Come limitare l’esposizione alle sostanze tossiche in ambito domestico

Fonte http://www.soloecologia.it/
Scritto da: nicoletta

L’aria che respiriamo nelle nostre case possiede un’alta concentrazione di sostanze tossiche che, paradossalmente derivano dai prodotti e dagli oggetti da noi utilizzati per migliorare la qualità della vita. Il continuo aumento delle patologie legate a disturbi del sistema immunitario, allergie e asma sempre più frequenti, i disturbi ormonali e la sindrome da stanchezza cronica che aumentano in maniera esponenziali dovrebbero farci riflettere sulle ripercussioni che i fattori ambientali possono avere sulla nostra salute.

Gli effetti dell’esposizione alle tossine non si manifestano immediatamente e la maggior parte di noi non ha né la conoscenza scientifica né il tempo materiale per verificare il contenuto delle sostanze con cui viene a contatto quotidianamente. Ma tutti possono adottare alcune semplici regole per ridurre l’esposizione alle sostanze tossiche in ambito domestico: è  o importante saper riconoscere le sostanze e gli oggetti più comuni che costituiscono un pericolo per la salute, trovare dei sostituti sicuri, al fine di mitigare il pericolo o evitarlo totalmente.

Queste sono alcune delle sostanze più dannose:

* Composti organici volatili (COV): si trovano nei tappeti e nei mobili imbottiti nuovi, in alcuni tipi di pitture e vernici, nella maggior parte dei pannelli di legno truciolato, nella plastica e negli articoli di elettronica nuovi, in deodoranti, shampoo e cosmetici, negli indumenti lavati a secco, negli antitarme, nei deodoranti per l’ambiente, nei fumi derivati dalla combustione delle stufe a legna e del tabacco. Meglio quindi i mobili di legno massiccio o listellare, e quelli di seconda mano! Tappeti, divani e poltrone nuove dovrebbero essere lasciati in garage per alcuni giorni prima di essere portati in casa. Meglio dipingere le pareti con pitture a basso o zero contenuto di COV e in ogni caso, scegliere i mesi caldi, in modo da arieggiare bene gli ambienti per qualche tempo.

* Muffe e funghi: le micotossine si trovano nelle aree umide con frequenti cambiamenti di temperatura e negli ambienti in cui è attivato il condizionamento dell’aria. E’ importante tenere puliti i filtri degli impianti di riscaldamento, ventilazione e climatizzazione, utilizzare un deumidificatore per mantenere l’umidità relativa sotto il 60% e conservare gli oggetti con un alto contenuto di cellulosa (giornali e cartone) in angoli molto asciutti.

* Ftalati: sono contenuti soprattutto nel PVC (cloruro di polivinile) e nelle fragranze sintetiche. Sono dannosi anche in piccolissime dosi per bambini e donne in gravidanza. Si trovano nelle bottiglie di plastica, nelle pellicole adesive trasparenti, nei contenitori di plastica per la conservazione del cibo, nelle tende per le docce, nei materassini gonfiabili, nei giocattoli, in molti cosmetici e fissatori e in alcuni tipi di tendaggi. Per non correre pericoli, occorre sempre controllare l’etichetta dei giocattoli per neonati per verificare che siano privi di ftalati; evitare di mangiare cibo conservato in contenitori di plastica PVC e non utilizzarli nel forno a microonde. Preferire le tende in tessuti di fibra naturale come cotone, lino, seta, canapa o bambù.

* Diossine: sono composti chimici che si formano nei processi di combustione di legno, carbone o derivati del petrolio e negli inceneritori di rifiuti, nello sbiancamento con cloro di cellulosa e carta. Si accumulano nei grassi animali: latte, latticini, pesce e carni di ogni tipo. Anche se risulta difficile, vale la pena di ridurre almeno in parte il consumo di carne e prodotti lattiero-caseari. Ma soprattutto occorre evitare di bruciare materiali che contengono cloro, come la plastica e il legno trattato con pentaclorofenolo.

* Metalli pesanti (arsenico, mercurio, piombo, alluminio e cadmio). Si trovano nell’acqua potabile, nel pesce, nei vaccini, negli antidiaforetici, nei materiali per l’edilizia, negli amalgami dentali, nelle vernici al piombo. I loro effetti si possono ridurre installando dei filtri per l’acqua, utilizzando sempre acqua fredda per bere, cucinare, preparare tè e caffè e anche evitando di usare vecchie padelle rivestite di Teflon.

* Cloroformio: un liquido incolore, non irritante e dall’odoredolciastro, molto usato per ricavare altre sostanze chimiche e come disinfettante. Si forma per reazione chimica quando il cloro viene aggiunto all’acqua e quando esso viene in contatto con sostanze organiche. Meglio ridurre la temperatura dell’acqua nella doccia o nella vasca, aprire la finestra quando si utilizza l’acqua calda per lavare o pulire e sistemare la lavatrice in un punto ben ventilabile.

* Dei pesticidi contenuti nel cibo abbiamo già parlato.

In ogni stagione, la casa deve essere frequentemente arieggiata, meglio se creando un riscontro tra due finestre opposte. Cinque-dieci minuti di ventilazione naturale anche d’inverno, più volte durante la giornata, faranno in modo che l’aria all’interno della casa non sia peggiore di quella delle nostre città!

Pirateria somala: gli interessi e intrighi che ruotano intorno ai predoni del mare

Scritto da: di  Ferdinando Pelliccia
Fonte http://www.dazebaonews.it/

ROMA – Intorno al fenomeno della pirateria marittima in Somalia ruotano forti interessi e intrighi internazionali. Un mare di dollari si riversa nel mare dei pirati.

Soldi che fanno gola a tanti. Oltre a quelli dei riscatti pagati finora, per riottenere indietro navi e uomini catturati dai pirati somali. Riscatti che sono tra i 100 -150 milioni di dollari almeno nel 2010, si devono aggiungere anche i costi delle spedizioni, aumentati vertiginosamente, e quelli per contrastare il fenomeno. Nonostante il contrasto però,  gli assalti dei pirati somali nell’Oceano Indiano e al largo del Corno D’Africa non cessano anzi, i predoni del mare  hanno affinato le proprie tecniche e ampliato il loro raggio d’azione.

