Vincere non basta, se il petrolio cala Putin rischia grosso

Scrirtto da: Stefano Casertano
Fonte: http://www.linkiesta.it/putin-elezioni-vince

Il nuovo presidente è ancora Vladimir Putin. Ha vinto, ma ora viene il difficile: contro di lui si è schierata una classe media nata proprio in questi anni, che chiede più democrazia o almeno una maggiore rappresentazione. Finora Putin ha dominato grazie all’esportazione dell’energia e a repressioni studiate. Ma per continuare deve cambiare molto, se non quasi tutto. Un qualsiasi problema alla rendita petrolifera – che ancora rappresenta due terzi delle esportazioni nazionali – riempirebbe le piazze.

Il fatto che la classe media iniziasse a ribellarsi a Putin era il minimo che poteva capitare, in un paese che nel 2011 è cresciuto del 4,3%, con una media per trimestre dell’1,22% dal 2003 a oggi. Lo sviluppo economico segna la fine del grande consenso per il presidente russo: come rilevato da molti, la ricchezza forma la classe media, e la classe media ha il brutto vizio di pretendere rappresentanza democratica.È un fenomeno che accomuna tutti i paesi petroliferi: finché l’esportazione di risorse energetiche rappresenta l’unico polo economico veramente stabile, strutture dittatoriali o semi-dittatoriali riescono a mantenersi al potere. Quando il resto dell’economia cresce, la piramide crolla.

In genere, lo sviluppo in queste economie segue tre fasi. Nella prima, quando il paese si trova nelle prime fasi di crescita, il leader impiega strutture per ricompensare direttamente una base “tecnica” di sostegno. È ciò che ha fatto Putin dal 1999 fino alla fine del secondo mandato, nel 2008: distribuiva la rendita petrolifera secondo le simpatie politiche e industriali. Ha cambiato il modello di “oligarchi” subito dal suo predecessore Boris Eltsin, per favorire un altro sistema più fedele al Cremlino. Se “teste calde” come il povero Mikhail Khodorkovsky sono stati segregate nelle carceri siberiane, altri personaggi sono stati premiati, peraltro con il favore del popolo. Si prenda il caso del presidente dell’azienda energetica Lukoil, Vagit Alekperov: ha un patrimonio personale stimato in 14 miliardi di dollari, e alle conferenze viene applaudito dagli studenti russi, anche all’estero.

Nella seconda fase, il sistema di potere inizia a non reggere più, perché si forma una prima idea di “classe media”. I soldi del petrolio, purtroppo per il leader, hanno il viziaccio di finire ogni tanto nelle tasche del popolo: il “trickle-down effect” esercita appunto, il suo effetto. A questo punto, la strategia cambia: la classe media deve essere “cooptata”. Putin è convinto di trovarsi a questo punto: ha compreso che il sistema in auge fino al 2008 non regge più, e c’è da credergli nel fatto che voglia cambiare.

Il problema – e siamo sicuri che Putin lo sa, perché ha fior di consiglieri a circondarlo – è che nessun leader semi-democratico è mai riuscito a sopravvivere politicamente a questa fase, a meno di non impiegare violenza su larga scala. Lo Scià iraniano Mohammed Reza Pahlavi aveva un sistema di circa 50 famiglie che cibava di soldi petroliferi per cooptare la borghesia di Teheran – ma dovette soccombere alla rivoluzione del 1979, non prima di aver sciolto i cani dalla Savak, la terribile polizia segreta; e non prima di aver mitragliato la folla a piazza Zhaleh, l’8 settembre del 1978. Anche in Nigeria, il ritorno a un maggior livello di normalità economica verso la fine degli anni Novanta ha provocato la transizione dalla terza dittatura militare, alla quarta repubblica. Casi analoghi si sono verificati in Indonesia e Malesia.

Putin può aver vinto le elezioni con un “incredibile” 65% delle preferenze, ma non sarà in grado di arrestare l’onda interna. Sta cercando un nuovo nemico contro cui coalizzare le forze sociali. I suoi discorsi, tra lacrime alla Fornero e musica rock, traboccano di nazionalismo. È la strategia più facile: quando Pahlavi sparava su donne e bambini, lo faceva sostenendo che “non era per difendere se stesso, ma l’Iran”. Putin nei suoi discorsi ha citato ripetutamente la necessità di “difendere la Russia”, anche se non si è capito bene da chi. Ha ricordato la battaglia di Borodino contro Napoleone, oltre alla difesa contro l’invasione nazista. Chi sia oggi nei panni delle truppe francesi o dei nazisti viene lasciato intendere in maniera vaga, ma sembra sia un misto di attivisti occidentali, NGO delle rivoluzioni colorate e russi che hanno guardato troppa televisione occidentale.

Qualcuno è arrivato a sostenere che la Russia passerà attraverso una rivoluzione simile a quella del 1917. Non è tanto l’opinione in sé a impressionare, quanto il fatto che possa essere espressa: l’idea del 1917 è di Yevgeny Gontmakher, sociologo all’istituto moscovita per lo sviluppo contemporaneo. Certo è che Putin dovrà introdurre cambiamenti radicali: non bastano un paio di discorsi da film di Roland Emmerich per salvarsi. Il vero problema è che, più che lo sviluppo, Putin deve temere gli scossoni della recessione. Un qualsiasi problema alla rendita petrolifera – che ancora rappresenta due terzi delle esportazioni nazionali – riempirebbe le piazze.

Se osserviamo tutto quello che è successo oltre la sfera morale, Putin ha fatto un buon lavoro. Ha sottratto il possesso del paese dal monopolio delle mafie, ha riorganizzato l’esercito, ha restituito un ruolo geopolitico al paese. La produzione di petrolio ha raggiunto il record post-sovietico nel febbraio di quest’anno. Le dinamiche di questi giorni sembrano suggerire che l’agenda di Clinton pensata per la Russia degli anni Novanta stia funzionando, anche se con una ventina d’anni di ritardo: il “modernismo” di Washington sta portando la democrazia tramite lo sviluppo.

Non è ancora chiaro davvero quale sia il disegno politico di Putin a questo punto. Forse si tratta della mera permanenza al potere. È difficile che riesca a stabilire un record, a meno di non essere rieletto nel 2018. L’età non è un problema: avrà 65 anni, mentre Yuri Andropov iniziò il mandato a 68 anni, e Putin ha oggi solo un anno di più rispetto all’età di Leonid Brezhnev al primo mandato. Il problema è che Andropov è morto dopo poco più di due anni al potere. Brezhnev è stato presidente per diciotto anni.

