I BRICS fanno scoppiare la bolla del credito e il rischio è uno shock deflazionistico mondiale

Fonte: http://www.telegraph.co.uk/
Traduzione: http://vocidallestero.blogspot.it/

Rischio di deflazione globaleSul Telegraph Ambrose Evans-Pritchard analizza le tendenze dell’economia globale: USA e Cina in contemporanea  intraprendono politiche restrittive per contrastare le bolle, i paesi emergenti si difendono alzando i tassi per evitare fughe di capitali, e l’unica senza spazi di manovra rimane l’Europa, che con le sue politiche monetarie ortodosse ha già abbandonato le difese rispetto alla deflazione e alla esplosione del debito. Sorge spontanea la domanda finale:  perché stanno lasciando che accada…?

Metà dell’economia mondiale è a un incidente di distanza da una trappola deflattiva. L’FMI dice che la probabilità che ciò accada potrebbe essere ora del 20%.
Una circostanza importante è che le 2  superpotenze monetarie – USA e Cina – starebbero entrambe adottando misure restrittive che portano verso tale 20% di rischio, senza dubbio perché hanno concluso che le bolle speculative stanno diventando un pericolo ancora più grande.
“Dobbiamo essere estremamente vigili” ha detto a Davos Christine Lagarde del FMI. “Il rischio di deflazione è quel che accadrebbe se ci fosse uno shock in quelle economie che ora hanno tassi di inflazione bassi, ben al di sotto del target. Credo che nessuno possa negare che nell’eurozona l’inflazione è ben al di sotto l’obiettivo dichiarato.”
Non è difficile immaginare quale potrebbe essere lo shock. Già ci troviamo davanti alla Turchia, l’India e il Sud Africa che stanno tutti tirando il freno, costretti a difendere le loro valute a causa del prosciugamento della liquidità globale.
La Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto – Flussi di capitale e  Rischi nei Paesi in via di Sviluppo – ha avvertito  che il tapering degli stimoli da parte della Banca Centrale USA potrebbe giocare un “tiro mancino” al sistema internazionale.
“Se le reazioni del mercato al tapering fossero precipitose, i paesi in via di sviluppo potrebbero vedere diminuire i flussi di denaro fino all’80% per diversi mesi” dice il report. Un quarto di queste economie rischiano un arresto improvviso. “Anche se questi aggiustamenti potrebbero durare poco, essi rischiano di infliggere gravi tensioni, accrescendo potenzialmente i rischi di crisi”.
Il rapporto dice che potrebbe esserci bisogno di controlli sui capitali per superare la tempesta – o tecnicamente per superare la “Impossibile Trinità” di autonomia monetaria, tasso di cambio stabile e libera circolazione dei capitali. William Browder di Hermitage dice che è esattamente qui che la crisi ci sta portando, e sarà una brutta sorpresa per gli investitori scoprire che il loro denaro è bloccato – come è già successo a Cipro e sta succedendo anche in Egitto. La reazione a catena diventa auto-avverante. “La gente inizierà a chiedersi quale sarà il prossimo paese” dice Browder.
I mercati emergenti rappresentano ormai la metà dell’economia mondiale, quindi ci stiamo muovendo in acque inesplorate. Dopo la crisi-Lehman circa 4000 miliardi di dollari di fondi esteri si sono riversati sui mercati emergenti, gran parte dei quali da allora si muovono sulla strategia del “momentum money”, che arriva tardi alla festa. Il FMI dice che circa 470 miliardi di dollari sono direttamente legati al QE della Fed. “Non sappiamo quanto di questo denaro stia per uscire di nuovo da questi mercati, o quanto velocemente,” ha detto un funzionario del Fondo.
Un paese dopo l’altro è ora costretto a politiche restrittive. Più l’andazzo continua, e più il problema si diffonde, tanto maggiore è il rischio che esso si trasformi in uno shock globale deflazionistico.
Martedì notte la Banca Centrale della Turchia ha preso misure drastiche  per fermare la fuga di capitali, raddoppiando il suo tasso di riacquisto dei bond dal 4,5% al 10%. Questo porterà in breve tempo l’economia a un punto morto e, in ultima analisi, può rivelarsi futile come la difesa ideologica della sterlina da parte della Gran Bretagna nel settembre 1992 (uscita dallo SME, ndT).
Mercoledì il Sud Africa ha alzato i tassi di mezzo punto al 5,5% per difendere il “rand” e l’India martedì li ha alzati di un quarto di punto all’8%, tutti costretti a stringere i denti con la crescita che va esaurendosi. Il Brasile e l’Indonesia ci sono già dentro da mesi, a tentar di frenare un deprezzamento della valuta che rischia di andar fuori controllo da un momento all’altro.