Questo rende, sentendo le tante voci che si elevano, il fenomeno della pirateria marittima è una minaccia per i commerci e il turismo marittimo, e la libera navigazione. Una minaccia resa forte dal fatto che i moderni filibustieri sono dotati di mezzi moderni e hi tech. I nuovi predoni del mare sanno adoperare con maestria internet e i sistemi satellitari di rilevamento e sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno contatti internazionali che poi, gli consentono di riciclare i proventi dei loro arrembaggi. I predoni del mare operano nelle acque della Somalia dove regna il caos ormai da oltre un ventennio e avanza la sua islamizzazione. Gruppi ribelli islamici filo al Qaeda ne controllano gran parte del territorio. Il principale è quello dello al Shabaab. Un gruppo che sembra che tragga anche guadagno dal fenomeno. E’ infatti, emerso in questi giorni che i miliziani di al Shabaab praticano il pizzo sui sequestri delle navi. Un pizzo che arriva fino al 20 per cento del riscatto pagato ai pirati somali per il rilascio della nave e suo equipaggio. Una vera e propria ‘camorra’ che sta prendendo piede da quando i miliziani islamici stanno prendendo il controllo delle città portuali lungo la costa nord-orientale della Somalia dove si trovano alcuni dei covi pirati. Qui infatti, trovano rifugio le varie gang del mare che scorazzano nel mare dei pirati. Queste sono più o meno sette e possono contare su un piccolo esercito di circa 2mila uomini.  Nel corso degli anni questi pirati hanno raccolto larghi consensi popolari. Tanto è vero che intere cittadine portuali sono solidali e collaborano con loro partecipando anche alla gestione dei sequestri e alla ripartizione dei proventi.  Un fatto questo che ha dato vita ad una sorta di moderna Tortuga da cui partono i moderni filibustieri per inoltrarsi, a bordo di barchini spinti da potenti motori, anche per centinaia di miglia all’interno dell’Oceano Indiano a caccia di una preda da abbordare. Un fatto questo, che in pochi anni ha fatto assumere al fenomeno preoccupanti dimensioni. Di recente l’IMB, l’International Maritime Bureau, con sede a Kuaka Lumpur in Malesya, ha reso noto un documento in cui indica che nel 2010 il fenomeno della pirateria ha raggiunto il suo picco assoluto in sette anni, con un totale di 445 tra abbordaggi e attacchi andati a vuoto, lo stesso numero che si era registrato nel 2003. Mentre l’organizzazione Ecoterra International, con sede in Kenya, ha reso noto che sono almeno 49 le navi e 815 i marittimi attualmente in mano ai pirati somali.

Tra le navi e marittimi trattenuti in ostaggio, la petroliera italiana Savina Caylyn e cinque italiani. L’estendersi del pericolo ha indotto diversi Paesi a lanciare l’idea di creare un apposito Tribunale Penale Internazionale, Tpi, come quello già operante all’Aja per i crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio, per condannare gli atti di pirateria marittima. Una proposta però, osteggiata da molti altri Paesi, Somalia in testa. Il perché non è comprensibile in quanto l’istituzione di un tale istituto giuridico aiuterebbe a arrestare, giudicare e condannare i pirati catturati. Pirati che solo nei casi di flagranza di reato sono giudicati e condannati. Il più delle volte infatti, dopo essere stati catturati dai militari dei pattugliatori internazionali, soprattutto per la mancanza di testimoni, sono riportati sulla terraferma e rilasciati. Le regole d’ingaggio a cui sono vincolati i Paesi che partecipano alle varie missioni antipirateria sono molto limitative per loro e anche se i pirati vengono colti con le mani nel sacco non è sempre certa la pena. I pirati somali catturati in genere vengono consegnati alle autorità del Kenya. Con questo Paese africano la comunità internazionale ha siglato un accordo che gli consente di poter processare i filibustieri catturati e se condannati detenerli nelle propria carceri. Ovviamente questo passaggio ha un costo per la comunità internazionale che paga il disturbo al governo di Nairobi.

Però, mentre da un lato si frena su una proposta dall’altro in tanti, moltissimi, spingono per un’altra. Da un po’ di tempo sta prendendo piede un progetto ideato e promosso dai Lloyd’s di Londra. Un progetto che consiste nel creare una flotta navale armata privata da utilizzare per scortare i mercantili e difenderli da eventuali attacchi dei pirati somali. Per la quale sembra si stato scelto anche un nome: ‘Convoy Escort Programme’, ‘Programma di Scorta ai Convogli’. L’obiettivo denunciato è quello di voler appunto difendere il commercio internazionale minacciato dai pirati somali. Il progetto prevede la formazione di una flotta di 18 navi. Si tratterebbe per lo più di navi mercantili convertite in navi da combattimento con un armamento in grado di respingere gli assalti dei pirati somali e su cui sarebbe imbarcata anche una Task force autorizzata ad aprire il fuoco contro gli assalitori. Un progetto che peserebbe economicamente sulla comunità internazionale. Esso dovrebbe avere un costo iniziale di circa 17 milioni di sterline, coperto in parte attingendo a fondi Ue destinati alla lotta alla pirateria marittima. Per la gestione non è stato invece, ancora fatto un calcolo. Il progetto una volta avuto il via libera potrebbe diventare operativo nell’arco di pochi mesi. La flotta navale privata dovrebbe operare sotto la supervisione della Royal Navy, la marina britannica, e l’equipaggio dovrebbe sottostare alle norme internazionali. Appare però, difficile credere quanto possa essere alto il suo contributo alla lotta alla pirateria somala. Soprattutto riuscire la dove poco stanno riuscendo le tre missioni navali militari internazionali operanti nel mare dei pirati.

Si tratta del dispositivo anti pirateria creato dal Pentagono e gestito dalla V Flotta USA, Combined Task Force, Ctf-151, la missione dell’Alleanza Atlantica ‘Ocean Shield’ e la missione ‘Atalanta’ a guida Ue. Oltre alle decine di navi da guerra che operano individualmente. E’ impensabile che la dove hanno finora fallito, almeno in parte, le navi da guerra di ben 15 nazioni,  presenti nel mare dei pirati dal 2008 in veste anti pirateria marittima, possa riuscirci una flottiglia di 18 navi mercantili armate per l’occasione. Nel mare del Corno D’Africa e dell’Oceano Indiano è in corso una sfida quotidiana, a volte impari, tra le potenze navali mondiali e i pirati somali ed ora una ‘Armada privata’ vorrebbe erigersi a risolutrice di tutto. Come se bastassero poche navi e pochi uomini armati per debellare il fenomeno della pirateria somala. I pirati somali sono arrivati persino ad attaccare le stesse navi da guerra figuriamoci dei mercantili ‘imitazione’ di una nave da guerra. Inoltre, finora il lavoro delle decine di pattugliatori navali militari è stato reso arduo in quanto l’area da pattugliare è vasta circa 2,5 milioni di chilometri quadrati. Un’area che nemmeno 500 navi potrebbero sorvegliare appieno. Pertanto, alla fine i ‘nuovi arrivi’ potrebbero solo aggregarsi alla ‘festa’, ma non potrebbero fare nulla di più. Una festa che frutta decine di milioni di dollari l’anno a chi vi partecipa. Un ricavo che viene soprattutto dalle spese che i Paesi che partecipano alle missioni anti pirateria devono sostenere. Il costo per il mantenimento di ogni nave da guerra, varia dai 100mila ai 200mila dollari al giorno. La stima fatta è ripartita tra costi carburante, viveri e manutenzione forniti dai Paesi che si affacciano sul mare dei pirati, Gibuti e Yemen in testa. Sul costo incidono anche le  indennità dovute agli equipaggi militari delle navi. Indennità molto alte e che hanno scatenato una sorta di corsa alla missione. Il computo per difetto del costo della sola missione Ue Atalanta è di circa 2 milioni di euro al giorno pari a 720milioni all’anno. All’Italia una missione di circa tre mesi di un’unità navale della Marina Militare costa circa 9 milioni di euro. Da una prima analisi di questi dati si nota subito che i costi per mantenere le diverse flotte internazionali anti pirateria marittima nel mare dei pirati sono elevatissimi, quasi un miliardo di euro l’anno. Forse a fronte del costo da sostenere, a conti fatti, converrebbe più lasciare lavora i predoni del mare in pace che infastidirli. Però, forse interessi trasversali rendono questa ipotesi inapplicabile.