Riuscirà Putin a eguagliare il record di Brezhnev? Potrebbe, se si trascura il fatto che il gerontocrate sovietico, pur di rimanere incollato alla poltrona, fece sprofondare il paese in una tremenda crisi economica. C’è da essere molto scettici sulla vittoria di Putin.

Le auto elettriche non sono la risposta. Ecco perché secondo Llewellyn

Scritto da: Beppe Tav
Fonte: http://www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=581

Auto elettriche, mobilità sostenibile, impatto ambientale. Ve lo ricordate Robert Llewellyn, conosciuto con uno fra i più grandi e famosi sostenitori del go electric now? Beh, Robert è colui che si è fatto 1600 km elettrici con meno di 10 dollari ovvero un equivalente di 425 km per litro con la sua full electric Nissan Leaf. Bene, secondo Robert le auto elettriche non sono la risposta. O comunque non sembrano essere l’unica risposta alla domanda su come abbattere l’inquinamento atmosferico e come ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. O comunque non adesso. Non nel modo in cui produciamo la stragrande maggioranza di energia elettrica nel mondo. Due dati: USA 50 percento energia elettrica prodotta con il carbone. Cina, 80 percento.

Secondo Robert, la questione mobilità deve essere ripensata da zero, dalla produzione di energia elettrica al concetto di proprietà del mezzo.

Sicuramente, sempre secondo Robert, il futuro del trasporto è elettrico anche perché non c’è speranza su una riduzione del costo dei carburanti ottenuti dei combustibili fossili. Però, sottolinea Robert, il problema maggiore è rappresentato dal crescente numero di persone che al mondo desiderano una o più auto. Inoltre, il concetto di proprietà privata di un veicolo è quanto di più inefficiente possa esistere. E’ un po’ come possedere un aereo che rimane inattivo per l’80-90 percento della sua vita e quando è in volo viaggia semi vuoto. Dobbiamo continuare ad inseguire questa logica e sperare che la sola elettrificazione dei mezzi di trasporto rappresenti la soluzione a tutti i mali? Not really.

Cosa intende allora Llewellyn? Dovremmo rinunciare ad inseguire il mito di possedere una nostra auto e al contempo, a livello sociale, passo dopo passo si dovrebbe ripensare il concetto di trasporto in modo talmente radicale che solo il pensiero sul “come” ci sfugge?

Anche chi scrive è guidatore di veicoli elettrici da 12 anni: due scooter elettrici, un’ibrida elettrica/benzina, impianto fv (…) e, come Llewellyn, assoluto sostenitore dell’elettrificazione dei veicoli di trasporto. Quindi, in qualità di go-elettric-man, non posso non rimanere perplesso di fronte a certe considerazioni. Intuisco al contempo però che alla base del concetto di rivisitare il principio di proprietà privata legata al veicolo/i che utilizziamo per spostarci ci sia un’intuizione geniale: non è solo una questione di tecnologia ma anche di grandi numeri e organizzazione su scala globale.

Onestamente il pensiero di Llewellyn mi intriga. Come la pensate?

Approposito di Rober Llewellyn, date un’occhiata a questo reportage: http://www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=516 Alè

PREGANDO PER LA VERITA’ SULLA SINDONE.

Scritto da : Angelo Paratico per il Sunday Morning di Hong Kong
Tadotto per la patatina fritta da : Anna Nicoletti e Francesco Fontana

Dopo un nuovo studio italiano che rivela che il telo della Sindone non è un falso, come dichiarato 20 anni fa, gli scienziati devono mettere il mistero a tacere.

Come molte persone, non ritengo che la Sindone di Torino sia il lenzuolo funerario di Gesù Cristo quando fu sepolto prima della sua resurrezione.Ma vorrei una prova inconfutabile che ho ragione.

La secolare controversia sull’autenticità della Sindone è stata riaccesa il mese scorso quando cinque scienziati italiani, che indagano sul mistero da molti anni,  hanno pubblicato la loro relazione.Lavorando presso l’ Enea – l’ Agenzia Nazionale Italiana per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile, di proprietà del governo nazionale- gli scienziati hanno concluso che l’immagine di un uomo, presumibilmente Cristo, sul famoso telo di lino non sarebbe potuta essere riprodotta. In altre parole, la Sindone non è un falso medievale come molti ritengono.

Il rapporto contesta ciò che gli scienziati del Progetto di Ricerca Sindone di Torino (STURP) avevano concluso nel 1980 attraverso la datazione al radiocarbonio.Costoro avevano preso minuscoli campioni di materiale dalla Sindone, di 4,4 metri di lunghezza e 1,1 metro di larghezza, e li avevano analizzati nei laboratori di Oxford, Zurigo e Tucson(Arizona).

I risultati avevano evidenziato che il tessuto era stato prodotto tra il 1260 ed il 1390, conclusione che aveva reso l’immagine della Sindone un falso.Tuttavia, era stato evidenziato che una parte del lavoro del gruppo di ricerca STURP era stato gestito in maniera grossolana.Dall’inizio molti esperti avevano messo in dubbio la validità del test di datazione al radiocarbonio per una serie di valide ragioni.I campioni di tessuto provenivano tutti dalla stessa parte del telo della Sindone: sul bordo del tessuto, toccato durante varie cerimonie nel corso dei secoli da centinaia di dita sporche ed unte e quindi contaminato da ” vernice biogenetica “- si presentava uno strato di batteri e funghi.

Gli scienziati del gruppo STURP non avevano valutato tale contaminazione per vedere se avrebbe potuto influire sui loro risultati.Eppure un’inchiesta dei primi anni ‘90 sui frammenti di tessuto residuo utilizzato per lo stesso esperimento aveva evidenziato la presenza di questa “vernice”, stimata, in quantità, più della metà del peso del tessuto.

Inoltre, il materiale testato nel 1988 non era in realtà parte della Sindone originale, ma un rattoppo cucito durante il medioevo per coprire un foro, secondo un più recente consenso da parte degli specialisti.

Tuttavia lo studio del gruppo STURP era giunto ad alcuni utili risultati. Non furono trovate tracce di pigmenti o colori e fu stabilito che l’immagine non era stata creata per riscaldamento o stampa. Le macchie erano di sangue umano ed avevano lasciato vari tipi di sfumature contenenti notevoli informazioni tridimensionali, a differenza di quanto potrebbe avvenire in disegni o dipinti.

