La Compagnia Britannica delle Indie Orientali

Fonte: http://cultura.biografieonline.it/compagnia-britannica-delle-indie-orientali/

È la società di mercanti londinesi più famosa della storia. La Compagnia Britannica delle Indie Orientali (British East India Company) nasce il 31 dicembre 1600, quando la Regina Elisabetta I pone la firma sul primo statuto (detto anche patente reale) e le riconosce un monopolio della durata di 15 anni del commercio nella zona compresa tra lo stretto di Magellano e il Capo di Buona Speranza (la zona delle Indie Orientali).

L’associazione nazionale dei mercanti inizia però la sua attività, estremamente proficua, già alla fine del Cinquecento. Si narra che il capitale iniziale fosse pari a 72mila sterline, diviso tra 125 azionisti, e che in meno di 50 anni l’ammortare si fosse notevolmente moltiplicato, superando le 740 mila sterline.

Costituita la società, il primo scoglio dagli inglesi è la rivalità con gli olandesi nelle Indie: la Compagnia Olandese delle Indie Orientali dà filo da torcere a quella britannica fino al massacro dei mercanti inglesi di Amboina nel 1623, che porta a una tacita divisione delle aree: gli olandesi prendono l’Indonesia e Ceylon, mentre gli inglesi si aggiudicano l’India continentale.

Gli uffici principali della Compagnia delle Indie sono a Londra (con un distaccamento a Surat), ma nel 1616 aprono, su autorizzazione della dinastia del Gran Moghūl delle sedi anche nelle città indiane più importanti, come Calcutta, Madras e Bombay. In Cina, invece, la sede più grande è quella di Canton. Inoltre, la British East India Company può far valere, anche in questi territori, la legislazione inglese, nei confronti dei suoi traffici.
Nel giro di pochi anni le attività in Oriente diventano un fiore all’occhiello per l’Inghilterra, tanto che Carlo II decide di trasferirsi in India. La figura di Carlo trasforma moltissimo l’organizzazione della Compagnia, che oltre a forza economica, diventa anche una forza militare. Infatti, dopo il crollo dell’impero dei Moghūl e la guerra dei Sette anni, che ferma la concorrenza francese, il potere locale inglese diventa dominante in tutto il territorio. Si aggiungono a questo quadro, estremamente favorevole, alcune vittorie militari, come quella a Plassey (1757) e Buxar (1764) e, grazie agli intrighi di Robert Clive, un impiegato dell’associazione, la Compagnia ottiene pure il controllo del Bengala e Clive ne è eletto governatore.

L’associazione nazionale dei mercanti inglesi permette la creazione del Raj, ovvero l’India britannica. Ma c’è di più. È grazie proprio a questa forza che viene sradicata la pirateria. In questo contesto si afferma la figura del Captain William Kidd, ingaggiato proprio dagli inglesi per sgominare i pirati. La sua missione è catturare le navi nemiche al largo delle coste del Madagascar, a bordo della sua Adventure Galley, imbarcazione dotata di 34 cannoni e un equipaggio di 80 uomini. In realtà, Kidd si rivela un pirata corrotto nell’animo e tenta di far fortuna attaccando proprio le navi della Compagnia, ma gli inglesi scoprono l’inganno e lo impiccano a Londra.

In meno di due secoli, la Compagnia diventa vastissima, estendendo i suoi territori e trasformandosi in una sorta di governo locale. Ovviamente, la gestione amministrativa si presenta più complicata del dovuto e sorgono le prime accuse di corruzione a causa di briganti e funzionari inclini al malaffare. Il Governo inglese è obbligato a prendere in mano la situazione e nel 1784 si vota la Indian Act, la legge che separa il governo dei territori delle Indie Orientali dalle attività commerciali. Le prime spettano alla Corona, mentre i traffici mercantili alla Compagnia, che in questo modo perde la sua totale autonomia.

La British East India Company nonostante la situazione politica non smette di crescere in tutto l’Oriente: arriva in Birmania, fonda Singapore e Hong Kong, occupa le Filippine e Giava. Il declino inizia i primi anni dell’Ottocento, quando si scontra con la Cina per l’esportazione dell’oppio indiano. La Cina vuole fermare l’egemonia inglese a tutti i costi, tanto da scatenare le famose guerre dell’oppio (1840-’42). Nel 1813 La Compagnia perde il monopolio commerciale e qualche anno dopo, nel 1857 a seguito della Rivolta dei Sepoy (Guerra d’indipendenza indiana), perde anche i suoi poteri amministrativi. Nel 1860, infine, la Corona prende il controllo di tutti possedimenti della Compagnia, che si scioglie definitivamente il giorno 1 gennaio 1874.

La Compagnia delle indie, definita da molti esperti la prima e la più longeva multinazionale della storia, ha rifornito per quasi due secoli l’Europa di molti prodotti preziosi come le spezie (dalla noce moscata ai chiodi di garofano), i tessuti preziosi (dalle sete ai filati di cotone), il caffè, lo zucchero e il tè. Sono stati proprio i mercanti inglesi a impiantare la coltura del tè in India ed è stato proprio il monopolio della vendita di questa tipica pianta a far scoppiare la rivoluzione americana (il famoso “Boston Tea Party” del 1773).

Allison Mack, star della serie tv “Smallville” a capo di una setta a sfondo sessuale

Scritto da: Emanuele Fardella
Fonte: https://oltrelamusicablog.com/2017/11/11/allison-mack-star-della-serie-tv-smallville-a-capo-di-una-setta-a-sfondo-sessuale/

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Molti di voi la ricorderanno per aver interpretato la parte di Chloe Sullivan, amica e confidente del giovane Clark Kent/Superman nella serie televisiva Smallville. Oggi, la talentuosa attrice americana sarebbe accusata di aver fatto parte di una setta segreta, che reclutava donne per farne schiave sessuali.
La storia è emersa dalle testimonianze di alcune di queste donne vittime della setta che, pentite, hanno rilasciato al New York Times la loro dichiarazione.

Secondo la celebre testata americana Allison farebbe parte di un gruppo settario chiamato DOS, Dominus Obsequious Sororium (Padrone delle Donne Schiave). Il gruppo vanta un gran numero di adepti e farebbe parte di un’organizzazione ancora più ampia denominata NXIVM, fondata da Keith Rainere, un uomo già in passato accusato da ex membri della setta per via dei suoi comportamenti.

In realtà il movimento NXIVM sarebbe nato nel 1998 con lo scopo di offrire consigli alle donne per vivere una vita di successo durante la quale creare un proprio percorso personale e soddisfacente. Dietro alla facciata però si nasconderebbe una realtà molto diversa.
L’ex star di Smallville risponderebbe direttamente al leader Raniere, trovando per lui delle donne disposte ad avere rapporti sessuali. Le vittime reclutate oltre ad essere trattate come schiave, verrebbero marchiate e torturate a livello fisico e psicologico.
L’organizzazione, tuttavia, raccoglierebbe informazioni personali e fotografie da poter utilizzare durante l’iniziazione e poi sfruttarle per ricattare chi si vuole allontanare dal culto.
Frank Parlato, ex portavoce dell’organizzazione, ha dichiarato:

Allison è una vittima e una carnefice. È una vittima perché ha subito un lavaggio del cervello da Raniere ed è una delle sue schiave. Ma ha inoltre reclutato molte donne per questo culto. Prima del suo arrivo Raniere aveva intorno a sé delle donne affascinanti ma quello che ha fatto lei è usare il suo glamour e il suo status di celebrità per migliorare la sua situazione. Ha attirato un gruppo più giovane di donne nella setta“.