In Italia però, la notizia di una flotta navale privata anti pirati somali è stata accolta positivamente. Il commento della Confederazione italiana degli Armatori, Confitarma, non si è fatto attendere. “Il progetto ideato dai Lloyd’s di Londra di formare una propria flotta armata per scortare i mercantili e difenderli dagli attacchi dei pirati è un’ulteriore segnale della gravità della situazione e dell’esigenza di trovare al più presto soluzioni per garantire la libertà dei traffici marittimi e la sicurezza delle navi e degli equipaggi.  Pur non avendo sufficienti informazioni su contenuti, termini e modalità del progetto per esprimere un parere, ritengo però che ogni iniziativa in tal senso è vista con favore”, ha affermato Paolo D’Amico, presidente di Confitarma ricordando che: “Quanto invece alle misure per proteggere le navi battenti bandiera tricolore l’armamento italiano da parte sua ha chiesto al Governo, già da parecchi mesi, la possibilità di avere  personale armato sulle navi nazionali, esprimendo il suo favore per il progetto dello Stato Maggiore della Marina che prevede l’imbarco di militari italiani. Ma qualora tale soluzione non potesse essere adottata, gli armatori italiani sono disposti anche a misure che prevedano l’imbarco dei cosiddetti contractor privati”. Quella dei vigilantes privati a bordo dei mercantili italiani è un idea caldamente sostenuta non solo da alcuni armatori, ma anche da politici del Pdl e dallo stesso ministro della Difesa, Ignazio La Russa.  La scorsa settimana parlamentari del partito al governo in Italia hanno presentato una proposta di legge per consentire l’utilizzo di vigilanti privati nelle navi mercantili. Una proposta messa in calendario alla commissione Affari Costituzionali della Camera. Un’ipotesi questa, ritenuta da molti da bocciare, Sindacato dei Marittimi, SDM, in testa. Per molti è ritenuta controproducente oltre che pericolosa.

Questo perché oltre a mettere in pericolo l’incolumità dell’equipaggio, il tenere uomini armati a bordo delle navi mercantili comporterebbe di certo problemi di scalo nei porti commerciali di alcuni Paesi nel mondo in cui  le armi sono proibite. Inoltre, qualcuno aveva anche fatto presente che la presenza di armi a bordo delle navi mercantili quanto potesse fungere da incentivo per i predoni del mare e spingerli ad attaccare la nave per impadronirsene. Per quanto riguarda il nuovo progetto avanzato dai Lloyd’s di Londra è facile, alla luce delle esperienze passate, che privati operando in una terra di nessuno anzi in un mare di nessuno, com’è il mare dei pirati, questi potrebbero sentirsi legittimati ad agire secondo il proprio arbitrio. E le conseguenze sono facilmente immaginabili. Su come difendersi dagli assalti dei pirati somali se ne parla da anni. Il fenomeno è vecchio di almeno sei anni, ma mai, come negli ultimi tre, ha fatto sentire tutto il suo peso. Sulla questione si è aperto, a livello internazionale, un forte dibattito. L’attenzione in Italia sul fenomeno della pirateria marittima nel mare del Corno D’Africa è temporizzata. Sembra quasi che in Italia parlare di pirateria marittima sia quasi vietato o per lo meno sembra non interessare l’opinione pubblica nazionale.  L’interesse si è però riacceso dopo che l’8 febbraio scorso una petroliera italiana, la  ‘Savina Caylin’ è stata sequestrata dai pirati somali. Per molti è chiaro che come avvenne per il sequestro del Buccaneer, anche stavolta con ‘Savina Caylin’ l’andazzo sarà lo stesso e alla fine l’Italia pagherà il riscatto per ottenere il rilascio di uomini e nave.

I segreti nucleari del Giappone

Scritto da: Gabriele Battaglia
Fonte: http://it.peacereporter.net

Nuove prove di accordi occulti con gli Usa in contraddizione con i principi pacifisti di Eisaku Sato

Nel dicembre del 1967, il Primo ministro nipponico Eisaku Sato proclama i tre principi anti nucleari: il Giappone – devastato nei corpi e nelle coscienze dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki – sceglie di “non possedere, non costruire e non introdurre” nel proprio territorio nessuna arma nucleare. Per questa politica pacifista, a Sato viene assegnato il premio Nobel per la pace nel 1974.
Oggi si scopre che un patto segreto tra Sol Levante e Stati Uniti ha reso il divieto al nucleare un po’ meno vincolante.
In realtà da tempo si sapeva che il Giappone non è mai stato del tutto denuclearizzato. Un diplomatico giapponese, Kei Wakaizumi, aveva già inserito nel suo libro di memorie del 1994 la minuta di un vero e proprio patto segreto tra Nixon e Sato firmato il 21 novembre 1969, che prevedeva il ricorso al nucleare in determinate circostanze. Poi, a ottobre del 2009, gli archivi della sicurezza nazionale di Washington hanno pubblicato documenti top-secret in linea con la versione di Wakaizumi. Tutti i governi giapponesi avevano fino allora negato la presenza di patti segreti sul nucleare.
Oggi la conferma arriva proprio da Tokyo, dove il governo del Partito democratico ha appena declassificato alcuni documenti del 1967 (lo stesso anno dei tre principi), nei quali appare chiaro che, in cambio della restituzione di Okinawa e delle isole Ogasawara al Sol Levante, gli Usa pretesero “in caso di imprevisto” di reintrodurre armi nucleari nel territorio giapponese.
Questo sta a significare sia la presenza di tali armi nelle basi statunitensi sulla terraferma, sia il loro passaggio via nave nelle acque territoriali (e l’eventuale scalo nei porti militari giapponesi).
È accertata la presenza di armi nucleari a Ogasawara tra il 1956 e il 1965, quando la catena di isole era controllata direttamente dagli Usa. Prima del suo ritorno in mani giapponesi (1968) e in linea con i tre principi di Sato, gli ordigni furono rimossi. Giappone e Stati Uniti si accordarono però su una formula che prevedeva la loro reintroduzione “previa consultazione”.
Secondo il Mainichi Shimbun, Washington avrebbe inteso questo patto segreto come un “via libera”, a propria totale discrezione e con la tacita approvazione di Tokyo.