Inoltre il colore che forma il contorno dell’immagine della Sindone era misteriosamente debole. Esso penetrava uno strato molto superficiale delle fibre di lino – più sottile di un quinto di millesimo di millimetro. Ciò potrebbe essere stato realizzato solo tramite un processo di ossidazione (ad oggi) sconosciuto.

Non vi era alcuna immagine al di sotto delle macchie di sangue. Questo spingeva i ricercatori a pensare che fosse stato dapprima depositato il sangue e, in seguito, l’immagine. L’unico modo per riprodurre una tale tipologia di immagine sarebbe l’utilizzo di un flash di luce.

Gli scienziati dello studio Enea hanno proposto che sarebbe teoricamente possibile riprodurre tale immagine utilizzando un “laser ad eccimeri”, una tecnologia che permette di modificare strati straordinariamente sottili di materiale lasciando il resto intatto.

Tuttavia, simulare l’intera immagine della Sindone usando tale laser richiederebbe un’energia di miliardi di volt – più di quanto sia disponibile ovunque al giorno d’oggi. Anche se tale quantità di energia fosse disponibile, il laser non sarebbe in grado di riprodurre tutti i dettagli quali i lievi cambi di tonalità tra le differenti sfumature di giallo nelle fibre colorate.

La traccia sul telo era talmente vivida da rendere ancora possibile una dettagliata analisi forense del cadavere.

La figura sulla Sindone è l’immagine in negativo di un adulto nudo, di età compresa tra 30 e 45 anni, 175-180 cm di altezza e 75-81 kg di peso. Portava barba e baffi, capelli con riga centrale raccolti in un codino – la sua più forte caratteristica ebraica.

Il cadavere potrebbe essere rimasto a contatto col tessuto da poche ore a qualche giorno. In questo tempo il telo avrebbe in qualche modo catturato una ricchezza di dettagli che nessun falsario medioevale avrebbe potuto conoscere, mentre il processo di crocifissione concordava quasi perfettamente con la descrizione dei Vangeli.

I segni delle fustigazioni sono coerenti con la forma delle sfere metalliche presenti sulle fruste dei Romani – la memoria delle quali è andata persa nel Medioevo. Ancora più eloquente il fatto che lunghi chiodi siano stati conficcati attraverso i polsi dell’uomo e non i palmi delle mani – una pratica dimenticata dopo la caduta dell’impero Romano. Ciò era certamente sconosciuto ai pittori e scultori medioevali e rinascimentali, come dimostrato dalle loro opere.

È persino possibile identificare il tipo di lancia utilizzata per trafiggere il torace dell’uomo crocifisso ed il punto esatto di perforazione. Questo non si ritrova sul busto, come ritratto in tutti i dipinti antichi, ma sotto l’ascella, in accordo con l’usanza Romana.

La forma della lancia, come possibile dedurre da reperti archeologici, corrisponde a quella presente sulle armi in dotazione all’esercito Romano all’epoca di Gesù Cristo. Era una lancea ( giavellotto), non una hasta, (lancia), un pilum , (giavellotto per breve distanza) o hasta veliaris, (lancia corta), utilizzato dalla fanteria romana. Inoltre un’analisi dei pollini trovati sulla superficie della Sindone sembra indicare un’origine asiatica del tessuto, forse Libano o Siria. Se accettiamo che il telo abbia 2000 anni, possiamo speculare che sia stato portato in Europa attraverso la vecchia capitale della Turchia, Costantinopoli, magari nascosto nel bagaglio di uno sconosciuto crociato.

Molti hanno sperato che Benedetto XVI, quando divenne papa, avrebbe consentito una nuova analisi scientifica della Sindone attraverso metodi non distruttivi. Tuttavia, subito dopo la sua elezione, queste speranze sono scemate in seguito a una forte resistenza all’interno della Chiesa ed una parte della comunità scientifica. Nel frattempo sono proliferate teorie di cospirazione sulla falsa riga del Codice Da Vinci e romanzi indagano nel mistero. Se esiste un enigma in attesa di soluzione, sicuramente questo è tale.

Giappone: si lasciano morire in silenzio

Scritto da : Debora Billi
Fonte: http://crisis.blogosfere.it/2012/02/giappone-si-lasciano-morire-in-silenzio.html

Se nei Paesi latini ricorrere al welfare è considerato un normale diritto, se in quelli anglosassoni è un’estrema risorsa da disperati, in Giappone è una vergogna tale da preferire la morte.

Qualcuno conclude, forse non a torto, che la tragedia di Fukushima sia stata una ferita mortale per il Giappone.

La cultura giapponese è unica al mondo, ed è assai difficile da decifrare per noi. La crisi sta colpendo duro anche nel Paese del Sol Levante, unita al dramma culturale ed economico che ha rappresentato Fukushima. Ma, ricorda Business Insider, con una differenza fondamentale rispetto a noi: il sentimento della vergogna.

Se nei Paesi latini ricorrere al welfare è considerato un normale diritto, se in quelli anglosassoni è un’estrema risorsa da disperati, in Giappone è una vergogna tale da preferire la morte. Ed è proprio quello che sta succedendo.

Le conseguenze sono mortali quando gli anziani, o i cittadini in improvvisa povertà della terza nazione più ricca del mondo vengono lasciati senza un’opzione per salvare la faccia. Le morti solitarie, chiamate kudokushi, sono in aumento in tutto il Giappone.

Persino un’intera famiglia: genitori anziani e figlio disoccupato sono stati trovati morti nella loro abitazione rimasta senza luce e riscaldamento. Si sono lasciati morire di fame.

I disastri culturali e morali che sta causando questa crisi, a cominciare dalla Grecia, non saranno riparati che in generazioni.

Foto – Flickr

Il disastro di Bhopal del 1984

Fonte:http://www.ditadifulmine.com/2012/02/il-disastro-di-bhopal-del-1984.html

Wikileaks ritorna a fare notizia con una manciata (circa 5 milioni) di e-mail potenzialmente compromettenti per molte aziende private, governi e agenzie di intelligence di tutto il mondo. La cosa più interessante nel rilascio di queste informazioni è che noi, comuni mortali soggetti al costante bombardamento di mass-media privi di alcuna iniziativa investigativa, siamo finalmente in grado di saperne di più su alcuni episodi poco discussi, o addirittura nemmeno mai sentiti, che in passato hanno causato migliaia di morti.