Bottone rosso del Viminale: fake news e ragion di Stato

Scritto da: Ga.Si.
Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1993/Bottone-rosso-del-Viminale-fake-news-e-ragion-di-Stato

Persino l’imperatore romano Tiberio, che non era certamente un democratico, quando il Senato romano si rese disponibile ad approvare una legge per perseguire chi lo criticava, lo ingiuriava, diffondeva tremende notizie sui suoi misfatti, si dice abbia risposto: “in uno Stato libero la parola ed il pensiero debbono essere liberi” (in civitate libera linguam et mentem liberas esse debent, Suet., III, 28).
Un paio di millenni più tardi, la nostra Costituzione, all’articolo 21, come tutti sanno, sancisce che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Eppure, con Internet, del quale si è magnificata per decenni la funzione liberatrice e propagatrice di idee cultura liberà (ricordate la “primavere arabe”?), tutto sta cambiando.
Per chi ancora non lo sapesse, dal 18 gennaio 2018 il Ministero dell’Interno italiano ha infatti dato agli Italiani la possibilità di effettuare quella che potremmo chiamare la prima “delazione telematica” della nostra storia. Grazie ad essa, teoricamente (ci auguriamo), anche questo nostro modesto contributo alla libertà di espressione potrebbe essere soggetto ad indagine ed eventuale deferimento alla magistratura.
È sufficiente che uno di voi, meno affezionato o più deluso lettore di altri, vada sul sito web https://www.commissariatodips.it/notizie/articolo/protocollo-operativo-per-il-contrasto-alle-fake-news.html e utilizzi il nuovo “bottone rosso”, indicando questo nostro testo come una fake news, per attivare una procedura automatizzata che tira in ballo addirittura il CNAIPIC, un organismo specializzato della Polizia postale che, dapprima in sordina nel 2005, poi ufficialmente nel 2008, è stato costituito allo scopo di proteggere le infrastrutture telematiche e cibernetiche del nostro Paese e che ora verrà impiegato 24/7, come dicono i tecnici del settore, anche al servizio di tutti coloro che magari vorranno premere quel bottone dopo aver letto questo nostro articolo…
Quindi, per favore, pensateci bene prima di proseguire!
È davvero una possibilità stimolante, questa, soprattutto per chi come noi ha appena pubblicato su clarissa.it un pezzo sulla questione delle “verità dicibili” della Repubblica. Quando cioè è venuto a dirvi che i primi sistematici generatori di fake news in genere sono, in Italia come negli altri Paesi, gli Stati stessi: per il semplice fatto che è la cosiddetta Ragion di Stato quella che più richiede di mentire, ingannare, disinformare la gente – allo scopo di puntellare il proprio potere, soprattutto nei momenti critici.
Qualcuno potrebbe ricordare fake news come quelle che la presidenza degli Usa diffuse nel 2002-2003 sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, rivelatesi poi una storica bufala – ma che intanto ha portato a un quarto di secolo di guerre, centinaia di migliaia di morti militari e civili, distruzioni immani, in tutto il Medio Oriente.
Nel 1980 sostenere che il Dc-9 Itavia precipitato nel Tirreno era stato abbattuto da caccia Nato (Usa, francesi?) sarebbe stata considerata senz’altro una fake news, ma qualche settimana fa un marinaio della portaerei Saratoga ha rilasciato un’intervista nella quale sostiene che dei piloti di quella unità americana gli parlarono dell’abbattimento di almeno due aerei libici in quel tragico giorno.
Anche sostenere che l’arresto di Totò Riina era frutto di un accordo Stato-mafia avrebbe fatto sicuramente scattare sul momento il bottone rosso di cittadini indignati, eppure l’altro ieri un Procuratore della Repubblica ha pronunciato in un’aula giudiziaria una requisitoria che avrebbe dovuto far scendere la gente in piazza per la gravità degli elementi che ha esposto sulla responsabilità di organi dello Stato in quella trattativa.
Quando Vincenzo Vinciguerra nel 1989 parlò di una struttura mista civile-militare al servizio della Nato, che operava in Italia dalla fine della guerra, i più avrebbero premuto il bottone rosso: eppure nell’agosto del 1990, un certo Giulio Andreotti, per ragioni che non stiamo qui a dettagliare, confermò che quella struttura esisteva e si chiama stay-behind/Gladio.
Per tornare quindi al principio e così chiudere l’articolo, nel 1978 affermare che il sequestro Moro veniva in qualche modo controllato da apparati dello Stato, avrebbe sicuramente fatto premere il bottone rosso a milioni di Italiani: oggi viene messo nero su bianco da una relazione finale del Parlamento repubblicano.
E se noi cittadini cominciassimo a usare quel bottone rosso per segnalare le affermazioni dei nostri politici, dei responsabili dei servizi di sicurezza, degli alti dirigenti economici, dei banchieri, di tutti coloro che manipolano la realtà per uno scopo solo – conservare il potere? E se quei poveri poliziotti che in turni massacranti se ne devono stare a consumarsi gli occhi sui megaschermi del CNAIPIC cominciassero ad accorgersi che chi minaccia la verità non è l’autore di questo modesto articoletto ma sono proprio quegli alti papaveri della Nato che li obbligano a studiarsi le raffinate tecniche della OsInt (forse clarissa.it si occuperà anche di questo prima o poi), cioè la raccolta di informazioni da fonti aperte, tra cui internet?
Davvero gli otto caccia che l’Italia manda per conto della Nato sul Baltico, a ronzare sulla frontiera con la Russia, stanno là in nome della pace del mondo?
Non sarà magari anche questa una fake news? Allora, perché non premere subito il bottone rosso del Viminale?

 

 

RECORD DI EXPORT TEDESCO, E CRESCITA DEGLI OSPITI NELLE MENSE DEI POVERI DELLA RICCA MONACO. GRAZIE GRANDE EUROPA, GRAZIE GRANDE EURO

Scritto da: Fabio Lugano
Fonte: https://scenarieconomici.it/record-di-export-tedesco-e-crescita-degli-ospiti-nelle-mense-dei-poveri-della-ricca-monaco-grazie-grande-europa-grazie-grande-euro/

Cari amici

Poche informazioni rapide, che riprendono alcuni grafici già messi a disposizione da DESTATIS , l’ente statistico tedesco.

Nel mese di novembre 2017 la Germania ha esportato merci per 116,5 miliardi di euro , contro importazioni per 92,,8. Vi è stato, su base annua, un aumento dell’import del 8,2% e dell’export del 8,1%.  In incremento anche il saldo delle partite correnti a 25,4 miliardi rispetto al 24,9 del novembre 2016. Un risultato importante, dovuto esclusivamente al surplus di bilancia commerciale.

Di fronte a questi grandi successi nella politica commerciale e nell’export la Germania si trova ad affrontare una crescita della povertà perfino a Monaco di Baviera, nel centro di una delle regioni più ricche .

Secondo il quotidiano online TZ.DE  sono 20 mila le persone che ricevono pasti gratis a Monaco tutte le settimane , contro  i 10 mila nel 2001 ed i 12 mila del 2004. L’organizzazione benefica che  da decenni si occupa dell’assistenza alimentare parla di un aumento del 10% nell’ultimo anno.

La Germania è anche il paese dove 2,6 milioni di pensionati percepiscono un’indennità di 116,91 euro al mese, come potete leggere a questo link.

Simone Perotti: «A questo paese servono cittadini comuni che facciano la differenza»

Scritto da: Paolo Ermani
Fonte: http://www.ilcambiamento.it/articoli/simone-perotti-a-questo-paese-servono-cittadini-comuni-che-facciano-la-differenza

Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche del 4 marzo prossimo, vi proponiamo l’analisi di Simone Perotti, scrittore, velista, brillante pensatore ed esperto nell’arte dello… scollocamento. Lucidissimo e chiaro, ci accompagna in una riflessione di cui fare tesoro.

