incarico in polemica con un emendamento costituzionale che avrebbe prorogato di tre anni la presidenza del filo-siriano Emile Lahoud, cosicché la matrice dell’omicidio apparve immediatamente chiara a tutti, innescando un impressionante movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari di Damasco nel Paese. Tale movimento, passato alla storia come “Rivoluzione dei Cedri”, portò, sotto la pressione internazionale, Bashar Assad a dichiarare la fine della presenza siriana in Libano e a ritirare le sue forze nel giro di un paio di mesi.

Nelle prime elezioni libere dal giogo straniero dal 1976, il Libano ha scelto come Primo Ministro l’economista Fouad Siniora, che ha chiamato Pierre Gemayel all’interno dell’esecutivo come Ministro dell’Industria, dando di nuovo lustro alla dinastia e sancendo la vittoria della linea Gemayel all’interno del Kataeb.

Questo non ha significato la pacificazione del Paese: il sud è rimasto nelle mani di Hezbollah e l’opposizione musulmana di matrice sciita non solo ha portato, con i suoi continui lanci di razzi katyusha sul nord della Galilea, alla nuova invasione del Libano meridionale da parte di Israele (12 luglio-8 settembre 2006) ma anche al nuovo omicidio politico che ha avuto come vittima proprio il neo-eletto Ministro Gemayel.

Fortunatamente, proprio l’invasione israeliana nella operazione “Giusta retribuzione” e il conseguente momentaneo blocco (almeno parziale) degli attacchi Hezbollah ha salvato la situazione, che sembrava ormai perduta nel momento in cui, inopinatamente, Siniora aveva definito le milizie sciite “difensori del Libano”, permettendo un governo tecnico del Libano fino al 2009, anno in cui elezioni democratiche hanno portato alla premiership di Saad Hariri, figlio di Rafiq Hariri. Le stesse elezioni hanno riportato in parlamento il Kataeb, con cinque deputati: Sami Gemayel, Nadim Gemayel (figlio di Bachir), Elie Marouni, Fady el-Haber and Samer Saade. Tenendo conto che il drappello parlamentare è guidato da Sami, già direttore del centro studi del “Nuovo Kateb”, noto per le sue posizioni ultra-oltranziste (molto più di quelle del suo defunto fratello), il timore maggiore è che la perpetuazione del potere degli Gemayel, pur nelle posizioni marginali in cui il Kataeb si è ritrovato (e dalle quali si sta risollevando), possa essere improntata ad una nuova ondata di radicalismo cristiano e l’ultima cosa di cui una Nazione martoriata come il Libano abbia bisogno in questo momento è di rivedere immagini della Madonna di Junieh sui calci dei fucili…

Bibliografia:

–       F. El-Khazen, The Breakdown of the State in Lebanon, I.B. Tauris 1997;

–       R. Fisk, Pity the Nation: The Abduction of Lebanon, Nation Books 2002;

–       M. Gordon, The Gemayels, Chelsea House Publishers 1988;

–       D. Hirst, Beware of Small States: Lebanon, Battleground of the Middle East, First Trade Paper Edition 2011;

–       S. Mackey, Mirror of the Arab World: Lebanon in Conflict, W. W. Norton & Company 2009;

–       P. Rabinovich, The War for Lebanon, 1970-1985, Cornell 1985;

–       V. Raulin, N. Duplan, Le Cedre et la Croix, Presses de la Reinassance 2005;

–       B. Ruby, Lebanon: Liberation, Conflict, and Crisis,  Palgrave Macmillan 2010;

–       A. Weizfeld, Sabra and Shatila, AuthorHouse 2009

 

Aldo Moro….agnello sacrificale

Fonte:http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=285&biografia=Aldo+Moro#

Aldo_MoroL’ex presidente della Democrazia Cristiana, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, nasce il 23 settembre 1916 a Maglie, in provincia di Lecce. Dopo aver conseguito la maturità classica al Liceo “Archita” di Taranto si iscrive a Giurisprudenza presso l’Università di Bari, conseguendo la laurea con una tesi su “La capacità giuridica penale”. La tesi, ripresa ed approfondita, costituirà la sua prima pubblicazione scientifica e lo avvierà alla carriera universitaria.