Alcuni osservatori di sponda nipponica ritengono che il patto segreto sia poi stato esteso automaticamente a Okinawa, che tornò al Giappone nel 1972.
La notizia è destinata a riacutizzare le polemiche connesse al trasferimento della base statunitense di Futenma, che i cittadini di Okinawa e il governo locale vorrebbero allontanare dalla prefettura, mentre Washington, con l’appoggio un po’ imbarazzato di Tokyo, intende spostare a Henoko, sempre sull’isola.
Il punto è che quando gli Usa restituirono Okinawa, ottennero di conservare le proprie basi proprio in cambio dell’adesione ai principi di Sato: nessuna presenza nucleare a Okinawa.
Ora, la scoperta di un inganno lungo oltre quarant’anni potrebbe acuire le proteste sull’isola e l’imbarazzo del governo centrale.
La questione nucleare investe anche la recente revisione del programma di difesa nazionale, battezzato “dynamic defense capability” e adottato a dicembre 2010. Nella bozza del luglio precedente, si raccomandava infatti di riconsiderare almeno uno dei principi anti nucleari: per la precisione, il divieto all’introduzione in Giappone, anche in caso di emergenza militare, di armi nucleari statunitensi. Di fatto, l’abbandono di tale principio avrebbe sancito anche pubblicamente quanto già stabilito dagli accordi segreti. La versione finale del programma di difesa ha invece cancellato ogni riferimento al nucleare. Per ora.

Gaza, catastrofe umanitaria

Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo
Scritto Da:Vittorio Arrigoni

Rafah chiusa per i moti egiziani, la Striscia bombardata e privata di un magazzino medico chiave. Situazione sempre più grave

Sotto l’effetto dell’ipnosi collettiva dell’intifada egiziana che al-Jazeera instancabilmente proietta da giorni in tutti i caffè della Striscia assediata, ho sognato ad occhi aperti sei milioni di arabi nella Palestina storica, marciare all’unisono compatti e pacifici verso una Gerusalemme liberata, per riprendersi i diritti umani violati da un Mubarak che parla ebraico.

Mentre condivido questa visione con alcuni amici, Hussein giochicchia a lungo con l’accendino fra le dita prima di accendersi la paglia fra le labbra, come a farla durare di più: dopo due settimane di blocco del mercato nero dei tunnel se i distributori di benzina sono a secco, il prezzo delle sigarette è già lievitato di un quarto.
 
“Hai visto che strage di vittime ha mietuto Mubarak? E pensa che ha dovuto limitarsi perché è la sua gente. Israele stenderebbe migliaia palestinesi in un solo giorno, se solo innescassimo una rivolta del genere”. Hussein così razionalizza il mio auspicio di una rivoluzione palestinese sull’onda di quella non ancora doma in Egitto. Mahmoud, studente universitario come Hussein, incalzato da me, continua: “Già ci sono ribellioni non violente contro i nostri dittatori, a Nil’in e Bil’in, e anche qui a Gaza. E ogni volta finisco stroncate nel sangue con assoluta nonchalance. Con la scusa della lotta al terrorismo, del diritto alla difesa, guarda in che macerie hanno ridotto Gaza, e ancora ci strangolano.”

Jamal è il più maturo seduto al nostro tavolo in un caffè del centro e condivide la tesi dei compagni di studio: “Netanyahu, a differenza di Mubarak,  è riuscito a vendere a buona parte delle cancellerie internazionali  e a rendere ineludibile ai grossi media la nostra oppressione, l’occupazione della Palestina e la pulizia etnica, come un male necessario per la sicurezza dello Stato d’Israele. Obama che adesso chiede le dimissioni di Mubarak, non muoverebbe un dito dinnanzi allo sfociare di fiumi di sangue innocente palestinese, puoi scommetterci”.
Quando in tv trasmettono il discorso dell’attivista Wael Ghoneim in piazza Tahrir ribattezzata piazza Liberazione, contagiato dall’entusiasmo contesto il pessimismo dei tre amici palestinesi, ma da li a poche ore saranno degli spaventosi boati sopra la città a confermare la loro tesi a scapito della mia ingenuità.
 
Qualche minuto dopo  la mezzanotte di martedì cacciabombardieri F16 israeliani hanno colpito tre aeree della Striscia: i tunnel di Rafah al confine dell’Egitto, un campo d’addestramento delle Brigate al Quds, braccio armato della Jihad Islamica,  a Khan Younis, causando due feriti,  e il quartiere Tuffah, nel Nord della Striscia, alle porte del campo profughi di Jabalia, esplosione che a causato il ferimento di dieci civili, fra i quali due donne e un bambino.
 
Nel bombardamento di Tuffah, è rimasta seriamente danneggiata una fabbrica tessile, una scuola e soprattutto è stato ridotto in cenere un magazzino di medicinali del ministero della Sanità.
Il magazzino, costruito su di una superficie di settecento metri quadrati, conteneva grandi quantitativi di medicinali e forniture mediche, molte della quali sopraggiunte all’interno della striscia di Gaza grazie alle donazioni delle delegazioni internazionali come Viva Palestina e Road to Hope.
 
Munir al-Barsh, direttore generale del dipartimento di farmacologia presso il ministero il ministero della Sanità ha spiegato come la distruzione del magazzino è destinata ad aggravare di molto il deficit del sistema sanitario della Striscia, già provato dalla carenza di 183 varietà di medicinali e 190 articoli di forniture mediche.
I pompieri hanno cercato invano di domare le fiamme fino a tarda mattinata.
La scuola adiacente al magazzino incenerito, frequentata da 625 studenti, ha dovuto chiudere per i danni subiti all’edificio.
 
Nonostante le continue denunce delle organizzazioni per i diritti umani Israele continua impunemente a violare il diritto internazionale in chiave di punizione collettive ad una popolazione civile, e con l’assedio imposto su Gaza a  negare il diritto alla sanita’ sancito dell’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra.
 
In comunicato del Ministero della Sanita’ si legge: “I pazienti continuano a morire per via dell’assedio: Hasan Hussein Bris, 52 anni, è l’ultimo malato di cancro deceduto perché Israele gli ha impedito ingiustificatamente di lasciare la Striscia per andare a curarsi in ospedali piu attrezzati.”
Il malato curabile n. 379, deceduto perché incurabile nell’assedio criminale che chiude come in una bara la Striscia di Gaza.
 