Come valuti il panorama politico italiano in vista delle elezioni del 4 marzo prossimo?  Pensi che possano esserci delle speranze di miglioramento dal giorno dopo per questo paese?

In generale io i miglioramenti per la vita mia e degli altri, dalla politica, non li attendo. Se io avessi fatto tutta la mia parte come uomo, nella mia consapevolezza, nella mia visione, nei miei comportamenti qualitativi verso l’ambiente, gli altri, i più deboli, verso le pratiche anticonsumiste, se avessi messo sul tavolo tutte le mie risorse, tutti i miei talenti, se avessi posto rimedio alle mie tante contraddizioni… allora forse mi permetterei di pretendere qualcosa dalla politica. Ma dato che io sento di non aver mai fatto del tutto la mia parte, non ancora almeno, mi esimo dal mettermi a giudicare. Quelli che strillano di più, con la voce più alta, non per questo sono i più lucidi. Di solito sono quelli che hanno fatto e fanno meno per migliorare se stessi come uomini, donne, e dunque cittadini. Non mi fido di chi urla, in generale. Non mi fido di chi dice sempre voi o noi, ma solo di chi dice io.

Gli italiani sono un popolo che legge pochissimi libri e guarda molto la televisione, secondo te questo influisce anche sul livello politico istituzionale?

Beh, direi proprio di sì. L’ignoranza dilaga nel nostro paese. Lo vedi dalla sintassi fino alle idee. Ma lo vedi soprattutto dall’omologazione e dalla violenza. Qui nessuno percorre strade nuove, per due ragioni: perché una strada nuova, prima di percorrerla, bisogna pensarla, immaginarla, trovarla, studiarla. E poi perché serve coraggio. Essere diversi dalla massa consumista, veterocapitalista, materialista, ignorante, cafona, cialtrona, urlante, banale nelle idee e nei comportamenti, dannosa perché nemica di sé e degli altri, è il risultato dello studio, della cultura, della sensibilità, della misura, della durezza quando serve, ma altrimenti della mansuetudine, della comprensione e della mancanza di bisogni da soddisfare con la rivalsa e con la vendetta. Questa cultura nel suo complesso si sta estinguendo. E questo è molto preoccupante.

Pensi che la politica istituzionale possa dare delle risposte ai problemi reali del paese o ci sono alternative percorribili al di fuori della politica istituzionale?

Un Paese è fatto di regole comuni. Servono, vanno migliorate, soprattutto fatte rispettare. I poteri fondamentali, legislativo, esecutivo, giudiziario, dell’informazione vanno difesi ad oltranza, sempre, senza mezze misure. Sono l’unica vera profonda garanzia del vivere comune. Ogni deroga viene sempre proposta da un nemico della collettività. Per questo, un Paese ha bisogno di politici che lavorino, possibilmente in modo professionale. Mi pare che ne abbiamo pochi. Tra disonestà e mancanza di commitment, direi che siamo davvero mal messi. Motivazione e preparazione dovrebbero essere date per scontate, ma non è così. E tuttavia, deve essere chiaro che le persone comuni non stanno facendo la loro parte. Per nulla. Io, da cittadino, devo ammettere che sono molto più deluso dalle persone che dai loro rappresentanti politici. Alla fine, se si osserva, i politici la loro parte la fanno, su tante, tantissime cose. Certo, si potrebbe fare molto meglio, ma lavorano e producono, la macchina dello Stato va malino ma funziona. E noi? Le persone? Dalla differenziata, all’omologazione dei comportamenti che accettano quotidianamente, dai rapporti sociali a come spendiamo il nostro tempo prezioso, che non tornerà… mi pare che facciamo poco per diventare persone migliori. E senza persone migliori non avremo mai un Paese migliore. Il problema del voto non è chi votare, ma chi vota.

In che modo le persone secondo te potrebbero cambiare in meglio la situazione politica e non?

Diventando responsabili. Assumendo come un fatto fondante della loro vita che la società sono loro. Siamo noi l’Italia, come singoli individui. Siamo noi quando inquiniamo il mare pensando “vabbé tanto per un po’ d’olio del motore, che vuoi che sia”; noi quando compriamo oggetti superflui e dannosi spendendo soldi che sostengono un’economia drogata che intossica le nostre vite; siamo noi quando rubiamo tempo e risorse sul lavoro; noi quando cerchiamo la scorciatoia per fare meno fatica; noi quando non ci evolviamo, non studiamo, restiamo ignoranti; noi che ci facciamo esaltare dalle possibilità mediatiche e diciamo quantità di stupidaggini colossali solo perché c’è un social network che ce lo consente e poi inneggiamo alla libertà espressiva del web, senza ricordarci che il primo censore delle nostre presunte opinioni era e resta la nostra salutare vergogna. Sono molto preoccupato dal pur salutare stimolo all’intervento in politica degli individui. Da un lato ne sono felice, perché questo implica azione e sforzo del pensiero. Da un altro mi preoccupo, perché la gran parte di quell’azione è facile, costa un click su un mouse, e fa l’effetto di una massa che vuole cambiare le cose che, invece, non esiste. Quelle stesse partecipazioni sono sul crinale di diventare assenze, abbandoni, distrazioni se qualcuno non si pone il problema di inchiodare quei gesti a precise responsabilità. Un politico che avesse davvero a cuore la nostra società oggi si preoccuperebbe solo di una cosa: come interrompere il processo di decadenza del pensiero, della cultura, dello studio, della riflessione, così come la deriva a sdoganare gente che fino a ieri avrebbe avuto ritegno a dire la propria, persone che oggi si sentono di poter aprire bocca su ogni tema, con qualunque pretesto. Invocare il presunto pensiero di tutti noi figli del secolo web, sostenere che sia la somma autorità a cui la politica deve riferirsi, dimenticare che la gran parte di questo “popolo” ha per vent’anni eletto e mantenuto al potere Silvio Berlusconi e la sua gomorra morale, e altre accanto a questa, è un suicidio sociale. Se non fosse irriferibile e del tutto scorretto politicamente, oggi bisognerebbe ricordare a quel popolo che prima di avere dei diritti ha dei doveri, verso se stesso, politici ma soprattutto individuali. Io affronterei il problema opposto al voto diretto via web, e cioé il diritto di voto in se stesso. Può chi non è in grado di leggere e comprendere un testo (secondo le ultime ricerche Demopolis sembra che un terzo della popolazione sia in difficoltà a farlo) decidere, votare, contare come tutti, inquinando col suo fraintendimento le decisioni della cosa pubblica? Può chi non conferisce alla propria vita la dignità che deriva dallo studio, dall’evoluzione, dalla responsabilità diretta di fronte alle scelte, avere così tanta voce in capitolo su materie complesse come le grandi scelte etiche che ci attendono, dalle cellule staminali fino al suicidio assistito, passando per l’energia, l’ambiente, la relazione sociale, culturale, politica con il sud del Mediterraneo?

Quali sono i maggiori problemi che andrebbero affrontati in Italia e come provare a risolverli?