Altri paesi sono messi meglio – soprattutto perché le loro partite correnti sono in surplus – ma perfino loro stanno perdendo spazi di manovra. Il Cile e il Perù avrebbero bisogno di tagliare i tassi per contrastare il crollo del prezzo dei metalli, ma in questo clima di tensione non osano farlo.

La Russia ha un piede nella recessione, ma non può intervenire per riavviare la crescita, dato che il rublo è sprofondato al minimo storico rispetto all’euro. La Banca Centrale sta bruciando le riserve di valuta ad un ritmo di 400 milioni di dollari al giorno per difendere la moneta, facendo di fatto una politica restrittiva. Per quanto riguarda l’Ucraina, l’Argentina e la Thailandia, sono già fuori controllo in mezzo alla bufera.
La Cina sta marciando al  ritmo proprio, con un conto capitale chiuso e riserve da 3800 miliardi di dollari, ma anch’essa sta trasmettendo un potente impulso deflazionistico a tutto il mondo. L’anno scorso la Cina ha investito altri 5000 miliardi di dollari in nuovi impianti e investimenti fissi – quanto gli USA e l’Europa insieme – inondando l’economia globale di altra capacità in eccesso.
I mercati hanno una fede commovente nel fatto che gli stessi responsabili della spettacolare bolla del credito da 24000 miliardi di dollari – una volta e mezza più grande del sistema bancario degli Stati Uniti – stavolta riusciranno a sgonfiare la bolla con delicatezza, con un’abilità che è mancata alla Fed nel 1928, alla banca del Giappone nel 1990 e alla Banca d’Inghilterra nel 2007.
Manoj Pradhan, di Morgan Stanley, dice che la Banca Centrale della Cina sta cercando di rientrare dai debiti e alzare i tassi allo stesso tempo, cosa che “amplifica i rischi per la crescita”. Si tratta di un’impresa eroica, come effettuare interventi chirurgici senza anestesia. È l’esatto opposto di quello che ha fatto la Fed dopo il 2008, quando il QE ha aiutato ad assorbire lo shock. Morgan Stanley dice che il 45% di tutto il credito privato in Cina deve essere rifinanziato nel corso dei prossimi 12 mesi, quindi allacciate le cinture.
Inoltre, la Cina sta facendo fatica a mantenere floride le sue industrie al tasso di cambio corrente. Patrick Artus, di Natixis, dice che i salari in continuo aumento – e la caduta di produttività – fanno sì che ora produrre l’Airbus A320 a Tianjing costi il 10% in più che produrlo a Tolosa.
Le implicazioni sono evidenti. La Cina prima o poi può tentare di ribassare lo yuan per mantenere le sue quote di mercato, al di là di ciò che dicono al Congresso degli Stati Uniti, in parte per fermare il Giappone che sta guadagnando terreno grazie alla sua svalutazione del 30% con l’Abenomics. Albert Edwards della Société Générale dice che questo potrebbe rivelarsi lo shock deflazionistico finale, in confronto al quale la crisi asiatica del 1998 scomparirebbe.