La comunità internazionale che i primi giorni ha balbettato e ora si mobilita dinnanzi agli efferati crimini compiuti dalla polizia di Mubarak, appare sempre impegnata in una sorta di congiura del silenzio quando si tratta di marcare i crimini di guerra e contro l’umanità’ dell’esercito israeliano.
 
Ora che per via della rivoluzione in corso in Egitto il valico di Rafah e’sigillato indefinitamente (ogni mese circa cinquecento pazienti palestinesi uscivano per farsi ricoverare negli ospedali egiziani)  e che una scorta vitale di medicinali è stata distrutta dalle bombe, una catastrofe sanitaria nella Striscia e’ prevedibile.
 
Lunedì il migliore amico israeliano di Roberto Saviano, il presidente Shimon Peres, si e’ complimentato pubblicamente con il comandante in capo dell’esercito Gabi Ashkenazi.
Peres ha definito Ahsknazi, responsabile del massacro di Gaza “Piombo Fuso“, dell’assalto alla Freedom Flotilla e di innumerevoli altri crimini di guerra come il bombardamento di martedì notte: “Il migliore Capo di Stato Maggiore della storia d’Israele.” Il premio Nobel per la Pace assegnato al presidente israeliano non è Gomorra, è Sodoma. Restiamo Umani.

MASSACRO IN LIBIA, IL SANGUE SCORRE A FIUMI PER LE STRADE. E’ LA FINE DEL MONDO. NON CI SONO NOTIZIE DEL NOSTRO INVIATO. AGGIORNAMENTI DEL COMAI

Scritto da: Mina Cappussi e Michel Upmann
Fontehttp://www.unmondoditaliani.com  

La situazione è tragica, in pericolo il nostro inviato speciale e gli altri pochi giornalisti e reporter coraggiosi rimasti assediati
, oltre agli italiani, un migliaio, che ancora non sono riusciti a partire. L’aeroporto di Bengasi è distrutto, le piste divelte, ci sono oltre 6000 persone (seimila) stranieri che vorrebbero andar via, ma temo per loro… Sono le ultime parole di Michel. Poi il silenzio. Non riusciamo più a metterci in contatto con lui. Il leader libico Muammar Gheddafi è comparso in tv minacciando una repressione ben peggiore, soprattutto minacciando Usa e Italia, quell’Italia dove solo poche settimane fa è stato accolto con tutti gli onori e con tutte le strampalate velleità di un esaltato. Gli aggiornamenti del presidente del Comai, Foad Aodi.

Un vero e proprio massacro, quello in corso in Libia, del quale UN MONDO D’ITALIANI ha pubblicato le foto raccapriccianti che hanno fatto il giro del mondo. Alle 21.49 di ieri il nostro inviato a Tripoli, il giornalista di guerra Michel Upmann, ci comunicava che “i Carabinieri del Tuscania hanno or ora raggiunto l’Ambasciata Italiana di Tripoli in Libia per difendere i nostri Diplomatici e tutti gli italiani rifugiati all’interno”. Michel ci parla di centinaia e centinaia di morti, di sangue che corre a fiumi per le strade e altri testimoni confermato il numero di 1000 morti nella furia che il regime del colonnello Gheddafi ha scatenato contro la rivolta, bombardando i manifestanti a Tripoli, dopo aver scaricato i caricatori di pistole e fucili, ad altezza uomo e dalle sommità dei palazzi. Si spara a vista, la situazione è tragica, in pericolo il nostro inviato specialee gli altri pochi giornalisti e reporter coraggiosi rimasti assediati, oltre agli italiani, un migliaio, che ancora non sono riusciti a partire.

“Sono 189 – continua Michel – gli italiani rimasti isolati a sud della Libia, l’aeroporto di Bengasi è distrutto, le piste divelte, ci sono oltre 6000 persone (seimila) stranieri che vorrebbero andar via, ma temo per loro”. Sono le ultime parole di Michel. Poi il silenzio. Non riusciamo più a metterci in contatto con lui. Sappiamo che nell’ottavo giorno della protesta, il leader libico Muammar Gheddafi è comparso in tv minacciando una repressione ben peggiore, soprattutto minacciando Usa e Italia, quell’Italia dove solo poche settimane fa è stato accolto con tutti gli onori e con tutte le strampalate velleità di un esaltato.

E’ carneficina anche nell’est del Paese, dove la protesta era cominciata, e dove a oggi intere zone sarebbero passate sotto il controllo dei rivoltosi. Ma anche qui le vittime si contano a centinaia: oltre 400 in uno solo degli ospedali di Bengasi, dove si lavora senza sosta e al limite delle possibilità umane perché mancano medicinali e personale, nella corsa contro il tempo per soccorrere i feriti, che arrivano a decine. Come dimostrano le immagini pubblicate in esclusiva, i morti sono appoggiati a terra, alle pareti, ovunque: c’è chi esala l’ultimo respiro senza che i medici abbiamo potuto nemmeno vederlo. Il regime, attraverso una comunicazione “ufficiale” diffusa da uno dei figli del Colonnello, Saif Al Islam, ammette 300 morti (242 civili, di cui oltre cento a Bengasi, e 58 militari).

La repressione cieca, squilibrata, assurda, inammissibile, è stata confermata dall’intervento del leader libico sulla Tv di Stato. Il discorso delirante, intriso di retorica rivoluzionaria: «Non sono un presidente, sono un leader, un rivoluzionario e resisterò sino alla morte. Morirò da martire».

Si vocifera, e Michel Upmann conferma, di ordini di azioni di guerra e di devastanti distruzioni ecologiche. Gheddafi aveva dato l’ordine di cannoneggiare Bengasi da due navi, che però hanno disertato, rifugiandosi a Malta. La rivista americana Time ha appreso dell’intenzione di Gheddafi di sabotare pozzi di petrolio e oleodotti diretti verso il Mediterraneo. Il presidente della Comunità del Mondo Arabo in Italia (Comai), Foad Aodi, che è in costante contatto, da Roma, con alcuni testimoni in Libia, ha parlato di «oltre 1000 morti a Tripoli».