Il primo e fondamentale: questo Paese sta deperendo culturalmente, occorre intervenire con priorità massima e senza alcun atteggiamento tecnocratico, ma accademico, in senso etimologico. Poi gli altri: manca una scelta di modello di sviluppo a cui ispirare tutte le decisioni, e data l’urgenza delle condizioni del nostro pianeta e della bolla finanziaria mondiale questa non può che essere indirizzata alla resilienza, alla tutela dell’ambiente, alla riduzione dei consumi, alla pulizia e restauro del territorio, alla salute che deriva dalle modalità alimentari produttive e del consumo; occorre creare posti di lavoro da cinque o sei ore al massimo al giorno, allargando la base del lavoro a tutti con riduzione del tempo di lavoro e redistribuzione del reddito impedendo megastipendi e alzando la soglia minima, ma abolendo una serie di attività e sviluppandone altre; occorre creare sviluppo, attività e lavoro dando il via a un’enorme opera di riconversione energetica dalle fonti inquinanti a quelle rinnovabili, un altrettanto enorme opera di recupero edilizio e riqualificazione dei centri in decadenza, dei paesi, dei borghi, con inversione della tendenza all’inurbamento cittadino a vantaggio dell’urbanizzazione territoriale. Occorre dare il via a una campagna sociale volta al recupero e alla diffusione delle tecniche artigianali, orientando le persone all’autoproduzione, alla riduzione del consumo e della produzione di rifiuti, al cambiamento d’uso, all’autocostruzione. E via così, potrei continuare per un centinaio di pagine…. E non è detto che non lo faccia prima o dopo. Sostanzialmente quindi lavorare meno, suddividendo l’attuale ricettività lavorativa tra tutti, ma soprattutto facendo cose diverse con un obiettivo diverso. Io avevo un ottimo lavoro, una bella carriera. Me ne sono andato, perché quello non generava benessere. Il lavoro può generare benessere, occorre cambiarlo.

Un tema molto forte della campagna elettorale è quello relativo all’immigrazione, tu come affronteresti questo tema anche attraverso la tua esperienza di Mediterranea dove toccate con mano questi aspetti visto che approdate anche in paesi di forte immigrazione?

Di fronte alle cose modificabili occorre sempre agire per cambiarle. I Paesi da cui quella gente fugge con tristezza, paura e nostalgia, sono paesi dove spesso agiscono ingiustizie e dittature che noi ignoriamo, o contribuiamo a sostenere. Occorre prima di tutto lavorare perché, nel rispetto delle storie di quei paesi, si aiuti qualunque territorio del mondo a rispettare i diritti umani, a fare sviluppo sensato, impedendo il traffico delle armi. E’ tempo, come nel ‘600 per la schiavitù e nell’800 per la pirateria, che si metta al bando l’industria delle armi, si promulghi una carta he rende illegale il concetto stesso di arma per offendere. Poi occorre organizzare il salvataggio in mare al meglio e costruire le migliori condizioni di accoglienza per chi soffre, sottraendo all’industria degli schiavi il materiale per lucrare sulle disgrazie. Filtro non vuol dire ingiustizia, e se è possibile immaginare un filtro questo deve essere orientato alla legalità, all’equità, alla collaborazione e alla solidarietà. C’era un tempo, anche recente, che le affermazioni di stampo razzista restavano strozzate nella gola di chi aveva la tentazione di enunciarle. Era un’Italia migliore, in cui la riprovazione ambientale verso alcune cose era palpabile, diffusa. Oggi, grazie a qualche sconsiderato, nessuno ha più ritegno nel dire cose che sono contro la nostra idea di vivere sociale, contro la nostra cultura mediterranea, contro la carta fondamentale dei diritti dell’uomo.

Credi che attraverso internet  si possano attuare dei reali e profondi cambiamenti in positivo?

Qualunque media a cui si attribuisca un valore non meramente strumentale, viene sopravvalutato. Un ignorante off line su internet diventa solo un ignorante on line, solo che invece di un sasso in mano ha un M70. Internet rivela, propaga, moltiplica quel che siamo, non ci rende né migliori né peggiori. La fede nel web come panacea, come garante, è folle. Vivremo una fase di rigetto di questa cultura tecnocratica. Il mondo si spaccherà, il digital divide diventerà social divide, cultural divide, e saranno guai. Non siamo diventati migliori col telefono, e neppure con la radio o la televisione. Se la televisione ci ha migliorati è stato perché in essa si parlava in italiano di fronte a un paese analfabeta, e così abbiamo parlato tutti in pochi decenni la stessa lingua. Su internet si corre il pericolo opposto, da popolo dotato di valori comuni, di comuni punti di riferimento, stiamo diventando massa che non ha più alcun caposaldo del vivere comune, perché sul trono del web possiamo mettere, a scelta, il re che vogliamo, subito pronti a diventarne suddito. Manca la capacità critica, la capacità di decodificare che uno strumento così potente implicherebbe. L’unica cosa positiva è la circolazione dell’informazione e l’accesso alla cultura, ma perché questo fosse del tutto vero, dovremmo controllare le fonti. Serve un organismo (che pure è impossibile immaginare) che garantisca ciò che oggi è in grande misura fuori controllo. Sono molto preoccupato. Le persone non studiano e non leggono, sono portatrici sane di ignoranza e internet serve in grande misura a propagare il virus.

Dato che sei un esperto di comunicazione, secondo te quali sono oggi i migliori e più efficaci mezzi di comunicazione?

Il miglior strumento di comunicazione è e resta da millenni la capacità di pensiero. Il media cambia, l’uomo resta lo stesso. Quando lo strumento si evolve, si rischia solo di fare più danni. Io mi preoccuperei più di cosa veicoliamo di come lo facciamo. La comunicazione via web in mani responsabili diventa uno strumento potentissimo di miglioramento del mondo. Un somaro di fronte a un computer è come una granata senza spoletta lanciata in un mercato. Come sappiamo, però, i somari persuasivi trovano molti più proseliti delle persone intelligenti, perché il somaro furbo e persuasivo dice agli ascoltatori, in cambio del loro fittizio consenso, quello che loro vogliono sentirsi dire, mentre chi ha intelletto e idee dice agli ascoltatori, pena il dissenso, ciò che loro odiano sentirsi sbattere in faccia.

Bus elettrici in Giappone, al via la sperimentazione

Scritto da Francesca Mancuso
Fonte:https://www.greenme.it/muoversi/trasporti/26354-autobus-elettrici-giappone-leaf

Anche i bus diventano 100% elettrici in Giappone, dove dal mese prossimo partirà la sperimentazione dei nuovi veicoli a zero emissioni. La novità è che essi utilizzano la stessa tecnologia della Nissan Leaf, contenendo così i costi.

Si tratta di un progetto della Kumamoto University, pensato con lo scopo di ridurre i costi dei trasporti pubblici ecologici. Governo, mondo accademico e aziende automobilistiche del paese hanno unito le loro forze per ridurre e col tempo eliminare totalmente le emissioni di CO2 e quelle di altri inquinanti prodotte da mezzi pesanti come autobus e camion.

bus nissan 1

A febbraio nella città di Kumamoto prenderà il via il programma di test su strada dei nuovi bus elettrici.

L’autobus, ribattezzato “Yoka ECO Bus”, avrà tre batterie, tre motori elettrici e un inverter identici a quelli installati su Nissan LEAF, il veicolo elettrico più venduto al mondo. In più, Nissan sta sviluppando una trasmissione specifica per il mezzo. L’obiettivo finale del progetto è trasformare completamente il trasporto pubblico giapponese, sfruttando solo autobus eco-sostenibili.

“Il nostro intento è migliorare la qualità dell’ambiente standardizzando la produzione di autobus elettrici grazie al supporto e all’esperienza dei grandi costruttori automobilistici”, ha dichiarato Toshiro Matsuda, professore associato della Kumamoto University e responsabile del progetto. “Vogliamo arrivare a sviluppare autobus elettrici in perfetto equilibrio tra rispetto dell’ambiente e costi di sviluppo contenuti.”