Dopo qualche anno di carriera accademica, fonda con alcuni amici intellettuali nel 1943, a Bari, il periodico “La Rassegna” che uscirà fino al 1945, anno nel quale sposa Eleonora Chiavarelli, con la quale avrà quattro figli. In quello stesso periodo, diventa Presidente del Movimento Laureati dell’Azione Cattolica, ed è direttore della rivista “Studium” di cui sarà assiduo collaboratore, impegnandosi a sensibilizzare i giovani laureati all’impegno politico. Nel 1946 viene eletto all’Assemblea Costituente ed entra a far parte della Commissione dei “75” incaricata di redigere il testo costituzionale. Inoltre, è relatore per la parte riguardante “i diritti dell’uomo e del cittadino”. E’ anche vicepresidente del gruppo Dc all’Assemblea.

Nelle elezioni del 18 aprile 1948 viene eletto deputato al Parlamento nella circoscrizione Bari-Foggia e viene nominato sottosegretario agli Esteri nel quinto Gabinetto De Gasperi mentre non si arresta la sua inesauribile attività di insegnante e di didatta, con molteplici pubblicazioni a suo nome.

Diventato Professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Bari, nel 1953: viene rieletto al Parlamento diventando Presidente del gruppo parlamentare Dc alla Camera dei Deputati. Anche la sua carriera politica, a quanto sembra non conosce segni di cedimento di nessun tipo. Unomo solido e determinato, diventa nel 1955 ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Segni.

Nel 1956, nel corso del VI Congresso nazionale della Dc che si svolse a Trento, consolidò la sua posizione all’interno del Partito. Fu infatti tra i primi eletti nel Consiglio nazionale del Partito. l’anno dopo, diventa ministro della Pubblica Istruzione nel governo Zoli. Si deve a lui l’introduzione dell’educazione civica nelle scuole. Rieletto alla Camera dei Deputati nel 1958, è ancora ministro della Pubblica Istruzione nel secondo Governo Fanfani.

Il 1959 è un anno importantissimo per Aldo Moro. Si svolge infatti quel VII Congresso della Democrazia Cristiana che lo vedrà trionfatore, tanto che gli viene viene affidata la Segreteria del Partito, incarico riconfermatogli nel tempo e che manterrà fino al gennaio del 1964. Ma un altro anno assai importante, anche alla luce della tragica vicenda che colpirà il politico doroteo, è il 1963 quando, rieletto alla Camera, è chiamato a costituire il primo governo organico di centro-sinistra, rimanendo continuamente in carica come Presidente del Consiglio fino al giugno del 1968, alla guida di tre successivi ministeri di coalizione con il Partito socialista.

E’ in pratica la realizzazione “in nuce”, del famoso “compromesso storico” di invenzione dello stesso Aldo Moro (uso ad usare espressioni come “convergenze parallele”), ossia quella manovra politica che contmplava il riavvicinamento delle frange comuniste e di sinistra verso l’area moderata e centrista.

Il tumulto e il dissenso che tali situazioni “di compromesso” suscitano soprattutto all’interno degli elettori del PCI, ma soprattutto all’interno dei moderati, si concretizzano nelkle lezioni del 1968 quando Moro viene sì rieletto alla Camera, ma le elezioni puniscono di fatto, dati alla mano, i partiti della coalizione e determinano la crisi del centro-sinistra. detto questo, è inevitabile che ne risenta anche il peso prestigio dello stesso Aldo Moro. Ad ogni modo, rimangono sempre i ministeri e infatti dal

1970 al 1974, assume, anche se con qualche intervallo, l’incarico di ministro degli Esteri. A conclusione di questo periodo, ritorna alla presidenza del Consiglio formando il suo IV ministero che dura sino al gennaio 1976.