Proseguono con difficoltà, tra ordini e contrordini, i rimpatri da delle migliaia di stranieri che vivono e lavorano in Libia: sono circa 400 gli italiani già rientrati in Italia sui 1500 residenti nel Paese. Non è più sotto il controllo di Gheddafi tutto l’est della Libia, dopo la rivolta scoppiata nel capoluogo della Cirenaica, Bengasi, e dilagata poi in tutto il Paese. I residenti di Tobruk – la città più a est e l’ultima prima del confine con l’Egitto – hanno riferito che la città è da tre giorni controllata dalla popolazione. Il bagno di sangue, però, non si è fermato nemmeno a Bengasi, da dove ieri Al Jazeera ha mostrato ancora immagini di cadaveri carbonizzati e resti di corpi umani. Da New York, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una dichiarazione in cui si «condannano le violenze» degli ultimi giorni in Libia e si «deplora la repressione» avviata dal governo di Gheddafi. Michel Upmann ha trovato un rifugio segreto temporaneo, dal quale ci fa arrivare le notizie, complici alcuni poliziotti che, dietro pagamento, gli consentono di inviare foto, messaggi. Ma da qualche ora le comunicazioni sono interrotte…Di Michel Upman ha parlato anche la Tv svizzera.

Berlino: vince il referendum contro la privatizzazione dell’acqua

Scritto da: Alessandro Alviani
Fonte: La Stampa

Berlino dice “nein” all’acqua privatizzata
Nella capitale bollette aumentate del 35% in dieci anni
Passa il referendum che chiede il ritorno al control lo pubblico

Berlino si prepara a far ritorno all’acqua pubblica. Un referendum che punta in ultima istanza ad annullare la privatizzazione parziale della società di gestione dei servizi idrici si è concluso ieri con un trionfo dei sì: ne servivano almeno 616.571, ne sono arrivati 665.713. Un risultato che ha sorpreso gli stessi promotori. In serata, nel tendone da circo a due passi dal vecchio tracciato del Muro che hanno affittato per seguire i risultati, si contavano più giornalisti che sostenitori del referendum.

“Ci speravo, ma non me l’aspettavo più vista la scarsa affluenza in mattinata- racconta Andreas Fuchs, il cassiere del comitato referendario- è la prova che si può fare molto anche con pochi mezzi” ricordando che che il comitato disponeva di appena 12 mila euro ottenuti dalle donazioni. A titolo di paragone: gli organizzatori del referendum sulla religione a scuola, fallito due anni fà, avevano raccolto centinaia di migliaia di euro. “Un bene essenziale come l’acqua non può essere fonte di profitto, vogliamo che torni in mano pubblica-gioisce il portavoce del Comitato Thomas Rodek. “E’ un segnale anche per voi in Italia” aggiunge la sua collega Dorothea Harlin.

Il referendum chiedeva di pubblicare integralmente il contratto con cui nel 1999 il Land di Berlino vendette alle società RWE e Veolia il 49,9% dell’azienda dei servizi idrici comunali (Berliner Wasserbetriebe). Stando a Rudek, dal 2001 le tariffe dell’acqua sono salite del 35% e oggi sono tra le più ate in Germania. A Berlino un metro cubo d’acqua costa 5,12 euro, a Colonia 3,26. Su pressione dei promotori, il comune ha pubblicato a Novembre circa 700 pagine del contratto di privatizzazione parziale: da esse emerge che la città ha garantito alti margini di guadagno a RWE e Veolia. Non solo, ma dal 1999 al 2009 RWE e Veolia hanno incassato più utili di Berlino (1,3 miliardi contro 696 milioni), e questo sebbene la città-stato detenga il 50,1% della Berliner Wasserbetriebe.

Secondo indiscrezioni stampa, nel 1999 vennero firmate altre 5 intese i cui contenuti sono ancora oggi segreti. Ora ikl parlamento del Land dovrà votare una legge sulla pubblicizzazione integrale del contratto di privatizzazione. In caso di rifiuto il comitato referendario è pronto a fare ricorso. Il suo obiettivo ultimo resta però quello di riportare interamente la Berliner Wasserbetriebe nelle mani pubbliche. Evitando al tempo stesso di replicare quanto successo nella vicina Potsdam, dove la società di gestione dei servizi idrici è stata rimunicipalizzata dieci anni fà ma i prezzi sono aumentati e oggi un metro cubo d’acqua costa più che a Berlino: 5,82 euro.

Sabato il governo cittadino aveva dichiarato inutile la consultazione. Ieri sera il Sindaco Klaus Wowereit a provato a contenere i danni. L’esito conferma la nostra politica, ha spiegato. Berlino è infatti in trattative con RWE per riacquistarela sua quota nella Berliner Wasserbetriebe.

Perchè la musica ci rende felici

Fonte: http://www.ditadifulmine.com/2011/02/perche-la-musica-ci-rende-felici.html

Che si sia musicisti o semplici ascoltatori, la musica ha la straordinaria capacità di modificare il nostro stato d’animo. Anche se il semplice ascolto non modifica profondamente la struttura del nostro cervello, la musica è comunque in grado di provocare importanti cambiamenti chimici nell’organismo.
E’ stato recentemente scoperto che gli amanti della musica si sentono coinvolti dall’ascolto del loro brano preferito sulla base degli stessi meccanismi che li portano ad amare il sesso, le droghe, il gioco d’azzardo e il cibo. Quando si ascolta della musica, il nostro cervello rilascia dopamina, una sostanza chimica coinvolta in diverse dinamiche cerebrali che riguardano il piacere e l’appagamento.

“Il rafforzamento e l’appagamento si verificano principalmente per via della dopamina. Questo spiega perchè la musica è al mondo da così tanto tempo. L’intenso piacere che abbiamo dalla musica è un rafforzamento biologico del cervello, e ora ne abbiamo la prova” dice Valorie Salimpoor, neuroscienziata della McGill University

Sfido chiunque di voi a dire di non aver mai sperimentato un’intensa senzazione di coinvolgimento durante l’ascolto della vostra musica preferita. Questo meccanismo è ciò che ci costringe a continuare ad ascoltare un brano, che ci lega emotivamente ad esso.
Molti di noi avranno “sentito i brividi” ascoltando un pezzo di Vasco, dei Led Zeppelin, di Chopin, ed è proprio questo l’aspetto a cui la Salimpoor era più interessata.

In studi precedenti, la Salimpoor ha collegato il piacere indotto dalla musica con un intenso stimolo emotivo che si riflette sul fisico con cambiamenti nel ritmo cardiaco, nell’intensità del battito, nel ritmo del respiro. Tra tutti questi cambiamenti fisici, spesso venivano riportate sensazioni come brividi, apparentemente legati al flusso sanguigno in regioni del cervello coinvolte nel rilascio di dopamina.

Per confermare in collegamento con la dopamina, i ricercatori hanno ingaggiato otto amanti della musica per ascoltare alcuni brani che dessero loro la sensazione di brividi. Alcuni hanno scelto la musica classica, altri il jazz, altri ancora musica rock o popolare.

Dopo 15 minuti di ascolto, i ricercatori hanno iniettato nei volontari una sostanza radioattiva in grado di legarsi ai recettori della dopamina, e hanno eseguito una scansione PET per vedere se la dopamina fosse in circolo nel sangue.
Il risultato è stato che il cervello è in grado di rilasciare grandi quantità di dopamina durante l’ascolto della musica che si ama.