L’Europa ha già lasciato crollare le sue difese dietro una linea Maginot di politica monetaria ortodossa. I dati Eurostat mostrano che Italia, Spagna, Olanda, Portogallo, Grecia, Estonia, Slovenia, Slovacchia, Lettonia, così come i paesi con il cambio ancorato all’euro come Danimarca, Ungheria, Bulgaria e Lituania, sono entrati tutti in piena deflazione sin dal mese di maggio, come la pressione fiscale si è inasprita. I prezzi sono in caduta in Polonia e in Repubblica Ceca dal mese di luglio, e in Francia dal mese di agosto.
La crescita dell’aggregato monetario europeo M3 è stata negativa per otto mesi, contraendosi ad un tasso dell’ 1,1% rispetto al trimestre precedente. Secondo gli ultimi dati della Banca centrale europea, il credito bancario al settore privato è sceso di 155 miliardi di euro in tre mesi.
Prima di Natale Mario Draghi della BCE ha parlato della necessità di un “margine di sicurezza” contro la deflazione, ma ora sembra stranamente passivo, come sottomesso alla Bundesbank. A Davos l’ho sentito ripetere due volte – spento, senza convinzione – che l’inflazione core è semplicemente tornata dove era nel 1999 dopo la crisi asiatica e nel 2009 dopo la crisi-Lehman, e quindi va bene.
Ma non siamo in circostanze neanche lontanamente paragonabili. Questi due eventi si sono verificati all’inizio di un nuovo ciclo di credito. Oggi siamo quasi al quinto anno del vecchio ciclo – che è già molto maturo – e l’80% dell’economia globale applica misure restrittive o tagli agli stimoli. Per come stanno le cose, la prossima recessione spingerà il sistema economico occidentale oltre la soglia della deflazione.
Gli Stati Uniti hanno un margine leggermente maggiore, ma non molto. La crescita dell’aggregato monetario M2  sta rallentando anche più velocemente di quanto fatto nei nove mesi prima del crollo di Lehman nel 2008, ma allora la Fed non si interessò più di tanto di questi dati, quindi è fin troppo possibile che ripeta lo stesso errore. La Fed sta sicuramente sfidando la sorte, con 10 miliardi di dollari di bond tapering ad ogni meeting, in un contesto di deflazione incipiente, come continua a sottolineare il capo della Fed di Minneapolis, Narayana Kocherlakota.
Quelli che pensano che la deflazione sia innocua dovrebbero ascoltare Haruhiko Kuroda della banca del Giappone, che ha vissuto 15 anni di prezzi in calo. I profitti aziendali si sono prosciugati. Gli investimenti in tecnologia si sono atrofizzati. L’innovazione è svanita. “Ha provocato una mentalità molto negativa, in Giappone,” ha detto.
Il Giappone ha avuto i più alti tassi di interesse reali del mondo avanzato, cosa che ha causato una spirale di interessi composti che ha portato l’onere del debito a crescere, mentre il PIL nominale si contraeva.
Un esito simile in Europa porterebbe all’esplosione delle traiettorie del debito del Club Med. Comprometterebbe ogni speranza di arrestare il declino economico dell’Europa o di ridurre la disoccupazione di massa prima che le democrazie dei paesi afflitti siano in serio pericolo. Perciò, perché stanno lasciando che accada?