Nel luglio del 1976 viene eletto Presidente del Consiglio nazionale della Dc.

Il 16 marzo 1978, il tragico epilogo della vita dello sfortunato politico. Un commandos di Brigate Rosse irrompe nella romana via Fani, dove in quel momento transitava Moro allo scopo di recarsi in Parlamento per partecipare al dibattito sulla fiducia del quarto governo Andreotti, il primo governo con il sostegno del Pci, massacra i cinque uomini di scorta e rapisce lo statista. Poco dopo, le Brigate rosse rivendicano l’azione con una telefonata all’ Ansa. Tutto il Paese percepisce chiaramente che quell’attentato è un attacco al cuore dello Stato e alle istituzioni democratiche che Moro rappresentava.

18 marzo una telefonata al ”Messaggero” fa trovare il ”Comunicato n.1” delle Br, che contiene la foto di Aldo Moro e annuncia l’inizio del suo ”processo” mentre, solo il giorno dopo, Papa Paolo VI lancia il suo primo appello per Moro. I servizi segreti di tutto il mondo, anche se le segnalazioni furono tante e precise, non riuscirono a trovare la prigione dei terroristi, ribattezzata “prigione del popolo”, e da cui Moro invocava incessantemente, tramite numerose lettere, una trattativa.

Il 9 maggio, dopo più di cinquanta giorni di prigionia ed estenuanti trattative con gli esponenti dello Stato di allora, anche lo statista viene barbaramente assassinato dalle BR, ormai convinte che quella sia l’unica strada coerente da intraprendere. La sua prigionia aveva provocato ampi dibattiti fra coloro che erano disposti a cedere alle richieste dei brigatisti e chi invece era nettamente contrario per non legittimarli, dibattito che lacerò letteralmente in paese sul piano sia politico che morale.

A tale rovente clima dialettico pose fine la drammatica telefonata degli aguzzini di Moro, i quali resero noto direttamente ad un alto esponente politico che il corpo di Moro poteva essere rinvenuto cadavere nel bagagliaio di un’auto in via Caetani, emblematicamente a metà strada tra Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana, e via delle Botteghe Oscure, sede storica del Partito Comunista Italiano. Secondo le ricostruzioni, ancora frammentarie malgrado i molti anni trascorsi, lo statista sarebbe stato ucciso dal brigatista Moretti nel garage di via Montalcini, il covo usato dai brigatisti appunto come ”prigione del popolo”.

La moglie Eleonora e la figlia Maria Fidae, basandosi sull’acquisizione di nuovi elementi, hanno recentemente deciso di rompere il lungo muro del silenzio che da anni ha avvolto la vicenda, chiedendo la riapertura delle indagini sul caso Moro.

I servizi italiani hanno centrato un importante bersaglio il 14 gennaio 2004 con l’arresto dei brigatisti Rita Algranati e Maurizio Falessi, latitanti nel Nord Africa. La prima fu già condannata all’ergastolo per il delitto Moro.

Oggi Alessio Casimirri, marito della Algranati, rimane l’unico imprendibile latitante del gruppo delle Br che partecipò all’agguato di Via Fani.

L’importanza di termovalorizzare boschi cedui e residui di potatura

Scritto da : Nicoletta
Fonte: http://www.soloecologia.it/

residui di potaturaSiamo sempre alla ricerca di nuove fonti di energia per renderci autonomi dal petrolio e dal gas, visto che entro il 2020 almeno il 20% dell’energia prodotta in Europa dovrà obbligatoriamente derivare da fonti rinnovabili. Accanto agli impianti di alta tecnologia necessari per fotovoltaico, energia eolica, geotermica e marina può fare una parte anche una fonte di energia rinnovabile vecchia come il mondo: il legno. In Italia esistono 2 milioni di ettari di colture legnose che da sole possono produrre oltre 10 milioni di Megawattora primari e andare a sostituire una parte importante del legname dal riscaldamento attualmente importato.