Uno dei casi destinato a riaprirsi dopo quasi 30 anni è quello del disastro di Bhopal del 1984, per il quale la responsabilità è caduta sull’ azienda americana Union Carbide, in seguito inglobata all’interno di una delle aziende chimiche più potenti del mondo, la Dow Chemical, che finanzierà le prossime olimpiadi londinesi.
L’impianto di Bhopal della Union Carbide India Limited fu costruito nella regione indiana del Madhya Pradesh nel 1969, per produrre il pesticida Sevin utilizzando l’isocianato di metile, un composto estremamente tossico e infiammabile ottenuto dalla metilammina e il fosgene, una delle più velenose sostanze chimiche mai create negli ultimi due secoli.
Anche l’isocianato di metile non scherza in quantro a pericolosità: al contatto con l’acqua crea una violenta reazione termica, la sua velenosità è 500 volte superiore al cianuro e ben 5 volte più elevata del fosgene.
Durante la notte del 2-3 dicembre del 1984, si verificò un’infiltrazione d’acqua in uno dei serbatoi dell’isocianato di metile, che conteneva circa 42 tonnellate di questa sostanza. La combinazione tra i due elementi scatenò una reazione esotermica portando la temperatura interna del serbatoio a 200°C; la pressione fu tale da costringere il sistema di emergenza della centrale ad aprire le ventole di aerazione del contenitore e permettere la fuoriuscita dell’isocianato in direzione della città di Bhopal.
Le ragioni di questa infiltrazione d’acqua sono tutt’oggi poco chiare, anche se si ritiene che l’incidente abbia avuto alla base un errore umano (scarsa manutenzione e assenza di piani d’emergenza). L’impianto di Bhopal, infatti, aveva già fatto registrare malfunzionamenti e incidenti tra i quali si ricordano:
  • 1981: un operaio cadde nella vasca del fosgene, morendo 72 ore più tardi;
  • 1982: fuoriuscita di fosgene. 24 operai che non indossavano maschere protettive furono ricoverati in ospedale;
  • 1982: fuoriuscita di isocianato di metile che avvelenò 18 dipendenti;
  • 1982: un ingegnere dell’impianto venne a contatto con l’isocianato di metile, subendo ustioni sul 30% del corpo;
  • 1983-1984: continue perdite di diverse sostanze, tra cloro, isocianato e fosgene.
L’incidente del 1984 fu diverso dai precedenti: i reali problemi ebbero inizio quando l’isocianato di metile raggiunse i primi nuclei abitativi della periferia. La nube di gas tossico probabilmente conteneva anche tracce di fosgene, monossido di carbonio, acido cloridrico e anidride carbonica, e la sua elevata densità rispetto all’aria la fece viaggiare al livello del suolo tra le strade della città.
I sintomi iniziali nella popolazione colpita furono nausea, vomito, irritazione agli occhi e senso di soffocamento. I tentativi di fuga a piedi non ebbero molto successo, dato che il lavoro aerobico non fece altro che aumentare i quantitativi di gas tossico inalato.

Al sorgere del sole, migliaia di persone giacevano morte per le strade, e con loro anche qualche migliaio di animali domestici e d’allevamento. La mattina del 3 dicembre 1984 ci furono oltre 170.000 ricoveri in ospedali e cliniche da campo improvvisate per far fronte all’incidente, ma era solo la prima parte del disastro.
Nei giorni successivi, il cibo contaminato venne buttato, e fu proibita ogni attività di pesca per paura di mettere sul mercato pesce avvelenato. Circa 520.000 persone risentirono degli effetti della nube tossica, tra i quali 200.000 sotto i 15 anni e 3.000 donne in maternità.
Le successive inchieste stabilirono un totale di 3.928 morti durante i primi giorni dell’emergenza, anche se organizzazioni indipendenti parlano di circa 8.000 decessi nelle sole 72 ore dopo l’incidente. In totale si contarono oltre 25.000 vittime come risultato dell’esposizione prolungata a questo mix di gas tossici.
Circa 100-200.000 persone subirono danni permanenti ai tratti respiratori e al sistema circolatorio, la mortalità alla nascita aumentò del 200% e il tasso di aborti spontanei del 300%.
Nel giro di qualche giorno, gli alberi della città non avevano più foglie. A distanza di 5 anni dall’incidente, i campioni di acqua e terreno prelevati nei pressi dell’impianto rimanevano tossici per la maggior parte delle forme di vita locali.
Oggi, l’impianto di Bhopal è ancora in piedi, anche se inattivo. Perde costantemente pezzi di struttura, e i residui delle sostanze tossiche contenute nei serbatoi fluiscono nel terreno, inquinando la falda acquifera. A questo si aggiunge il fatto che l’area attorno alla fabbrica fu utilizzata per molti anni come discarica per sostanze tossiche, portando alla chiusura di oltre 100 pozzi d’acqua contaminata.
Attorno alla fabbrica è stato rilevato un gran numero di composti tossici, come Sevin, naftalina, mercurio (da 20.000 a 6 milioni di volte la quantità naturale), cromo, rame, nickel, piombo, cloroformio. Alcune di queste sostanze sono state trovate all’interno del latte materno di molte donne di Bhopal, e l’acqua di alcuni pozzi presenta un livello di contaminazione di 500-1000 volte superiore ai limiti di sicurezza raccomandati dalla World Health Organization.
Circa 30.000 persone bevono ancora oggi l’acqua contaminata dai rifiuti dello stabilimento della Union Carbide, e dalle sostanze tossiche rilasciate nell’ambiente dall’incidente del 1984.

Il libro nero della pedofilia

Fonte: http://www.associazioneprometeo.org/pilot.php?action=new_pg&cl=6&ip=163&iv=163&im=164

IL LIBRO
NERO DELLA PEDOFILIA – Novità 2011
ed. La Zisa,  € 12,00 – con la prestigiosa prefazione del Pm Alessia Sinatra.
Trattasi di una nuova versione aggiornata di “I predatori di bambini” con capitoli inediti, nuovi dati e nuove testimonianze.
Forse il libro più duro ma anche più reale sul dramma della pedofilia nel nostro paese.