Confermata la scoperta della Matrice dell’Universo: “ragnatela di gas” collega tutte le galassie

Fonte: http://www.segnidalcielo.it/

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I nativi americani allora avevano ragione, quando raccontavano ai loro figli, che siamo tutti UNO, siamo tutti correlati e collegati, perchè  l’Universo è come una grande Ragnatela Cosmica.  Oggi  questa “ragnatela cosmica” composta da gas, collega fra loro le galassie ed è stata osservata per la prima volta, grazie alla luce diffusa da un quasar distante che ha illuminato i filamenti. Descritta su Nature, la scoperta si deve a uno studio coordinato dall’astronomo italiano Sebastiano Cantalupo che lavora negli Stati Uniti presso l’università della California a Santa Cruz.

“Il primo e più spettacolare risultato fornito da questi dati è nelle mappe della distribuzione delle galassie basate sulle nuove misure di distanza che mostrano come già a quell’epoca l’Universo fosse organizzato in grandi strutture filamentose, che connettono gli ammassi di galassie e circondano ampie zone vuote.”

Un dettaglio della rete di filamenti cosmici, la ragnatela di energia e gas che collega stelle e pianeti

Il risultato è stato possibile grazie al telescopio Keck I nelle Hawaii. Il quasar è un nucleo galattico attivo che emette radiazioni intense alimentate da un buco nero gigantesco al centro di una galassia e illumina come un faro la rete di filamenti di gas che si estende per circa 2 milioni di anni luce. ”Si tratta di un oggetto molto eccezionale: è enorme, almeno due volte più grande di qualsiasi nebulosa rilevata prima, e si estende ben oltre l’ambiente galattico del quasar” ha rilevato Cantalupo.Un modello già prevedeva l’esistenza della ragnatela – Il modello cosmologico standard, che descrive la formazione delle strutture nell’universo, prevede che le galassie siano incorporate in una ragnatela cosmica di materia, la maggior parte della quale (circa l’84%) sarebbe costituita da materia oscura invisibile. Questa ragnatela risulta dalle simulazioni al computer sull’evoluzione della struttura dell’universo, che mostrano la distribuzione della materia oscura su larga scala, compresi gli aloni di materia oscura in cui le galassie si formano e la rete cosmica di filamenti che le collegano.

la rete cosmica di filamenti che collegano Galassie, ammassi stellari e sistemi planetari

La gravità fa in modo che la materia ordinaria segua la distribuzione della materia oscura, in modo che i filamenti di gas diffuso e ionizzato siano tenuti a seguire un modello simile a quello visto nelle simulazioni.Fino ad ora questi filamenti non erano mai stati osservati – ”Abbiamo studiato altri quasar in questo modo senza rilevare tale gas esteso”, ha detto Cantalupo. ”La luce del quasar – ha aggiunto – è come un fascio luminoso e in questo caso siamo stati fortunati che la ‘torcia’ sia rivolta verso la nebulosa e illumini il gas”.

 

 

 

FATE PRESTO! SALVIAMO LA PICCOLA E MEDIA IMPRESA.

Scritto: Andrea Mazzalai
Fonte:

incendioQuando parla lui è come se parlasse il saggio del villaggio globale economico/finanziario, bisogna stare in religioso silenzio ad ascoltarlo, in fondo è l’unico al mondo che ha previsto tre delle ultime tre grandi bolle finanziarie, uno dei sacerdoti della finanza comportamentale, che come ben sapete è uno dei nostri punti di forza insieme alla storia e all’analisi empirica.

 

State sintonizzati perchè in questo post ci sono alcune informazioni davvero interessanti che verranno integrate in maniera dettagliata nel manoscritto “Madame Volatilité” che sarà inviato venerdi sera, per permettervi di leggerlo con calma nel fine settimana.

 

The Financial Fire Next Time – Project Syndicate è il titolo di questo capolavoro metaforico , tradotto in tutte le lingue, arabo e cinese inclusi,  tranne che in italiano ovviamente, abbiamo visto nascere la lingua universale e l’economia sul nostro territorio e ci siamo ridotti a fantasmi che dimenticano il proprio glorioso passato.

 

“Se abbiamo imparato qualcosa da quando la crisi finanziaria globale ha raggiunto il suo picco nel 2008, è che prevenirne un’altra è un lavoro più difficile di quanto la maggior parte delle persone credono,  non solouna prevenzione efficace delle crisi richiede la revisione delle nostre istituzioni finanziarie attraverso l’applicazione creativa dei principi di buona finanza.; richiede anche che i politici e le loro componenti abbiano una comprensione condivisa di questi principi.”

 

E qui mi fermo per un attimo prima di riprendere alcuni passaggi dell’articolo di Shiller, condividendo solo la realtà quotidiana di questa crisi, il motivo per il quale non abbiamo scampo, siamo circondati…

 

MILANO – L’accordo dei banchieri centrali sui requisiti di liquidità per le banche è stato accolto dalla totalità degli osservatori come una vittoria di queste ultime, forti di un’attività di lobbying che probabilmente non ha pari. I regolatori hanno così “annacquato”, scrive il FT, le nuove norme controverse per frenare la dipendenza delle banche dall’indebitamento. Le “concessioni” – le definisce Bloomberg – fatte dai regolatori permettono agli istituti di utilizzare prassi contabili differenti che permettono loro di contenere la rappresentazione del debito: una vittoria ottenuta per il timore che le nuove regole potessero penalizzare le attività finanziarie a basso rischio e portare a un’ulteriore stretta sui prestiti.Le banche festeggiano l’accordo per Basilea.