Per l’Italia il legno rappresenta un’importante fonte di energia. Si tenga presente che un bosco ceduo continua a crescere per 35-40 anni. Dopo quel periodo inizia a vegetare, ovvero non cresce più – a meno che non venga tagliato. Ecco dunque la convenienza di un taglio periodico che non lo annienti, ma semplicemente lo rinnovi. Il legno è oggi una grande risorsa energetica a cui il mercato si rivolge con nuove tecnologie di gassificazione già in forte sviluppo nel Nordeuropa e che trovano consensi anche in Italia.

C’è poi l’ambito agroforestale che produce grandi quantità di scarti di potatura, un sottoprodotto delle lavorazioni agricole che necessita di uno smaltimento appropriato. L’incenerimento a terra (all’aria aperta) dei residui legnosi è da sempre un modo di fare rapido e comodo, che però produce una serie di sostanze pericolose per la salute. Infatti, la pratica di recente è stata vietata dalle normative del Testo Unico Ambientale, che a sua volta recepisce una direttiva europea nella quale la si classifica come “illecito smaltimento di rifiuti”, sanzionabile penalmente con pesanti ammende e perfino con l’arresto.

Per gli agricoltori lo smaltimento dei residui di potatura è un grosso problema: urge perciò organizzare sistemi di trasporto dei suddetti in appositi impianti di produzione di energia elettrica e termica nei quali essi vengono utilizzati nel modo più razionale possibile, ovvero mediante processi di pirogassificazione. Questo è decisamente il momento adatto per vedere un rinnovamento dell’agricoltura che porti anche alla ricerca di spazi di produttività nel settore energetico.

La sindrome da microonde

Scritto da: Amy Worthington
Fonte: The Idaho Observer      Traduzione: Antonella Randazzo per www.stampalibera.com

interazioni e effetti dell'esposizione alle radiazioni non-ionizzanti sul corpo umano

I parametri di questa malattia sono descritti nel Freiburg Appeal, un documento firmato da oltre 2000 medici tedeschi. Il documento descrive la sindrome da microonde così come è stata contratta dalla popolazione tedesca attraverso i loro trasmettitori wireless, i cellulari e i telefoni cordless di casa. I medici dicono che stanno riscontrando un drammatico aumento di malattie croniche e gravi, in particolar modo:

 

 

    • Cancro, inclusi la leucemia e i tumori al cervello

 

    • Disturbi nell’apprendimento, di concentrazione e di comportamento (inclusa il disturbo da deficit dell’attenzione)

 

    • Drastiche variazioni della pressione sanguigna impossibili da controllare con i farmaci

 

    • Ritmo cardiaco irregolare

 

    • Attacchi di cuore e colpi apoplettici in soggetti molto giovani

 

    • Disturbi cerebrali degenerativi ed epilessia

 

    • Danni al nervo auricolare e tinnito

 

    • Insufficienza del sistema immunitario e predisposizione alle infezioni

 

    • Dolori ai nervi e ai tessuti connettivi per i quali non c’è spiegazione

 

    • Stanchezza cronica, mal di testa, nervosismo e disturbi del sonno

 

 

Dopo aver condotto uno studio generale su centinaia di francesi che vivevano a ridosso di trasmettitori per microonde, cinque scienziati francesi hanno riscontrato gli stessi sintomi, inclusi nausea, affaticamento, problemi di memoria e cardiovascolari.Due terzi degli statunitensi sono in sovrappeso. L’obesità e il metabolismo lento, così diffusi in tutta la nazione, sono i segnali caratteristici di un cattivo funzionamento della tiroide. È provato che le radiazioni di microonde producono sul cervello effetti quali il rallentamento o l’arresto della produzione da parte della ghiandola pineale dell’ormone stimolante tiroideo (TSH), determinando così una drastica riduzione degli ormoni tiroidei T4 e T3. Gli strumenti di misurazione impiegati dimostrano che i telefoni wireless spesso fanno filtrare le radiazioni attraverso il microfono e da qui raggiungono i tessuti sensibili alle radiazioni posti sul collo e sulla ghiandola tiroidea.