“…ecco il libro che tutti dovrebbero leggere e che ha reso Frassi il Saviano della lotta alla pedofilia, prima ancora che l’Italia scoprisse chi è Saviano…”

La Tv a colori in Italia

Scritto da : Sergio Mannu
Fonte: http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=710

La cosiddetta “paleotelevisione” degli anni ’50 e ’60 ha lasciato molti piacevoli ricordi, non solo per la straordinaria qualità dei suoi programmi ma anche per lo spirito di pionieristica sperimentazione, proiettato verso il futuro nonostante la sostanziale povertà dei mezzi. Qualcosa di simile si ebbe anche negli anni ’70, quando la televisione, ormai assurta al ruolo di nuovo focolare domestico, fece lo storico passaggio dalle nebbie catodiche del bianco e nero al gioioso e assai più realistico colore, in vigore negli Stati Uniti fin dal 1954. Si incominciò a parlare di televisione a colori nel 1961, anno di nascita del Secondo Programma, poi nel 1967 allorquando la Gran Bretagna incominciò a trasmettere col sistema PAL. Parve poi certo che l’anno fatidico per l’Italia sarebbe stato il 1970, tanto che la RAI incominciò le sue prime prove tecniche trasmettendo al mattino una serie di immagini statiche a colori, con commenti musicali quali il “Valzer dei fiori” di Tchaikovskij. Purtroppo, un’interrogazione sollevata dall’onorevole repubblicano Ugo La Malfa destò il fondato timore che gli italiani si sarebbero indebitati fino all’osso per acquistare gli allora costosissimi televisori a colori. Si ritenne opportuno attendere tempi migliori e l’occasione propizia fu offerta dai Giochi Olimpici di Monaco 1972, trasmessi a giorni alterni col sistema tedesco PAL e con quello francese SECAM. Nelle principali città italiane non furono pochi i negozi che esposero nelle loro vetrine modernissimi televisori a colori, con l’uno o con l’altro sistema data la reciproca incompatibilità. Fu così che, quasi vent’anni dopo i gloriosi tempi di “Lascia o raddoppia?”, si rividero nuovamente folti capannelli di persone radunate attorno ad uno schermo televisivo. Tuttavia, contrariamente alle attese, la maggior parte della gente smorzò quasi subito i suoi primi entusiasmi. I televisori di allora, ancora imperfetti ed anche mal regolati dagli inesperti negozianti, offrivano tinte eccessivamente forti o sgradevolmente sbiadite, lasciando pertanto al vecchio televisore in bianco e nero il momentaneo gradimento del pubblico. E’ di quel periodo il primo annuncio a colori della nostra Televisione di Stato. La prescelta fu Rosanna Vaudetti, da allora ribattezzata “l’annunciatrice tutta d’oro” per la sua telegenia e l’impeccabile professionalità. L’immagine di accoglimento al Forum di Pagine 70 ritrae la brava Rosanna proprio in occasione di un annuncio fatto in quel leggendario periodo ormai entrato nella memoria collettiva.
Sempre nel 1972 venne fatta l’ipotesi di un sistema di televisione a colori tutto italiano, l’ISA, concepito dalla torinese Indesit. Il progetto ISA suscitò grande interesse ma non fu accettato dal Governo italiano a causa della sua non conformità con i sistemi europei esistenti. Nell’estate del 1974 il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) ufficializzò il sistema che sarebbe stato adottato per le trasmissioni a colori in Italia: il PAL, progettato dall’AEG Telefunken e adottato con successo in Germania e nei Paesi anglosassoni. Il momento è fatidico: siamo nell’agosto del 1975 e la RAI incomincia finalmente le sue regolari prove tecniche di trasmissione a colori, con una speciale programmazione irradiata due volte al giorno nelle fasce orarie 10-11 e 15-16, sul Nazionale al mattino e sul Secondo Programma al pomeriggio, fino alla tarda estate del 1981. Quasi senza volerlo, le “Prove tecniche di trasmissione” sono diventate parte della storia della nostra televisione; sembra anzi incredibile che un tale programma, ideato per pure ragioni sperimentali e con quell’inquietante voce femminile fuori campo che ripeteva ad intervalli regolari “Prove tecniche di trasmissione”, abbia potuto riscuotere un così grande successo, soprattutto presso chi allora era ragazzo. La struttura di queste prove era così articolata: dopo alcuni minuti di video a strisce colorate e di audio con il sibilo a frequenza costante, incominciava la prima parte, consistente in una sequenza di immagini statiche riesumate dalle prime prove effettuate ad inizio Decennio. Sulle calde note della “Sonata per archi n. 3 in Do maggiore” di Gioacchino Rossini, le immagini erano le seguenti:

– elegante ragazza bionda in una cucina anni ’60;
– bambino fra i giocattoli, con in testa un copricapo da pellerossa;
– fiori di anthurium, uno rosso e l’altro verde;
– signora dai capelli scuri intenta a truccarsi, con rossetto e spruzzatore del profumo in bella evidenza;
– ragazza con racchetta e pallina, viste attraverso la rete di un campo da tennis.

Conclusa la prima parte, seguivano alcuni minuti del nuovo monoscopio a colori Philips PM5544, già in uso presso Tele Montecarlo che allora trasmetteva in SECAM. Incominciava così la seconda parte, costituita da una sequenza di filmati:

– signora che ritorna dalla spesa e prepara da mangiare, in una piacevole atmosfera casalinga accompagnata da una musica raffinata e distensiva;
– studio di pittori alle prese con varie tecniche: acquerello, olio, collage, carboncino ecc. Commento musicale d’eccezione: Adagio dal “Concerto in Re minore per oboe e orchestra op. 9 n. 2” di Tomaso Albinoni;
– rappresentante di stoffe che mostra a due bellissime ragazze, una dai lunghi capelli biondi, l’altra dai lineamenti orientali e con un’acconciatura a caschetto, un ricco campionario di scampoli in raso. Anche in questo caso, un commento musicale di rara bellezza: il “Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2” di Fryderyk Chopin;
– la stessa ragazza orientale mentre passeggia in un giardino di Roma, ammirandone i policromi fiori. Colonna sonora, il commovente dialogo tra corno inglese e flauto traverso, tratto dall’Ouverture del “Guglielmo Tell” di Gioacchino Rossini;
– scena al giardino zoologico di Roma, sulle note dell’Ouverture de “La gazza ladra” di Gioacchino Rossini.