I volontari sono anche esposti ad una scansione fMRI durante l’ascolto di musica, mostrando che il cervello immette dopamina nell’organismo sia prima della sensazione di brividi (quando ci si aspetta, ad esempio, un frammento di brano musicale particolarmente avvincente), sia nel momento in cui i brividi raggiungono la massima intensità.

“E’ fantastico che siamo in grado di rilasciare dopamina in anticipazione di qualcosa di astratto, complesso e non concreto” spiega Salimpoor. “Questa è la prima ricerca che mostra che la dopamina può essere rilasciata in risposta ad uno stimolo estetico”.

La scoperta suggerirebbe che la musica, come la droga e il sesso, possa dare dipendenza. La dopamina è una molecola legata al senso di appagamento. L’appagamento può essere legato al cibo, ad una particolare miscela chimica immessa nel corpo, al gioco d’azzardo o al sesso.
“La musica diventerà uno strumento utile per spiegare ogni tipo di aspetto legato al piacere, alla dipendenza e ai comportamenti disadattivi” dice David Huron, ricercatore della Ohio State University. “Ciò che hanno fatto è un tour de force tecnico. Credo sia davvero una ricerca straordinaria”.

Nuovo Ordine Egiziano

Fonte: http://freeskies.over-blog.com/

Che senso ha dimostrare a rischio della propria vita nelle piazze quando il risultato è la sospensione dei principi costituzionali e l’instaurazione della legge marziale? Perché la stampa di regime, senza eccezioni, ha salutato con slancio la ‘presa di coscienza’ dei cittadini egiziani quando è evidente l’opposto: un oscuramento della ragione verso una concitazione motoria che ha portato solo danni economici ingentissimi al paese in prospettiva di futuro assai incerta? Perché la stampa di regime sottolinea, con chiare doti di preveggenza, il carattere temporaneo della dittatura militare egiziana? Cosa devono dirci ed a quale fine? Questo blando cambio al vertice in Egitto (Mubarack infatti era un generale dell’esercito e ci domandiamo quindi cosa sia cambiato nella sostanza) come si inscrive nella strategia verso il nuovo ordine mondiale? Rimane il fatto tragico di una popolazione ignara spinta con astuzia alla sommossa e caduta in un incubo fatto di carrarmati nelle piazze e leggi speciali. Un esempio negativo da tenere bene a mente. E’ evidente che non si possa cambiare un paese sostituendo una persona al potere con un’altra, anche perché, spesso, la persona visibilmente responsabile di un governo non è poi quella che detiene realmente il potere che va cercato quindi ed evidentemente altrove.

Ecuador, sentenza storica contro Chevron

Scritto da: Stella Spinelli
Fonte:

e i suoi abitanti vittime dell’inquinamento sfrenato prodotto dalla multinazionale del petrolio saranno risarciti a suon di milioni

La giustizia ecuadoriana ha condannato lunedì la Chevron a pagare una multa milionaria per i danni ambientali provocati all’Amazzonia ecuadoriana durante tredici anni di trivellazioni a opera della Texaco, compagnia che la multinazionale Usa ha acquisito nel 2001. Una sentenza storica, che ripagherà di anni di sofferenze e malattie, lotte e speranze le tante famiglie colpite da questo disastro. Scarti di petrolio mischiati a velenosi agenti chimici lasciati in pozzi a cielo aperto sono filtrati nel terreno, impregnandolo, distruggendo coltivazioni e contaminando la vita di tanta gente. Che si è ammalata ed è morta per le conseguenze riportate.

Il giudice che ha emesso la sentenza, Nicolás Zambrano, ha dichiarato che la compagnia petrolifera dovrà versare 8.646 milioni di dollari per danni ecologici, più un dieci percento per i danni provocati alle comunità colpite. Una cifra che il battagliero avvocato Pablo Fajardo, l’uomo cresciuto con i piedi nelle pozze nere di Sucumbíos, laureatosi in legge solo per farla pagare alla Texaco e grazie al supporto morale ed economico della comunità vittima della multinazionale, ha definito “irrisoria, ma significativa“, visto che la difesa aveva richiesto ben 27 miliardi di dollari. “Abbiamo combattuto giuridicamente per ottenere che l’impresa Chevron, prima Texaco, risponda del suo crimine e paghi per riparare il danno ambientale provocato. È chiaro che si tratta di una somma insignificante rispetto al reale crimine commesso, un crimine ambientale sì, ma anche culturale e umano. Resta comunque il fatto che siamo di fronte a un vero passo avanti verso il trionfo della giustizia”.

Non china però il capo la Chevron, per la quale “la sentenza della corte ecuadoriana è illegittima e inapplicabile – scrive in un comunicato -. È il prodotto di una frode e totalmente contraria a quello che dimostrano le prove scientifiche e legittime. Chevron ricorrerà in appello e spera che prevalga la giustizia. Sia le corti Usa che i tribunali internazionali hanno già preso le dovute misure per prevenire l’applicazione della sentenza emessa dalla corte ecuadoriana. Chevron è convinta che in qualsiasi Stato di diritto questa sentenza sia inapplicabile”.
Una sentenza che arriva, infatti, tre giorni dopo che una sezione della Corte permanente di arbitraggio dell’Aja ha proibito temporaneamente l’applicazione di ogni sentenza emessa contro la compagnia Usa. Questo perché nel settembre 2009, la multinazionale dell’oro nero ha presentato domanda di arbitraggio in base al Trattato bilaterale che lega gli Usa all’Ecuador. Accordo firmato negli anni Novanta e che liberavano la Texaco da ogni obbligo futuro se solo avesse quantomeno ricoperto un terzo delle piscine costruite per contenere gli scarti dello sfruttamento petrolifero. Ma la difesa della Chevron punta anche su altro, visto che incolpa un’altra compagnia, la statale Petroecuador, delle 260 pozze sparse nella provincia di Sucumbíos causa principale de l disastro ambientale e sanitario.

Intanto, sempre a tutto vantaggio della multinazionale, al pronunciamento dell’Aja si somma quello di un giudice di New York che la scorsa settimana, nel terzo grado di giudizio del litigio, ha emesso un ordine temporaneo di restrizione che impedisce alla parte civile di ricevere compensi prima che sia definitiva ogni decisione giudiziaria. Ma intanto gli abitanti di Lago Agrio hanno di che brindare. Sono otto anni che va avanti il processo. E 47 che l’incubo ha avuto inizio.
Texaco sbarcò, infatti, nella zona di Sucumbíos, provincia amazzonica al confine con la Colombia, nel 1964. Tre anni dopo scoprì il primo giacimento: Lago Agrio 1, che è diventato la culla dell’inquinamento. Alcuni anni dopo si unì allo Stato ecuadoriano come parte di un consorzio e nel 1990 smise di operare direttamente pur restando nel consorzio controllato però ormai in maggioranza dalla Petroecuador. Nel 1993 venne per la prima volta fatto causa a Texaco, ma gli Stati Uniti passarono la palla, per competenza territoriale, al paese andino. Così nel 2003 a Nuova Loja, frazione di Lago Agrio, iniziò il procedimento. Finito, appunto, lunedì 14 febbraio 2011 con questa sentenza incompleta, ma pur sempre storica.