 

Il problema del cancro

 

Una manifestazione ancora più tragica della malattia da radiazioni è data dai tumori e dalla leucemia. Diamo ora un’occhiata a cosa significa la rivoluzione wireless in termini di incidenza futura di casi di tumore negli Stati Uniti. L’anno scorso si sono registrati 30.000 casi di tumori al cervello e agli occhi causati direttamente dall’uso del cellulare, secondo quanto riportato dal “Mobile Telephone Health Concerns Registry” [Archivio delle preoccupazioni per la salute derivate dai telefoni portatili, ndt], che raccoglie informazioni date volontariamente dai cittadini in tutta la nazione. L’archivio è attualmente diretto dal dott. George Carlo, che è stato a capo del gruppo di scienziati della Telecom quando, negli anni ’90, l’azienda condusse i suoi studi, lunghi 6 anni sulle radiazioni, allo scopo di provare la sicurezza dei telefoni cellulari. Dopo che gli studi condotti dall’azienda rivelarono che i cellulari erano tutt’altro che sicuri, l’azienda iniziò a tergiversare, determinata a quanto pare a mentire e negare l’evidenza il più a lungo possibile. La presa di posizione falsa e lucrativa dell’industria si ritrova nelle parole di Joe Farren, direttore degli affari pubblici della CTIA – l’Associazione dell’Industria della Telecomunicazioni Cellulari – il quale ha affermato che “Fino ad oggi la scienza ha dimostrato che l’uso di dispositivi wireless non implica nessun rischio per la salute”. Il dott. Carlo ha scritto un esposto in cui documenta sia i dati allarmanti raccolti, sia l’imbroglio politico che ancora tiene i consumatori all’oscuro dai terribili rischi per la salute connessi all’uso di telefoni wireless. Ha previsto che per il 2006 ci saranno 50-75.000 nuovi casi di tumori causati dai cellulari e per il 2010 300-500.000, quando una nuova messe di vittime delle radiazioni raggiungerà la massima fioritura. Il periodo di latenza prima che si sviluppi un tumore causato dall’esposizione alle microonde emesse dai cellulari è di circa 10 anni. E’ stato questo tragico e lungo periodo di latenza che ha permesso agli assassini delle grandi imprese – coloro i quali traggono elegantemente profitto esponendo la gente all’uranio impoverito, all’amianto, al tabacco e alle tecnologie wireless – di deporre le loro uova mortali prima che le vittime si rendessero conto di quanto stava loro accadendo. Le radiazioni di microonde causano almeno due meccanismi che sono alla base dello sviluppo di un cancro: micronuclei e shock termico delle proteine. Gli studi condotti dall’industria delle telecomunicazioni confermano che le radiazioni dei cellulari producono micronuclei nelle cellule ematiche umane a livelli ben più bassi rispetto a quelli previsti dalle normative in materia di esposizione del governo statunitense. I micronuclei sono filamenti spezzati del DNA ed indicano che le cellule non sono più in grado di ripararsi correttamente. Tutti i tumori sono causati da un danno genetico e la presenza di micronuclei nelle cellule è il primo segnale d’allarme del cancro. I medici che curavano le vittime del disastro nucleare di Chernobyl del 1986 usavano l’esame dei micronuclei per determinare l’estensione del danno causato dalle radiazioni. Alcuni ricercatori dell’Università di Washington, finanziati dalle forze armate statunitensi, hanno dimostrato che le radiazioni da 2.4 gigahertz aumentano la frequenza di rotture dei filamenti del DNA nelle cellule cerebrali dei topi dopo solamente 2 ore di esposizione ad un’intensità pari ad 1/5 soltanto dei cosiddetti limiti di sicurezza fissati dalla FCC. Nel 