Dopo un altro breve intermezzo col monoscopio Philips, la terza parte concludeva le prove tecniche, ripetendo le stesse immagini della prima ma col sottofondo di trionfanti musiche del periodo barocco. A partire da chi scrive, non furono pochi coloro che all’epoca seguivano quotidianamente le prove tecniche di trasmissione, arrivando in certi casi a vederle per ben due volte al giorno e registrandone su nastro la gradevolissima colonna sonora. Il desiderio sempre più forte del colore, il senso di un imminente futuro ad alta tecnologia, la bellezza della musiche, la delicatezza delle scene proposte, i particolari con maggiore effetto cromatico sapientemente evidenziati dalle riprese, il continuo esercizio della fantasia da parte dei numerosi spettatori che ancora possedevano il televisore in bianco e nero, possono spiegare perché queste prove tecniche risultassero tanto gradite. Sulla scia di questo ottimismo, a partire dall’estate del 1976 la RAI incominciò ad irradiare numerosi programmi a colori: le Olimpiadi di Montreal e soprattutto “I quaderni neri del TG2”, primo programma RAI a ricevere l’autorizzazione ministeriale ad essere trasmesso “parzialmente a colori”, ossia con riprese a colori in studio e filmati storici in bianco e nero. Per tutta la durata del 1976 e parte dell’inizio del 1977, le annunciatrici ci dicevano che “…la RAI è stata autorizzata a trasmettere il programma anche a colori…” e non vi è dubbio che la cosa stuzzicasse alquanto la sensibilità, se non l’invidia, di chi ancora non era dotato di un televisore idoneo.
Finalmente, proprio nel periodo natalizio, l’allora ministro delle Poste e Telecomunicazioni Vittorino Colombo comunicò al termine delle edizioni serali del TG1 e del TG2 che il 1977 avrebbe decretato la nascita ufficiale della televisione a colori in Italia, passo indispensabile per consentire alla RAI di stare allo stesso livello delle principali emittenti europee. Data stabilita: martedì 1° febbraio. Giunse il tanto atteso giorno, celebrato da Corrado nella sigla d’apertura di “Domenica In” e da quel momento la nostra televisione incominciò a svecchiare la sua immagine, introducendo via via la lieta nota del colore tanto atteso dopo le innumerevoli pastoie burocratiche del passato. Le gloriose sigle di inizio e fine trasmissioni, soppresse nel 1982, furono colorate in azzurro, così come il vecchio Segnale Orario delle ore 20. Anche le italiche vedute dell’Intervallo ricevettero una nota di vivo colore, prima di scomparire anch’esse nel cassetto dei ricordi. Il vecchio monoscopio RCA in bianco e nero sparì definitivamente e poco per volta il colore si estese anche alle pubblicità (dal gennaio 1978) e a tutti gli altri programmi, da quelli di intrattenimento agli sceneggiati, dall’attualità ai film. Grandi fruitori del colore furono naturalmente gli spettacoli di rivista e le trasmissioni sportive, come ad esempio “90° minuto” che andò in onda per lungo tempo parzialmente a colori a seconda che la sede RAI collegata fosse attrezzata adeguatamente oppure no.
Resta, di allora, il tenero ricordo di una certa ingenuità, ma anche di tanta serietà professionale, caratteristiche che il delicato color pastello dei primordi della televisione a colori, ricco di distensive sfumature grigio-azzurre o di soffusi beige e crema, rende ancora più care se facciamo un qualsivoglia paragone con la moderna televisione, perfetta nel suo aspetto esteriore, magniloquente nel suo colore di smalto, proiettata verso tecnologie sempre più sofisticate ma deprimente nel suo stile urlato e spesso oltre ogni regola del galateo e del vivere civile.

La Costituzione? E’ anti-democratica

Scritto da: Alessio Mannino
Fonte: http://alessiomannino.blogspot.com/2012/01/la-costituzione-e-anti-democratica.html?showComment=1326113358376#comment-c6257740228939705490

Nel suo discorsetto banale e vacuo di Capodanno, il presidente Napolitano non ha mancato una difesa d’ufficio dei partiti, tanto più patetica quando più queste idrovore sono impopolari presso gli italiani (la fiducia è al minimo storico: 5%). Ma tant’è: i partiti sono costituzionalmente tutelati, benché non nella prima parte, ahinoi considerata inviolabile in eterno, ma nella seconda, suscettibile di cambiamenti teoricamente più facili. Comunque, carta o no, la forma-partito marcisce nel discredito che si merita, e questo Capo dello Stato li rappresenta degnamente, essendone un sottoprodotto e neanche dei migliori.

Interessante notare, tuttavia, come nella stessa stampa che magnifica il Quirinale partitocratico e inveisce contro l’“antipolitica” si leggano le più accanite campagne contro gli abusi dei partiti e certi scampoli di presunta iconoclastìa rispetto a mafie di segreterie e mandarini d’apparato. Parliamo naturalmente del Corrierone, che non si smentisce mai. Giù botte al parlamento e al parassitismo della casta col duo Stella-Rizzo, che sinceramente ha stufato (si accorgeranno mai, questi due segugi di buvette, che a guidare le sorti del paese, dell’Europa e del mondo è la finanza?). E poi, vai col tango di opinioni vergate da editorialisti anche bravi, acuti e tutto sommato onesti – dal loro punto di vista blindato e allineato, s’intende – che ci offrono riflessioni alate giusto per dare al lettore il piacere momentaneo di un volo pindarico. Che resta lì, sospeso nel campo della fantasia, perché non sia mai criticare sul serio la balla della “democrazia”.
Ieri è stato il turno di Michele Ainis (uno dei pochi meritevoli di essere letti, se comparato a quei bei tomi di Ostellino, Panebianco e Galli della Loggia). Il politologo prova a fare proposte che lui stesso definisce “utopistiche”: «Se l’utopia è il motore della storia, adesso ne abbiamo più che mai bisogno per continuare la nostra storia collettiva». Partendo dalla constatazione, che nessuno osa negare, che la politica in Italia è vista come un affare di élites autoreferenziali, Ainis spara tre cartucce: soglia di due mandati parlamentari (è l’identica richiesta di Grillo e del suo Vaffa-day del 2007); il recall americano-canadese, cioè la possibilità di revoca anticipata dell’eletto; la demarchia di discendenza ateniese, cioè una Camera di cittadini scelti a sorteggio.
A parte che si tratta davvero di utopie, dato che alla corporazione parlamentare non è riuscito neppure di tagliarsi lo stipendio fin da subito, alla faccia dei sacrifici imposti a tutti gli altri italiani, il senso della provocazione è appunto quella di essere una provocazione, un futile baloccarsi da intellettuali. Non si tratta di correggere la meccanica della macchina, pensando perfino di riesumare la saggezza della più antica, e quella sì reale, democrazia della storia. Basta con il fumo cervellotico, le trovate d’importazione, le riformine stitiche. Non è estraendo a sorte o limitando l’ingordigia dei politicanti che si cambierà alcunché di significativo. La democrazia delegata è la maschera del potere assoluto della bancocrazia, dell’economia globalizzata dei mercati: se non si parte da qui, si produce solo aria fritta e inchiostro inutile. E non si evochi, per piacere, l’Atene di Clistene, Solone e Pericle, che inventò la demos-kratìa proprio in opposizione alla oligarchia, il predominio sfruttatore dei pochi ricchi sul popolo, inteso come i molti meno abbienti. La nostra è un’oligarchia, e andrebbe rovesciata come fecero i fieri Ateniesi: cominciando dalle regole fondamentali, dalla base. Cioè dalla Costituzione, che nel nostro caso, al contrario dei suoi fanatici difensori, democratica non è: priva del diritto di voto su materie fiscali e trattati internazionali, esattamente le due leve essenziali perché uno Stato sia libero e sovrano.