Fino ad ora, uno dei limiti dei veicoli elettrici di grandi dimensioni è il costo dello sviluppo e dei ricambi, come batterie e motori elettrici. Sfruttando la tecnologia già ideata e messa a punto da Nissan per la Leaf, la produzione dei bus elettrici sarà meno costosa e di conseguenza anche più appetibile.

LEGGI anche:

L’elettrificazione dei veicoli è uno degli obiettivi della roadmap strategica Nissan Intelligent Mobility, volta a rivoluzionare i veicoli del futuro, dal modo in cui vengono guidati a quello in cui sono alimentati.

 

La guerra alle Fake News, ultima novità dal Fronte Occidentale

Fonte: http://www.opinione-pubblica.com/la-guerra-alle-fake-news-ultima-novita-dal-fronte-occidentale/

“Niente di nuovo sul fronte occidentale” fu un celebre romanzo scritto nel 1929 da Erich Maria Remarque, in cui si narravano le vicende di un soldato tedesco durante la Prima Guerra Mondiale. Il titolo risultò così indovinato da diventare quasi un modo di dire: quando qualcuno chiedeva ad un altro se ci fossero novità, in caso negativo questi rispondeva proprio “niente di nuovo sul fronte occidentale”.

Stavolta, però, dal fronte occidentale di notizie ne arrivano eccome: l’ultima, nonché la più roboante, è certamente la guerra alle “bufale”, prontamente ribattezzate “fake news” perché, si sa, l’inglese dà più importanza a chi lo usa e così ci si sente anche più internazionali. L’ultima puntata della saga vede come protagonista Mark Zuckerberg, il proprietario e fondatore di Facebook, che ha deciso che nel suo social network, il più usato al mondo, sarà d’ora in poi utilizzato un nuovo algoritmo. In base a questo algoritmo, pensato proprio per combattere le “fake news”, sulle homepage di tutti gli utenti compariranno soprattutto cose scritte dai loro amici anziché dalle pagine a cui si sono iscritti. Saranno soprattutto le pagine di controinformazione, giudicate da Facebook e dal “politically correct” come propaganda, a risultare le più oscurate.

Le attenzioni sono riposte neanche troppo velatamente verso la Russia, accusata di “inquinare” con un suo esercito di hacker l’informazione altrimenti pura e cristallina dell’emisfero occidentale, e di condizionarne così anche le sorti politiche. Infatti, ormai, per i più “propaganda russa” e “fake news” sono diventati proprio dei sinonimi.

Oltre a ciò, un gruppo di 39 saggi o di esperti scelti dall’Unione Europea vaglierà le varie notizie pubblicate e circolanti, per stabilire secondo il proprio insindacabile giudizio quali siano vere e quali no. Per l’Italia abbiamo Gina Nieri, dirigente di Mediaset, Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera, Gianni Riotta, ex direttore del Tg1, ed Oreste Pollicino, docente della Bocconi.

L’orientamento entusiasticamente atlantista ed europeista delle quattro personalità in questione e dei gruppi e degli ambienti di cui fanno parte è fin troppo noto. C’è da attendersi che qualsiasi notizia che non tiri acqua al mulino della NATO, dell’UE o degli Stati Uniti venga semplicemente bollata come “fake news”, anche se veritiera al 100%. Insomma: la propaganda elevata a notizia, addirittura a verità.

La relazione della Commissione Fioroni e le “verità dicibili” della Repubblica

Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1992/La-relazione-della-Commissione-Fioroni-e-le-verita-dicibili-della-Repubblica