2000, il Dr Joseph Roti Roti, scienziato dalle credenziali importanti che ha ricevuto consistenti borse di studio dalla Motorola, ha a sua volta confermato che a livelli di radiazione ben più bassi rispetto a quelli emessi dai comuni cellulari si verifica la formazione di micronuclei. Nel 2004, una serie di studi commissionati dall’Unione Europea ha confermato che le onde emesse dai cellulari danneggiano il DNA e che i danni causati vengono trasmessi alla generazione successiva di cellule. Alla fine del 2005, alcuni scienziati cinesi hanno scoperto che le microonde di basso livello emesse dai cellulari provocano un aumento significativo dei danni a carico delle cellule del DNA. Dal momento che i telefoni cellulari causano il surriscaldamento di punti nei tessuti umani, il corpo produce proteine per far fronte allo shock termico nel tentativo di proteggere e riparare le cellule surriscaldate. Queste proteine proteggono anche le cellule cancerose rendendole resistenti alle terapie. In molti tumori il numero di queste proteine risulta altissimo. Nel 2002, alcuni studiosi italiani che si occupano della ricerca sul cancro hanno dimostrato che le microonde dei cellulari comportano in vitro un rapido aumento delle cellule leucemiche. Il ricercatore britannico Alisdair Phillips ha scoperto che pochi minuti di esposizione a radiazioni simili a quelle emesse dei cellulari possono trasformare un cancro attivo al 5% in uno attivo al 95%, il tutto durante l’esposizione e per un po’ di tempo dopo. David de Pomerai, tossicologo molecolare britannico, ha confermato che le cellule con danni genetici non risanati possono diventare cancerogene in maniera molto più aggressiva. Negli Stati Uniti, dove si suppone che quasi metà della popolazione svilupperà una qualche forma di cancro nel corso della sua vita, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono dei chip d’identificazione sottocutanei che sputano e ricevono microonde. Nel 2005, tre separati gruppi di ricerca europei hanno dimostrato che il rischio di sviluppare tumori al cervello – sia benigni che maligni – aumenta significativamente nei soggetti che hanno fatto uso del cellulare per 10 anni o più. Uno di questi studi rivela che il rischio è maggiore nei soggetti che hanno iniziato ad utilizzare il cellulare prima dei 20 anni, poiché i bambini assorbono molte più radiazioni degli adulti. Nel marzo del 2006, lo “Swedish National Institute for Working Life” [Istituto Nazionale Svedese della Vita Lavorativa, ndt] ha richiamato l’attenzione della Food and Drug Administration (FDA) statunitense quando ha confermato che nelle persone che usano il cellulare per 2000 ore nel corso della loro vita il rischio di sviluppare dei tumori maligni nella parte della testa a contatto con il telefono aumenta del 240%. I lavoratori statunitensi, costretti ad usare cordless, radioricevitori, walkie talkie e blue tooth nel corso della loro giornata lavorativa, possono raggiungere le 2000 ore grosso modo in un anno, il che spiega chiaramente perché sia in costante aumento l’incidenza di tumori al cervello nel paese. Nel 2005 l’Accademia Nazionale delle Scienze ha confermato che anche dosi molto basse di radiazioni ionizzanti, dai raggi X ai raggi gamma, nel corso di tutta la vita, causano il cancro. Gli studi sopraccitati sulle radio frequenze e le microonde confermano che radiazioni non-ionizzanti – quali quelle emesse dai trasmettitori radio e dispositivi senza fili – infliggono alle cellule umane lo stesso tipo di danno delle radiazioni ionizzanti, con gli stessi effetti cancerogeni.