Pecoranera: la storia del ragazzo che volle diventare un contadino.

Scritto da: Pamela Pelatelli
Fonte: http://www.greenme.it/approfondire/interviste/7073-pecoranera-contadino-intervista

Devis Bonanni non ha ancora compiuto 28 anni. Quando ne aveva 24 ha deciso di cambiare la propria vita. Prima ha lasciato un buon lavoro da tecnico informatico, poi una bella cameretta nella casa di famiglia, una macchina e la tv. Ha deciso di andare a vivere in una baita nelle montagne sopra Udine. Terra aspra e non certo accomodante. Ha chiamato il suo appezzamento di terreno “Pecoranera”, lo stesso soprannome con cui lo indicavano in paese quando era adolescente. Ha iniziato a coltivare la terra, a vivere dei suoi frutti e a muoversi solo in bici.

Da quattro anni tiene un blog: è così, tramite il passaparola digitale che la sua storia è diventata nota. Tanto da essere diventata un libro dal titolo “Pecoranera: un ragazzo che ha scelto di vivere nella natura”  in uscita il 6 marzo per la casa editrice Marsilio. In anteprima riportiamo un breve passo tratto dal libro.

Non c’era ritorno possibile da quell’atto. Una volta ancora avevo scatenato l’inevitabile con ragionevole follia. C’erano lunghe giornate nei campi ad attendermi. Libero com’ero da qualsiasi impiccio mi sarei dedicato anima e corpo a quella terra. Degli appezzamenti sui quali sorge Pecoranera circa un terzo è della mia famiglia. Un altro terzo è utilizzato per gentile concessione dei proprietari, in cambio di qualche cesto di verdure. L’ultima parte l’ho acquistata nell’autunno precedente le mie dimissioni dal lavoro. Quell’anno iniziava il vero e proprio esperimento di autosufficienza alimentare. Con Alvise avrei coltivato il mais. Luca mi avrebbe dato una mano con le patate mentre il resto del campo si sarebbe diviso tra fagioli e verdure estive. La serra avrebbe fornito un abbondante surplus di pomodori da commerciare, ma l’idea era di inserire in quest’attività anche la farina da polenta, i fagioli e qualche quintale di patate a pasta bianca e rossa”.

Ti senti uno che ha intenzione di cambiare il mondo?

Ho sempre pensato che fosse un errore immaginare di dover fare cose per salvare l’ambiente. La natura è mille volte più grande di noi e il potere con cui possiamo incidervi è infinitesimale. Penso piuttosto di dover fare qualcosa di bello per me: decidere di vivere in modo naturale o all’aria aperta fa bene innanzitutto al mio corpo. Presuppongo però che quello che cerco per me stesso possa essere una proposta di vita anche per qualcun altro. È per questo che ne parlo.

Da cosa è nata l’idea di scrivere un libro sulla tua esperienza?

Ho iniziato a scrivere il blog in tempi non sospetti, quando queste tematiche erano ancora poco sentite. Stavo per lasciare il lavoro e avevo cominciato a riflettere su alcune questioni che poi ho approfondito nel tempo. Ho intrapreso l’avventura della scrittura con la voglia di raccontare e di cercare contatti. In un certo senso era un modo per non sentirmi solo. Il libro è stata una naturale evoluzione di quell’esperienza.

In cosa ti senti differente dai tuoi coetanei?

Mi sento differente da tutti quei coetanei che vivono in maniera automatica: senza riflettere in modo critico sul mondo che li circonda e senza sforzarsi di avere un opinione. Sento nelle persone della mia età la disaffezione nei confronti della politica e la mancanza di un vero senso civico. Penso invece che i problemi contingenti siano importanti eoccuparsene non significa compiere scelte radicali come le mie, ma semplicemente interrogarsi. Io so per esempio che anche se non avessi intrapreso questo percorso, mi sarei comunque fatto domande sul mio senso nel mondo.

Per me, lasciare il lavoro a 24 anni, andare a vivere in una casetta in montagna, decidere di coltivare la terra e spostarmi in bici sono state azioni simboliche che esprimevano un bisogno di distinguermi, anche attraverso comportamenti radicali. Ora sento meno la necessità di dimostrare e ho ritrovato un mio equilibrio: vivo in un appartamento normale e ho rinunciato all’idea di essere vegano. Nel complesso però continuo a coltivare il mio stile di vita.

Nel tuo libro sono numerose le citazioni tratte da “Walden, ovvero la vita nei boschi” il libro-culto di Henry Thoreau e Into the Wild, il film diretto da Sean Penn sulla storia vera di Christopher Mc Candless. Cosa ti ha fatto sentire vicino a queste due esperienze molto diverse tra loro?

Ho visto Into the Wild al cinema una settimana dopo essermi licenziato. Ricordo di essermi riconosciuto in quel bisogno estremo di avventura che ti prende quando sei molto giovane. Sentivo molto mia la forza con cui Cristopher Mc Cordless decide di rifiutare la società da cui proviene con la voglia di cercare altrove il senso da dare alla vita, oagli oggetti attorno a sé. Per quanto riguarda Thoreau invece: l’avevo letto qualche anno prima e ricordo che era stato come trovare un maestro. Improvvisamente avevo di fronte qualcuno che aveva trovato le parole con cui fare chiarezza in quel subbuglio di pensieri che io sentivo di provare. Pensai subito che quello dovesse essere il mio manifesto.