Il 7 dicembre del 2017, pochi giorni prima della fine della XVII legislatura della Repubblica, è stata consegnata la terza relazione, conclusiva dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro – cosiddetta “commissione Fioroni”: lavori dei quali siamo stati tra i pochissimi ad occuparci diffusamente su clarissa.it, in occasione della presentazione della seconda relazione, nel dicembre 2016. Il silenzio che sta seguendo anche questa volta la pubblicazione integrale negli atti parlamentari di questo documento (doc. XXIII, n. 29) è sintomo impressionante di quanto la verità sulla nostra storia politica sia stata sistematicamente manipolata dalla nostra classe dirigente e, di conseguenza, non abbia più alcun impatto su di un’Italia sempre più inerte e sfiduciata.
Avevamo a suo tempo già accennato ad alcune delle più rilevanti novità emerse dal lavoro della Commissione e presentate nella precedente relazione: anche in questo caso, vi sono numerosi elementi che meritano studio e riflessione. Basti qui citare il ruolo di un personaggio come Giorgio Conforto, sul quale qualsiasi investigatore di mezza tacca si sarebbe soffermato a lungo. Presentandosi pubblicamente come uomo di sinistra, collabora dal 1933 e almeno fino al 1941 con l’ufficio informazioni segrete del Ministero degli esteri e con Guido Leto, capo della polizia politica; passa nel 1946 a fornire informazioni a James Angleton dell’OSS americano e, di conserva, al ben noto prefetto Federico Umberto D’Amato, responsabile quest’ultimo dell’Ufficio Affari Riservati per l’intera epoca della strategia della tensione, in linea con i meriti acquisiti durante la guerra, meriti che gli hanno meritato la Bronze Star americana. Conforto, la cui figlia ospiterà Morucci e Faranda in clandestinità, è quindi una figura chiave per capire cos’è avvenuto in Italia durante la guerra fredda: la Commissione afferma infatti di “ritenere che il ruolo spionistico di Conforto a favore dell’Urss fosse quanto meno bilanciato da una sua funzione di confidente o fonte delle strutture di polizia italiane” (p. 101), funzione della quale la Commissione ha avuto finalmente conferma incontrovertibile dall’audizione di un alto ufficiale dei nostri servizi segreti. Viene confermata quindi la condizione dell’Italia dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, quella di un terreno libero dove Usa e Urss collaborano quando occorre nella gestione del terrorismo, quando la destabilizzazione serve a garantirne la stabile collocazione nell’area Nato, alla quale l’Italia è stata assegnata dagli accordi di Yalta, e dalla quale non deve uscire.
Non sorprende in questo contesto quanto emerso dal lavoro della Commissione anche sulla questione della reale collocazione della prigione di Aldo Moro, che ora si ipotizza possa aver trovato sede in uno dei condomini di via Massimi 91, a Roma. Vale a dire in un’area (di proprietà di una ben nota banca vaticana) nella quale hanno sede numerose società, istituzioni e personaggi operanti nel mondo in cui si scontrano, interagiscono e trattano i poteri forti che agiscono nel nostro Paese: il mondo atlantico, la Chiesa cattolica, le massonerie, l’allora impero sovietico.
Lo abbiamo detto all’inizio: quello che però più colpisce della relazione è ben altro. Qualcosa che in un popolo desto e consapevole dovrebbe suscitare una forte reazione, poiché qui abbiamo una delle prove più drammatiche di quanto, al riparo dell’articolato sistema dei partiti che manovrano la nostra raffinata democrazia parlamentare, venga negato agli Italiani il diritto basilare di una vera democrazia – la conoscenza della verità sulla condizione dell’Italia.
La Commissione infatti ricostruisce minutamente, con nomi e cognomi, la trattativa condotta da esponenti delle Brigate Rosse in via di dissoluzione con i vertici delle istituzioni italiane, per tramite dei servizi di sicurezza e di canali informativi gestiti dal mondo ecclesiastico. Scopo di questa operazione, scrive testualmente la Commissione era la “stabilizzazione di una «verità parziale» sul caso Moro, funzionale ad una operazione di chiusura della stagione del terrorismo che ne espungesse gli aspetti più controversi, dalle responsabilità di singoli appartenenti a partiti e movimenti, al ruolo di quell’ampio partito armato, ben radicato nell’estremismo politico, di cui le Brigate rosse costituirono una delle espressioni più significative, ma non certo l’unica” (p. 139). Si assiste quindi a ben costruiti e riusciti “tentativi di interloquire col Presidente Cossiga, con parti del mondo politico e col SISDE, sin dal 1984-1985, e di costruire, nelle dichiarazioni a Imposimato, un preciso perimetro politico-giudiziario entro il quale si sarebbe dovuta muovere la ricostruzione della vicenda Moro. Il tutto nel quadro dell’elaborazione della legge sulla dissociazione che avrebbe in qualche modo «canonizzato» una posizione garantita, nella quale Morucci e gli altri dissociati potevano rilasciare, nei modi e tempi da loro ritenuti congrui, elementi testimoniali”.
Per chi abbia conoscenza non superficiale di quanto accaduto nei cosiddetti “anni di piombo”, e più in generale nella stagione della strategia della tensione, queste affermazioni sono di una straordinaria gravità. Esse confermano infatti la responsabilità morale e politica di uomini ai più alti livelli dello Stato italiano (Cossiga e Andreotti per fare solo due nomi apicali), i quali con estrema lucidità gestirono la costruzione di quella “verità dicibile” in parallelo sui due versanti degli opposti estremismi, di cui erano stati tra i più spregiudicati strumentalizzatori. Verso il terrorismo “rosso”, mediante appunto la gestione del memoriale Morucci sul caso Moro; verso quello “nero”, mediante il sapiente dosaggio di informazioni riduttivamente manipolate sul caso Gladio – nel momento in cui ciò si rendeva vitale per due ragioni chiarissime: impedire che emergesse la regia degli apparati Nato nella strategia della stabilizzazione attraverso la destabilizzazione; secondo, confermare il loro ruolo di garanti dell’allineamento italiano nei confronti del sistema internazionale di spartizione del potere mondiale. Quest’azione parallela si conclude infatti in precisa coincidenza temporale, nell’estate del 1990, cioè proprio quando, caduto il muro di Berlino, si rendeva necessario in tutta fretta prepararsi ad un futuro nel quale era ben chiaro il ruolo di unica potenza egemone degli Stati Uniti d’America e degli apparati Nato utilizzati nella stabilizzazione nel suo campo dell’intera Europa occidentale. Era dunque necessario “riaccreditarsi” per il futuro, da una parte, e coprirsi le spalle per il passato, dall’altra.
Per chi segue fin dal principio il lavoro condotto, in sede giudiziaria e ancor più in sede di studio storico, da Vincenzo Vinciguerra in merito appunto alla strategia da lui denominata destabilizzazione per stabilizzare – troviamo qui la più netta conferma di quanto Vinciguerra abbia lavorato per la verità – proprio quando, non solo i mandanti, ma anche tutti gli epigoni dei terrorismi strumentali, rosso e nero, hanno preferito rinchiudersi nell’area protetta delle “verità dicibili”, quella gestita sapientemente dalla regia atlantica.
Se in merito alla propria individuale condotta ognuno è richiamato a questioni di fondo sulle quali è inutile qui spendere parole – sul piano della storia d’Italia, possiamo dire che ci troviamo davanti, con questa relazione della Commissione, alle prove di un tradimento del nostro popolo che ha ben poco da invidiare a quanto avvenuto l’8 settembre del 1943, e che anzi si colloca in piena continuità storica con esso. In entrambi i casi, infatti, i detentori istituzionali del potere dello Stato hanno difeso questo loro potere a scapito della sovranità, dell’indipendenza, dell’identità e della missione dell’Italia contemporanea.
Nessuna sorpresa dunque, se in taluni appunti del giudice Giovanni Falcone pubblicati anch’essi lo scorso dicembre, tra i nomi di coloro che rappresentavano il possibile “quarto livello” della mafia, torna il nome di quel Vito Guarrasi che, presente a Cassibile nel 1943 per firmare quell’armistizio che dell’8 settembre è l’indiscutibile premessa, ha poi operato come uno dei principali uomini del raccordo Stato-Mafia. Nessuna sorpresa dunque se, chiusa perché superata la stagione della strategia della tensione rosso-nera, è stata la mafia a prendersi carico della nuova strategia della tensione, negli stessi mesi in cui i vecchi epigoni del sistema italiano della Guerra Fredda si preoccupavano di delimitare ben chiaramente, a tutela della propria sopravvivenza, il perimetro della verità dicibile.
Impossibile quindi per noi oggi accettare, se si è alla ricerca di verità vere e non solo di quelle “dicibili”, il genuflettersi dei mass-media italiani nella commemorazione dell’anniversario dell’uccisione di Piersanti Mattarella, allorché anche in quel caso una possibile verità è stata da tempo rigorosamente delimitata, in quanto collocata anch’essa nella stessa stagione della destabilizzazione per stabilizzare, quella che pochi mesi dopo avrebbe portato ad uno dei suoi episodi più impressionanti, la strage di decine di innocenti italiani alla stazione ferroviaria di Bologna.
Inevitabili di conseguenza anche gli interrogativi su tutto quanto viene oggi detto ritualmente, per esempio agli studenti delle scuole italiane, sulla lotta alla mafia: se si include infatti in questa informazione ai giovani l’illustrazione della storia dello Stato-Mafia, è necessario in nome della verità risalire ai patti occulti che permisero lo sbarco americano in Sicilia e che consentirono l’armistizio di Cassibile; è necessario fare anche menzione dell’art. 16 del trattato di pace, con la protezione da esso accordato tra gli altri ai mafiosi; nonché la celebre risposta che su questo argomento diede proprio il povero Aldo Moro, il 20 giugno del 1974, ad un’interrogazione dell’on. Carraro, allora presidente dell’Antimafia, risposta quanto mai rivelatrice proprio del compito fondamentale che i vertici dello Stato italiano hanno assegnato a se stessi: perimetrare la verità perché sia dicibile. La stessa verità dicibile che Moro ha dunque pagato con la propria vita, insieme a quella degli uomini della sua scorta: con la differenza che della verità vera questi ultimi erano probabilmente del tutto ignari, e restano dunque tra le sue vittime innocenti.

I vichinghi e la foresta che non voleva crescere

Fonte: http://www.salvaleforeste.it/it/blog/6-news-ita/good-news/4354-islanda,-la-foresta-che-non-voleva-crescere.html

Come trovare l’uscita da una foresta islandese? Basta alzarsi in piedi. E’ la vecchia battuta sulle minuscole foreste del paese, che infatti ricoprono appena il 2 per cento della sua superficie nazionale. Ma non è stemre stato così. Quando i primi vichinghi sbarcarono sull’isola la trovarono coperta di foreste. Secondo un’antica prime saga, “a quel tempo, l’Islanda era coperta di boschi, tra le montagne e la riva”. Ma i vichinghi cominciarono prontamente ad abbattere le foreste per fabbricare navi, e a dissodare il suolo per farne campi e pascoli. “Così hanno eliminato il pilastro dall’ecosistema”, spiega al New York Times Gudmundur Halldorsson, ricercatore del Soil Conservation Service island.