 

In conclusione, tutte le persone che si ritrovano a vivere in uno stato di polizia a radiazione intensiva corrono il rischio altissimo di sviluppare forme tumorali che progrediscono rapidamente e risultano letali. E questo vale anche per le oppressive forze dell’ordine radioaccessoriate, e per i militari burocratizzati.

La Germania firma la resa

Fonte: http://www.teleborsa.it

ACCADE OGGI…

19292.t.W630.H354.M47 maggio 1945: Il Generale Alfred Jodl, rappresentante dell’Alto Comando della Wermacht (OKW) alle 02:41, in una scuola di Reims, firma la resa della Germania. La resa è controfirmata dal Maresciallo Arthur William Tedder delle Forze Alleate e al Maresciallo Georgy Zhukov del Comando dell’Armata Rossa. La resa sarà effettiva dal 8 maggio. ( Bundesarchiv CC-BY-SA 3.0 DE)

E la Cina acquista animali minacciati

Fonte:http://www.salvaleforeste.it/biodiversity/3822-e-la-cina-acquista-animali-minacciati.html

 

tigre8Secondo il West Kalimantan Orangutan Conservation Forum (FKOKB), la Cina è il principale acquirente di animali indonesiani in via di estinzione.

“Questi animali sono considerati potenti afrodisiaci”, ha detto Alberto Tjiu, presidente del gruppo.

I becchi dei buceri, le pinne di squalo e altre parti di animali sono state cacciate per migliaia di anni.
Nel secolo scorso, in Kalimantan occidentale (in Borneo) vivevano ancora rinoceronti e elefanti, ma sono stati cacciati fino all’estinzione.

Ora la loro caccia è vietata, ma parti di animali protetti vengono ancora ri-esportate da Laos , Myanmar, Malesia, Singapore, Thailandia e Vietnam, nascoste in container o in valige di passeggeri, spesso coperte da documentazione di viaggio falsificate.

Alcuni di questi animali, soprattutto oranghi e gibboni, sono legati al commercio col legname.

Il commercio illegale di animali è gestito dalla criminalità organizzata, parallelamente al traffico di doghe o al commercio di armi.

Il FKOKB documentato diversi casi di commercio di animali protette a Java, ma le sentenze non sono mai state abbastanza serie da scoraggiare il traffico illegale.

 

Il piombo non velocizzò la caduta dell’impero romano

Fonte: news.sciencemag.org
Traduzione: ilfattostorico.com

Nell’antica Roma, non bevete come i romani. I romani di alto rango sorseggiavano bevande preparate in vasi di piombo e facevano arrivare l’acqua di sorgente nelle loro case attraverso tubi di piombo. Alcuni storici sostengono che l’avvelenamento da piombo afflisse l’élite romana con malattie come la gotta e velocizzò la caduta dell’impero.

(Chris73/Creative Commons)

Ora, un team di archeologi e scienziati ha scoperto quanto fosse contaminata l’acqua dei rubinetti romani. Il team ha scavato i sedimenti nel bacino di Portus, un porto marittimo della Roma imperiale, e in un canale che collegava il porto al fiume Tevere, quindi a Roma. I ricercatori hanno confrontato gli isotopi del piombo nei loro campioni di sedimenti con quelli trovati nelle tubazioni romane preservate, e hanno così creato un archivio storico dell’inquinamento da piombo che arrivava dalla capitale romana.

L’acqua del rubinetto della Roma antica probabilmente conteneva fino a 100 volte più piombo rispetto all’acqua di sorgente locale, scrivono i ricercatori su Proceedings of the National Academy of Sciences. Anche se la contaminazione da piombo era misurabile, il team dice che difficilmente i livelli erano abbastanza alti da essere dannosi, escludendo dunque l’acqua del rubinetto come colpevole principale nella scomparsa di Roma.

Il millenario archivio storico del team mostra notevoli cambiamenti riguardo l’inquinamento da piombo da parte di Roma in seguito a grandi eventi, quali le Guerre Gotiche del 535 d.C., le riparazioni bizantine degli abbandonati acquedotti romani nel 554 d.C., e il sacco arabo di Roma a metà del IX secolo.

Il team spiega che questa cronologia può aiutare gli storici che studiano il carattere mutevole di Roma e Portus nei turbolenti anni dopo l’impero.

Science