Libri e natura sono due elementi che nel libro ritornano spesso e puntellano la tua formazione personale. Che significato hanno per te?

Sono sempre stato molto attratto dalle parole, dai ragionamenti e dalla filosofia fino a quando, un giorno, ho cominciato a provare un senso di nausea nei confronti di tutte quelle discussioni che rimanevano troppo fini a se stesse. Per contrappasso, ho smesso di leggere e ho deciso di toccare con mano le cose. Oggi sento di aver bisogno di far passare le idee attraverso il contatto: fare l’orto, decide di vivere in un certo modo è stato il mio modo di mettere in pratica tanti insegnamenti ricevuti dai libri.

Nel tuo libro, si parla spesso di frugalità, un termine che comincia a sostituire concetti percepiti come maggiormente punitivi come rinuncia o decrescita. Cosa significa per te frugalità?

Siamo convinti che il benessere coincida con un certo modo di consumare. La frugalità invece è saper fare e saper fare a meno. Per me ha significato cercare di riempire il vuoto lasciato dalle cose inutili con un senso nuovo, per cercare un diverso equilibrio. Nella mia esperienza, liberarmi delle cose ha significato anche provare un certo sollievo: abbiamo molte cose cui badare, che spesso richiedono sforzo non solo da parte dell’ambiente (se si parla di smaltimento), ma anche da parte nostra. Nella misura in cui devo scegliere quelle poche cose di cui circondarmi sono costretto a ripensare il loro senso nella mia vita: perché faccio questo? Posso farne a meno? Mi serve davvero? Posso fare in un altro modo? E questo non è meno, è di più.

Khamenei : “L’Iran non ha cercato mai di dotarsi di armi nucleari, il vero problema per l’occidente è che la Repubblica Islamica ha deciso di essere indipendente”. Allora perchè l’Iran è sottoposta a sanzioni?

Scritto da: Ettore Bertolini
Fonte: http://www.agenziastampaitalia.it

ASI) Il leader della Rivoluzione Islamica, Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, in un recente incontro che si è svolto a Teheran a cui hanno preso parte il direttore e i funzionari dell’Organizzazione dell’energia atomica iraniana (AEOI) e gli scienziati nucleari della Repubblica Islamica ha affermato: “La nazione iraniana non ha mai cercato e né cercherà mai di dotarsi di armi nucleari. perché, per la Repubblica Islamica, questi sono mezzi militari negativi sotto ogni punto di vista, primo fra tutti, secondo il precetto religioso che considera il possesso di armi nucleari un peccato grave e ritiene che la proliferazione di tali armi è priva di senso, distruttiva e pericolosa”.

Poi, la Guida suprema iraniana ha aggiunto: “Le realizzazioni nucleari e gli sviluppi tecnologici sono in linea con i legittimi interessi nazionali e fatte per far progredire il paese. Infatti, se alle nazioni fosse permesso di fare progressi in modo indipendente nei settori strategici quali l’energia nucleare, il settore aerospaziale, la scienza, la tecnologia e l’ industria, non ci sarà spazio per il dominio tirannico delle potenze imperialiste”. Infine, il leader della Rivoluzione Islamica, Ayatollah Seyyed Ali Khamenei ha concluso: “Le sanzioni nei confronti dell’Iran sono entrate in vigore subito dopo la vittoria della Rivoluzione Islamica, mentre la questione nucleare è una controversia di questi ultimi anni, quindi, il vero problema per i paesi dell’Occidente non è il nucleare iraniano, ma è la Repubblica Islamica che ha deciso di essere indipendente”.

Invece, l’Occidente, che è sempre più la terra del tramonto culturale, economico e politico, spesso, non passa giorno senza trovare l’occasione per stigmatizzare, con pretesti il più delle volte ridicoli, la politica nucleare iraniana, rea secondo loro, di costituire una minaccia atomica mondiale ed essere un pericolo militare per Israele.

Però, lo stesso Occidente (Usa-Israel centrico), colpevolmente si dimentica, per prima cosa, di portare prove inconfutabili alle sue accuse contro l’Iran. Stiamo parlando di riscontri oggettivi che non siano come quelli falsi prodotti per giustificare l’ attacco all’Iraq. Per coverso, troviamo un Occidente, poco reattivo, che non si è indignato e nè ha agito politicamente, aprendo inchieste e facendo indagini internazionali per trovare e punire quei terroristi che, a partire dal 2007, hanno ucciso nella Repubblica Islamica cinque scienziati che erano coinvolti nel programma nucleare iraniano.

Inoltre, cosa grave, sembra ignorare il fatto che esiste una realtà assodata: Israele ha, come minimo, 200 ordigni atomici. Inoltre, lo stato ebraico non è soggetto, come avviene per la Repubblica Islamica né a periodici e minuziosi controlli Aeia (Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica) e né a sanzioni internazionali. Eppure, ci sarebbero i presupposti e i palesi rilievi che attesterebbero una certa pericolosità sulle volontà di un’importante parte dell’esecutivo di Tel Aviv.  Non fosse altro perché gli unici a parlare di un attacco preventivo, in verità, sono stati gli israeliani.
Basterebbe prendere atto delle intenzioni manifestate recentemente e più riprese da Benjamin Netanyahu e dal ministro della Difesa Ehud Barak. I due esponenti del governo israeliano stanno cercando di convincere gli altri ministri del governo ad appoggiare un intervento militare contro l’Iran. Lo ha detto un alto funzionario israeliano, citato dal quotidiano Ha’aretz. Solo guerra psicologica? O altro? La domanda è la seguente. Perché esistono due pesi e due misure? Perché, allora si ingenera la paura solo quando si parla dell’Iran? Mentre si tace e non si agisce preventivamente nei confronti di Israele?  Stante le dichiarazioni guerrafondaie dei suoi stessi membri di governo, se vere, non rappresenterebbero una più concreta minaccia per il mondo? Bisognerebbe approfondire meglio l’argomento e soprattutto avere il coraggio di vedere le cose stanno e non come vogliono farcele apparire i mezzi d’informazione al soldo degli usurai internazionali che, sottomettendo la politica alle logiche speculative a favore di pochi, hanno privato della sovranità le nazioni e affamato i popoli del pianeta!