E non basta. I vichinghi hanno anche importato pecore nell’isola, che hanno impedito la ricrescita degli alberi “Il pascolo ovino ha impedito la rigenerazione delle betulle dopo il taglio e l’area boschiva ha continuato a ritirarsi”, spiega il Servizio forestale islandese. In passato la scomparsa delle foreste è stata imputata a una specie di la piccola era glaciale, o alle eruzioni vulcaniche, ma la più recente ricerca ha individuato il vero responsabile: l’uomo.
L’Islanda sta ora tentando di ripristinare le foreste on alberi nativi, per fermare l’erosione del suolo, ridurre le tempeste di sabbia e migliorare l’agricoltura e le riserve di acqua potabile. E’ un centinaio di anni che il paese lavora a ripristinare le proprie foreste, ma la crescita lenta causata dal clima gelato certo non aiuta.
Eppure è più facile salvare le foreste a crescita antica che sostituirle, specialmente in un luogo freddo come l’Islanda. Il paese ha lavorato al rimboschimento per più di 100 anni, piantando milioni di alberi di abete rosso, pino e larice non nativi e anche betulle native. L’Islanda ha aggiunto centinaia di migliaia di piantine all’anno per gran parte del 20 ° secolo, raggiungendo 4 milioni ogni anno negli anni ’90 e fino a 6 milioni all’anno nei primi anni 2000. I finanziamenti forestali sono stati drasticamente ridimensionati dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, ma l’Islanda ha continuato ad aggiungere fino a 3 milioni di nuovi alberi ogni anno negli ultimi anni.

Questo impegno ha contribuito a salvare alcune delle ultime foreste naturali dell’Islanda, e anche a loro aggiunte, ma è un ritorno lento. La copertura forestale dell’isola è probabilmente scesa al di sotto dell’1 per cento nella metà del ventesimo secolo, e ora le foreste di betulle ora coprono l’1,5 per cento dell’Islanda, mentre le foreste coltivate coprono un altro 0,4 per cento. Il paese non ha fretta e unta di arrivare al 12 per cento entro il 2100.

Ad aiutare la Finlandia ci pensa il cambiamento climatico, che ha reso possibile il rimboschimento di vaste aree sui fianchi delle montagne e nella periferia degli altipiani centrali. Peccato che lo stesso fenomeno sta sciogliendo i ghiacciati, e ha aperto le povere foreste native all’assalto di parassiti.

Foreign Affairs: l’Euro è in declino?

Scritto da: Saint Simon
Fonte: http://vocidallestero.it/2018/01/15/foreign-affairs-leuro-e-in-declino/

La moneta unica, in assenza delle istituzioni statuali necessarie, è tenuta in piedi soltanto dalla BCE, diventata nel corso della crisi dell’euro prestatore non ufficiale di ultima istanza. Tuttavia, la legittimità della BCE si fonda sul principio della banca centrale indipendente e più in generale su quella ideologia neoliberale che decenni di bassa inflazione e crescita lenta mettono sempre più in discussione. L’incapacità della UE di darsi istituzioni statuali, combinata con l’ascesa delle istanze dei partiti cosiddetti populisti che implicitamente contestano la legittimità stessa della BCE, mette in serio dubbio la capacità della UE di rispondere alle future crisi e trasforma l’Europa da “assistente” dell’egemonia finanziaria statunitense in “generatore di rischi” per il sistema finanziario globale. Da Foreign Affairs.

di Kathleen R. McNamara, 12 gennaio 2018

Quando l’euro fu creato circa 15 anni fa, c’era l’ipotesi che la nuova valuta avrebbe potuto sfidare il dominio del dollaro USA come valuta internazionale di riserva. Ma il guardiano dell’euro, la Banca Centrale Europea (BCE), aveva poco desiderio per tale ruolo. Allo stesso modo, i mercati valutari hanno mostrato scarso sostegno all’idea di soppiantare l’egemonia del dollaro con l’euro, nonostante il passaggio a obbligazioni denominate in euro e un rafforzamento del valore dell’euro negli anni 2000. Ciò ha significato che l’UE, in gran parte, ha svolto un ruolo di “supporto” all’egemonia finanziaria statunitense, nel periodo postbellico fino ad oggi.

Ma ora, lo status di “assistente” dell’Europa potrebbe essere in discussione. Le forze populiste che sono emerse in tutto il continente mettono alla prova la legittimità dell’euro e minacciano le fondamenta sia istituzionali che ideologiche su cui poggia. Con questa incertezza, sorge la possibilità che l’UE si trasformi in un “generatore di rischio” all’interno dell’ordine finanziario globale o, forse ancora peggio, in un “saccheggiatore” del sistema stesso.

UNO SVILUPPO POLITICO INCOMPLETO

L’autorità sovrana della BCE è fondamentale per la più ampia stabilità del sistema finanziario globale. Ma una delle sue principali debolezze riguarda le particolarità dell’architettura dell’euro: a differenza di ogni altra valuta di successo, a livello europeo c’è solo la BCE, mentre mancano le più ampie istituzioni sociali e politiche necessarie a dare fondamenta stabili e durature alle valute. Sono quattro i ruoli per cui questo ampio assetto dell’autorità politica risulta necessario : funzionare da generatore affidabile di fiducia e liquidità per il mercato; fornire una solida regolamentazione del rischio finanziario; costruire meccanismi di redistribuzione fiscale e aggiustamento economico; creare la solidarietà necessaria ad affrontare tempi difficili. È questa mancanza di un governo più ampio che mette in pericolo l’euro e lo rende un potenziale “predone” del sistema finanziario internazionale, non le sue carenze come valuta ottimale, come hanno sostenuto alcuni economisti come Paul Krugman.

Per quanto riguarda il primo elemento, che serve come supporto visibile e a prova di bomba per rassicurare i mercati finanziari, la zona euro sta facendo relativamente bene. Sebbene in origine fosse stata creata come banca centrale iper-indipendente, dotata di un mandato ristretto per combattere l’inflazione e proteggere il valore dell’euro, la BCE nel corso del tempo si è dimostrata più innovativa nel fornire fiducia e liquidità di quanto immaginassero i suoi creatori quando si incontrarono a Maastricht nei primi anni ’90. In particolare, la BCE, sotto la guida di Mario Draghi, ha emesso centinaia di miliardi di euro in prestiti di emergenza alle banche europee negli anni successivi all’implosione dell’economia greca a seguito della recessione globale del 2008. La politica monetaria rispecchia in qualche misura la decisione del Tesoro statunitense e della Federal Reserve nel 2008 di salvare le banche americane attraverso il Troubled Assets Relief Program [Programma di Aiuto agli Asset in Difficoltà, ndt]. Anche le Long Term Refinancing Operations [operazioni di rifinanziamento a lungo termine, ndt] della BCE, che prestano denaro a tassi di interesse molto bassi agli stati membri in difficoltà, rappresentano un significativo allontanamento dall’immagine della BCE come istituzione che non agisce per sostenere le entità in difficoltà finanziarie. Gli LTRO si sono dimostrati relativamente efficaci nel calmare i mercati e dare agli stati membri indebitati un certo spazio per fare le riforme, anche se le richieste di politica di austerità sono state gravemente dannose.

Queste nuove politiche e questi programmi sono stati accompagnati da una serie di dichiarazioni molto più energiche e apertamente politiche da parte dei dirigenti della BCE. Nell’estate del 2012, i commenti muscolari di Draghi che impegnavano la sua istituzione a fare “tutto il necessario” per salvare l’euro hanno ricevuto molta attenzione in Europa e negli Stati Uniti, ma è stata soltanto una delle molte dichiarazioni che sono venute dalla BCE durante la crisi della zona euro. In termini sia della sua capacità istituzionale che del suo ruolo nel dibattito politico, la BCE ha svolto un ruolo essenziale e inaspettato in quanto prestatore non ufficiale di ultima istanza, riducendo così il ruolo di potenziale “generatore di rischio” dell’UE.