War Games in Sicilia con i sottomarini NATO telecomandati

Scritto da: di Antonio Mazzeo
Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/  
Centinaia di attacchi aerei, vere e proprie battaglie navali, inseguimenti di sottomarini nucleari e finanche la sperimentazione di sofisticate armi a comando remoto. È quanto avviene dal 5 febbraio nelle acque siciliane del Mar Ionio con l’esercitazione aeronavale denominata Proud Manta 2011 a cui partecipano dieci nazioni della NATO (Belgio, Canada, Francia, Germania, Grecia, Italia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti). Diretta dal Comando Alleato delle Forze Sottomarine (COMSUBSOUTH) e delle Forze Aeree Marittime (COMMARAIR) di Capodichino (Napoli), Proud Manta è la “maggiore esercitazione alleata per la lotta antisommergibile (ASW) e lo sviluppo delle tattiche di contrasto alle attività illecite perpetrate via mare con particolare attenzione all’antiterrorismo”, secondo quanto diramato dalla NATO. “L’esercitazione che si concluderà il 18 febbraio è un’importante occasione per sperimentare nuove dottrine ed attrezzature militari. I partecipanti metteranno in pratica le strategie e le tecniche attualmente utilizzate con le operazioni Active Endevaour nel Mediterraneo ed Ocean Shield in Corno d’Africa, così come le altre capacità belliche necessarie ad assicurare una migliore integrazione ed interoperabilità delle unità che fanno parte della Forza di Reazione Rapida (NRF) della NATO”.
Imponente lo schieramento di uomini e mezzi: all’esercitazione partecipano infatti otto unità navali, diciannove tra aerei ed elicotteri ASW e sei sottomarini, uno dei quali, l’USS Memphis (SSN-691) della marina militare statunitense, è dotato di reattori a propulsione nucleare con una potenza di 26 MW e dei famigerati missili da crociera “Tomahawk”, a doppia capacità, nucleare e convenzionale, in grado di colpire un bersaglio distante 1.700 miglia nautiche. Il sottomarino USA, in particolare, simula a turno sia il  ruolo di “attaccante” che di “difensore” delle unità che compongono il Gruppo Navale NATO SNMG 1 (Standing Naval Maritme Group) che l’Alleanza schiera permanentemente nelle acque del Mediterraneo orientale e del Golfo Persico a sostegno delle operazioni belliche in Iraq ed Afghanistan o in missioni anti-pirateria ed anti-migranti. Infrastruttura chiave dell’esercitazione Proud Manta 2011 è la base navale di Augusta (Siracusa), mentre gli attacchi simulati di elicotteri ed aerei vengono sferrati dagli aeroporti militari di Catania Fontanarossa e Sigonella.
La vera novità nei giochi di guerra NATO nelle acque a largo della Sicilia è rappresentata quest’anno dalla sperimentazione di tre “sea gliders”, ovvero di veicoli autonomi sottomarini (Autonomous Underwater Vehicle – AUV), per la raccolta dei “dati ambientali tridimensionali” da utilizzare a supporto dei processi decisionali e di pianificazione dei comandi militari. A coordinare i test degli AUV i tecnici del NATO Undersea Research Center (NURC) di La Spezia, il centro dipendente dal Comando alleato di Norfolk, Virginia, che opera nel campo della ricerca e dello sviluppo di tecnologie necessarie alle operazioni navali NATO, con particolare enfasi alla guerra sottomarina e al “contrasto delle nuove minacce in ambiente marittimo da parte delle nazioni nemiche o di gruppi terroristici”. “La conoscenza ambientale e l’efficienza operativa ottenute con l’utilizzo della tecnologia informativa avanzata dei veicoli sottomarini telecomandati, aiuteranno a definire gli scenari subacquei e a sviluppare le capacità dei militari NATO”, ha dichiarato Michel Rixen, uno degli scienziati che operano presso il NURC di La Spezia. “I glider resteranno in acqua per tutto il periodo dell’esercitazione aeronavale, percorrendo oltre 300 miglia nella raccolta di dati sulla salinità e la temperatura del mar Ionio che consentiranno agli operatori sonar di calcolare la velocità di propagazione del suono nell’acqua, elemento fondamentale per l’individuazione dei sottomarini nemici”.
Sempre secondo Michel Rixen, i nuovi sottomarini telecomandati “hanno molto in comune con gli aerei senza pilota UAV”. “Il glider è versatile e di lunga durata. Dotato di generatori a batteria, è lungo sei piedi e pesa circa 130 libbre, può essere lanciato dalla costa o da un piccolo gommone. Si muove in mare a una velocità di 2 miglia all’ora, usando una camera d’aria interna che si gonfia e si sgonfia come una pompa e che fornisce al veicolo la spinta idrostatica. Le modificazioni della spinta richiedono meno energia di un  propulsore ad elica, consentendo al veicolo di stare sott’acqua molto più a lungo”.
I tre gliders in via di sperimentazione in Sicilia sono stati prodotti dalla Teledyne Webb Research di Falmouth, Massachusetts, società interamente controllata da Teledyne Technologies Inc., gruppo leader nella progettazione e realizzazione di strumenti e attrezzature di ricerca e monitoraggio oceanografico. La Marina militare USA ha ordinato più di un centinaio di sottomarini telecomandati e punta ad impiegarli nei teatri di guerra internazionali con le unità del Naval Oceanographic Office. A fine 2009, un glider dello stesso tipo utilizzato nell’esercitazione Proud Manta è riuscito a completare l’attraversamento dell’Oceano atlantico in 221 giorni.
“Se necessario, gli AUV potranno essere facilmente impiegati per le stesse funzioni e missioni dei grandi sottomarini”, ha spiegato mister Rixen. “Potranno essere installati a bordo degli AUV anche dei sistemi d’arma, esattamente come già fatto con gli aerei senza pilota”. L’immagine è quella dei micidiali “Predator” che stanno seminando morte e distruzione in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Chissà se dopo la trasformazione di Sigonella nel maggiore centro direzionale europeo dei “Global Hawk” USA e NATO, a Washington non si stia pensando di fare dei porti siciliani il trampolino per le guerre subacquee teleguidate nel Mediterraneo.