 

Angelina Markel e soprattutto la sua Deutsche Bank, ringraziano sentitamente per questo splendido regalo, che permette di nascondere la reale entità della discarica derivata che si nasconde sotto la banca tedesca.

 

Ma come spesso accade avanti con le armi di distrazione di massa … “Se non riusciamo a fare l’aumento di capitale, non è a rischio solo il Montepaschi ma l’intero sistema bancario italiano” ha detto un certo Profumo.

 

Ovviamente non chiedete alla stampa italiana ed ai giornalisti economico/finanziari nostrani di fare uno sforzo in questa direzione, loro conoscono solo le vicende del Monte dei Pazzi di Siena del senno di poi, mica puoi pretendere che sappiano come i fondi di salvataggio europei siano serviti per salvare le fragili banche tedesche o che Deutsche Bank ha in pancia derivati pari 20 volte il PIL tedesco…

 

La Deutsche bank, la più grande banca tedesca, ha tolto il primato all’americana JP Morgan Chase nella classifica dei derivati finanziari! Questo è un fatto sottaciuto, ma bruttissimo per tutta l’Europa Il bilancio annuale 2012 della Db rivela contratti in derivati per un valore nozionale di 55,60 trilioni di euro, pari a oltre 72 trilioni di dollari Ha superato quindi la Jp Morgan Chase, che è sempre stata la numero uno sui mercati Otc. Quest’ultima alla fine del quarto trimestre dello scorso anno deteneva derivati per un valore nozionale pari a 69,5 trilioni di dollari. Deutsche bank spaventa Merkel

 

Cosa vuoi mai che siano 72 trilioni oggi, mi raccomando continuate a raccontarmi cosa hanno detto a Ballarò o cosa scrivono su Repubica o il Corriere dei Piccoli o sul Tramonto24Ore.

 

Non vi siete mai chiesti per quale motivo non vi raccontino queste cose?

 

Ma proseguiamo che è meglio e ascoltiamo Shiller o meglio le sue conclusioni e la sua splendida metafora e non dimenticatevi il concetto di leva finanziaria perchè la rivedremo in Madame Volatilitè…

 

(…)  vi è una forte domanda pubblica per una risposta dei governi volta a prevenire un’altra crisi e porre fine al problema delle istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” Ma la realtà politica è che i funzionari del governo non hanno le conoscenze e l’incentivo per porre in essere riforme che siano efficaci e tecnicamente sufficienti.

 

(…) “ Fare i vigili del fuoco è più affascinante che prevenire incendi.” Così come la maggior parte delle persone sono più interessate alle storie di incendi, di quanto non lo siano sulla struttura chimica dei prodotti ignifughi, sono più interessate alle storie delle crisi finanziare che non alle misure necessarie per prevenirle. Questa non è una ricetta per un lieto fine.

 

Capito cosa significa finanza comportamentale?

 

Visto che a qualcuno sembra essere sfuggito ma non a Madame Volatilitè, mentre i signori mercati si fidano della , ricordo a tutti che dall’uccelliera della ECB è uscita una colomba Asmussen ma sono entrati due falchetti, la vice di Wiedmann, Lautenschläger e un certo IIlmar Rimsevics, governatore della banca centrale lettone, new entry nella camera a gas europea, giusto per Vostra informazione.