Tuttavia, il secondo fattore, che richiede un’unione bancaria e finanziaria europea, è quello dove l’UE ha mostrato maggiore debolezza. La profonda integrazione finanziaria tra gli stati europei richiede un quadro onnicomprensivo per proteggersi dal contagio di crisi bancarie. Sebbene ci sia stato qualche movimento verso una tale struttura di unione bancaria, essa rimane incompiuta. La Commissione Europea, con il sostegno della BCE, ha avuto successo nell’ottenere un accordo su un meccanismo unico di vigilanza per le banche della zona euro. Questa iniziativa è guidata dalla BCE e fornisce un regolamento unico per tutte le banche. L’Autorità Bancaria Europea, creata nel 2011, è un nuovo importante attore che disciplina gli Stati della zona euro e quelli non appartenenti all’euro come parte del Sistema Europeo di Vigilanza Finanziaria. Questi sviluppi normativi e istituzionali, tuttavia, devono ancora includere elementi cruciali come l’assicurazione comune sui depositi, che proteggerebbe da una corsa catastrofica agli sportelli in tutta l’UE, e le regole di risoluzione bancaria devono ancora essere attuate per far fronte alle future crisi bancarie.

Il terzo elemento – l’unione fiscale ed economica – rimane il più irraggiungibile per l’UE. Anche se alcuni hanno sostenuto che l’UE ha bisogno solo dell’unione bancaria, politicamente più praticabile, l’unione fiscale rimane fondamentale per gestire gli inevitabili alti e bassi di una valuta comune, fornendo meccanismi per la redistribuzione fiscale e l’aggiustamento economico. Un’unione fiscale comporta la capacità di ricavare gettito attraverso le tasse, di redistribuire il denaro attraverso la spesa pubblica e di raccogliere fondi aggiuntivi attraverso strumenti di debito pubblico. L’UE attualmente non ha nessuna di queste funzioni esplicite, sebbene (meno visibilmente) redistribuisca fondi attraverso il suo Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e il Fondo Sociale Europeo. Le proposte degli “eurobond” e di altri modi di mutualizzare il debito nell’eurozona si sono rivelate politicamente provocatorie perché implicano un’integrazione politica molto più profonda di quella che molti in Europa sono disposti ad accettare, mentre in Germania suscitano in alcuni il timore di rimanere invischiati nelle spese dissolute dei loro vicini. Al posto di un’unione fiscale, la dirigenza dell’UE e i capi di stato e di governo hanno aggressivamente cercato di imporre programmi di austerità, che comportano riduzione del deficit e del debito, su società che stanno ancora barcollando per le conseguenze negative della crisi finanziaria. Tali sforzi sembrano molto più simili ai programmi di prestito condizionale ai prestiti di aggiustamento strutturale del FMI che ad un sistema amministrativo integrato che potrebbe tenere insieme un’unione monetaria. Questi programmi di austerità mettono a repentaglio il futuro dell’UE e, quindi, la stabilità nel più ampio ordine finanziario globale.

Infine, all’Unione europea manca anche un’unione politica più ampia, che costituisce il fondamento legittimo di tutte le altre valute. Sebbene negli ultimi 50 anni l’UE sia diventata notevolmente istituzionalizzata, con un quadro giuridico di tipo costituzionale e una serie di politiche e pratiche che incidono profondamente sulla vita quotidiana di tutti gli europei, non ha tutte le strutture amministrative di stampo statale che supportano tutte le altre valute nazionali. A scapito della stabilità europea e globale, semplicemente l’UE non ha creato la solidarietà sociale e le istituzioni politiche legittime per integrare adeguatamente l’euro in un quadro politico più ampio.

Poiché i meccanismi politici per stabilizzare l’economia europea rimangono elusivi, la crisi dei flussi di rifugiati e il reinsediamento dei migranti, la Brexit e l’ascesa di gruppi populisti anti-UE hanno gettato seri dubbi sul più ampio progetto europeo e hanno così trasformato il ruolo dell’Europa, da “assistente” a  “generatore di rischio” nell’ordine finanziario globale.

IL DECLINO DEL NEOLIBERALISMO

Ma le configurazioni istituzionali non sono l’unico fattore importante nel considerare la sicurezza del ruolo dell’UE nell’ordine finanziario globale. Anche le idee sono dispositivi essenziali e inevitabili di legittimazione. In effetti, l’iper-indipendente e politicamente isolata BCE è in parte il risultato della più ampia cultura del neoliberalismo, un insieme di idee che comprende una serie di politiche, come la rigida delega del controllo sull’offerta di denaro ad esperti scollegati dalla democrazia rappresentativa. Il razionale teorico alla base di questa idea è semplice: i politici che inseguono i voti probabilmente cercheranno di manipolare l’economia in modi che rendono felice la popolazione nel breve termine, ignorando la possibilità che le loro politiche monetarie generino problemi economici a lungo termine. L’isolamento delle banche centrali dall’influenza diretta dei funzionari eletti è stato uno dei cambiamenti di governo più importanti a livello globale negli anni ’90. La BCE, istituita nel 1999, ha portato l’indipendenza della banca centrale all’estremo, avendo soltanto deboli canali di rappresentanza e supervisione politica.

L’indipendenza della banca centrale ha raggiunto uno status formidabile nella vita politica contemporanea, con pochi dubbi sulla sua logica o efficacia. Ma le prove a sostegno dell’indipendenza della banca centrale sono sempre state contrastanti, nel migliore dei casi. Questa contraddizione può essere spiegata da ciò che chiamo diffusione di una “narrativa razionale”. I governi come quelli della zona euro scelgono di delegare il potere finanziario per acquisire importanti proprietà legittimanti e simboliche, che sono particolarmente allettanti in tempi di incertezza o difficoltà economiche.

Questa dinamica è razionale e strumentale, ma solo se inserita in un contesto culturale e storico molto specifico che legittima quella delega, la cultura del neoliberismo. Invece, il passaggio a una banca centrale indipendente sembra solo proteggere la politica monetaria dalla politica. Infatti, come ha sostenuto Jacqueline Best in Foreign Affairs, cementa un insieme specifico di ideologie e posizioni partigiane che favoriscono determinati gruppi sociali, in particolare gli investitori, rispetto ad altri, come i lavoratori. La BCE ha beneficiato del forte consenso sulla desiderabilità dell’indipendenza della banca centrale, che è stata parte integrante della svolta neoliberale dagli anni ’90 in poi.

La domanda è questa: dopo diversi decenni di bassa inflazione e crescita lenta, questa legittimazione delle banche centrali indipendenti potrà continuare? Questo è tutt’altro che chiaro, poiché gli effetti disastrosi delle politiche di austerità imposte ai paesi debitori come Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna hanno creato profonde divisioni politiche e hanno alimentato le fiamme della reazione populista contro l’isolata tecnocrazia europea. Mentre partiti euroscettici emergono in tutta l’UE per sfidare il consenso liberale ortodosso che ha governato l’UE, non è chiaro se i fondamenti che legittimano la BCE e l’euro oggi siano ancora validi. Se la giustificazione dell’indipendenza della BCE è messa in discussione, ma la configurazione istituzionale dell’UE non è aggiornata per dare all’euro l’autorità politica di cui ha bisogno, è molto probabile che l’UE avrà moltissime difficoltà.

Proprio come gli osservatori ora temono che gli Stati Uniti siano in una posizione strutturalmente indebolita a causa dell’apparente rifiuto del ruolo di “nazione indispensabile” degli Stati Uniti da parte del presidente Donald Trump, lo sviluppo politico incompleto dell’UE e la reazione contro l’ideologia che legittima la BCE mettono in discussione la capacità dell’Europa di affrontare crisi future. Questi fattori rendono l’UE un “generatore di rischio” come minimo e un potenziale “saccheggiatore” nell’ordine finanziario globale nel peggiore dei casi. Il sistema finanziario globale non può permettersi un simile esito.