 

In un’audizione presso il Parlamento europeo che doveva ratificare la sua nomina EZB-Kandidatin Lautenschläger probt im Parlament Spagat sembra abbia detto tanto per cambiare che i bassi tassi di interesse stimolino effettivamente l’economia ma a lungo termine non sono senza rischi e che per quanto riguarda i titoli di stato sovrani e la loro valutazione…

 

Inoltre sembra che alcuni governatori della Fed siano sempre più inquieti ed incominciano ad agitarsi, non vedono bolle, ma bollicine e parlano di birre e cammelli … Beer Goggles, Monetary Camels, the Eye of the Needle and the First

Machu Picchu, Perù: la “città perduta” degli Incas avvolta nel mistero tra storia, astrologia e architettura

Scritto da: Caterina Lenti
Fonte: http://www.meteoweb.eu/

MACHU-PICCHU-300x199Per gli Inca la Valle di Urubamba era la porta della foresta, l’antisuyu. Il fiume che l’attraversa era un tempo conosciuto come Willka Mayu (Fiume  del Sole o fiume sacro) e il nevaio che lo origina era chiamato  Wikklan Uta (Casa del Sole o Casa Sacra). Il culto solare era, quindi,  ancestrale nella zone. La fondazione di Machu Picchu risalirebbe proprio all’epoca del governo di Pachacutec , il primo Inca a lasciare Cusco per conquistare nuove regioni, assoggettando la Valle di Urubamba, che divenne l’insediamento privilegiato della nobiltà Inca.

 

Tale ipotesi è avvalorata dalla datazione del carbonio 14, dalla fattura della ceramica e dalla totale assenza di evidenze archeologiche pre-Inca. Machu Picchu, che in spagnolo significa “Vetta Antica”, si trova in Perù, nel  Parco Archeologico di Machu Picchu, nella foresta amazzonica; è  situata a 112, 5 km a nord-est della città di Cusco, che fu capitale dell’Impero Inca, a oltre 2350 m. di altitudine, e la sua estensione raggiunge quasi 1 km. Attorno alla “città perduta” degli Inca, così chiamata poiché è rimasta celata al mondo interno per oltre 4 secoli, prima di essere scoperta nel 1911, ruotano una marea di ipotesi: per alcuni sarebbe stata una città amministrativo-religiosa, forse un santuario dedicato alle Sacre Vergini del Sole (dato che la popolazione, in base ai resti umani ritrovati, era costituita all’80% da donne. Le 200 mummie rinvenute, in massima parte,  erano giovani donne); secondo altre ipotesi la città era una residenza stagionale del nono Inca Pachacutec, primo re ad estendere i suoi domini oltre la valle, oppure la dimora occasionale del sacerdote Cuzco ed  suo seguito. Nella città vi erano delle vere e proprie scuole con aule adibite allo studio degli astri e si praticavano riti effettuati dagli Amautas, sacerdoti con elevate conoscenze dei meccanismi celesti, come equinozi e solstizi, per cui potrebbe essere nata come città-osservatorio in cui effettuare studi astronomici.

 

Infine, secondo teorie ufologiche, la sua costruzione è persino antecedente alla popolazione Inca e potrebbe essere opera di extraterrestri, dato che il punto di costruzione è impervio, difficile da raggiungere se non per via aerea. Secondo gli ufologi, il trasporto delle pesanti e  voluminose pietre necessarie alla costruzione degli edifici di Machu Picchu  era molto arduo per una popolazione che non conosceva l’uso della ruota. Machu Picchu, dichiarata Patrimonio Culturale dell’Umanità Unesco nel 1983 , eletta nel 2007, in un sondaggio apparso su Internet e votato dalle persone di tutto il mondo, come una delle Nuove Sette Meraviglie del Mondo, è stata scoperta il 24 luglio 1911, da un professore ed esploratore di Yale: Hiram Bingham che, appassionato di archeologia, accompagnato dalla guida locale Melchor Arteaga, giunse fino alla cima del Monte Machu Picchu, dove incontrò due campesinos  che vivevano lì con le loro famiglie,  coltivando appezzamenti Inca.  Si narra che sia stato un bimbo a indicare all’esploratore le rovine monumentali, ma Bingham commise un errore: quello di credere che esse appartenessero alla leggendaria Vilcabamba, l’ultimo rifugio degli Inca ribelli, stando alle cronache dell’epoca. Nell’ ottobre 1912, il Governo Peruviano, tramite un decreto, autorizzò lo studioso a scavare nella zona, consentendogli di portare negli Usa tutti i reperti archeologici ritrovati e ci vollero più di 5 anni di lavoro per far riemergere l’intero complesso architettonico. Nel tempo, i sacerdoti divennero abilissimi officianti per via delle loro conoscenze scientifiche, in particolare quelle astronomiche.

 

Interno Tempio del Sole

Interno Tempio del Sole

 

Si narra che uno dei riti più importanti fosse quello dell’Intihuatana, ossia “il posto dove viene legato il sole”. Durante i solstizi, quando il sole sembrava insistere nella sua traiettoria ascendente o discendente, era compito del sommo sacerdote legare una corda robusta alla pietra Intihuatana, mimando l’atto di un enorme sforzo per soggiogare l’astro solare, obbligandolo ad invertire il corso per far cambiare la stagione. Tutto ciò avveniva sotto gli occhi attoniti della popolazione, che trovava una “valida” spiegazione per il moto degli astri e soprattutto si sentiva rassicurata di essere governata da gente che sapeva come garantire il corretto funzionamento della natura e della società. Machu Picchu è un tesoro nascosto nel profondo della Cordigliera delle Ande, dove il fiume Urubamba dà origine alla Valle Sacra degli Incas. Questa città-mausoleo ha grandi edifici in pietra sparsi tra il settore alto (hanan) ed il basso (hurin); nel settore superiore ci sono il Tempio del Sole, la Residenza Reale, la Piazza Sacra con il Tempio delle tre finestre , il Tempio Principale, e soprattutto Intihuatana, la pietra su una collina che confonde ancora gli archeologi, in quanto non si sa bene se fosse un altare sacro, un osservatorio astronomico o un orologio solare come la meridiana. Nella parte inferiore si trovano, invece, diversi gruppi di edifici più poveri, che probabilmente costituivano le abitazioni, le botteghe ed i luoghi per l’allevamento degli animali. I due settori, alto e basso, sono collegati da stretti sentieri e scalinate.

 

TEMPIO TRE FINESTRE

Tempio delle tre Finestre

 

Ma la parte più impressionante si trova a nord della cittadella: una scalinata stretta e molto ripida, ma praticabile senza grandi difficoltà, sale fino alla vetta della Huayna Picchu (la Montagna Giovane), dove da un’altezza di circa 2700m  si potrà osservare dall’alto uno splendido panorama che sovrasta tutto il sito archeologico di Machu Picchu. Nell’arte Inca confluiscono vari elementi delle precedenti culture di Chavin, Tiahuanaco e di Chimù. Sorprende la bellezza delle mura della città, costruite pietra su pietra, senza cemento o materiale incollante. Si narra persino che un uccello, chiamato “Kak ‘adlu” conoscesse la tecnica per ammorbidire le pietre e che, forse per ordine degli antichi dei incaici, si strappò la lingua per non rivelarla. A Machu Picchu si nota il grande rispetto per la natura dei suoi costruttori; ancora oggi in essa scorrono acque incardinate, i materiali utilizzati sono quelli ritrovati sul posto; l’utilizzo dello spazio è finalizzato al massimo rendimento. Molti sono i miti che accompagnano la storia popolare diffusa tra le popolazioni andine, ma tra segreti, misteri, perplessità, vi è una sola certezza: il popolo che ha realizzato Machu Picchu, piena di acquedotti, torri di avvistamento, osservatori astronomici e orologi solari, ha dato prova di grande saggezza, raffinatezza culturale e abilità costruttiva.

Basilica Palladiana

Fonte: http://www.comune.vicenza.it/

47267-immagineLa Basilica Palladiana è l’edificio simbolo di Vicenza, vertice della creatività di Andrea Palladio, iscritto dall’Unesco fra i beni patrimonio dell’umanità. La Basilica si alza maestosa sul lato sud della piazza dei Signori, cuore e salotto della città. Dal 2007 al 2012 la Basilica Palladiana è stata oggetto di un complesso ed articolato intervento di restauro (architettonico, funzionale, impiantistico) con il duplice obiettivo di preservare la notorietà e le straordinarie qualità figurative e spaziali del monumento, e di restituire alla città il suo edificio simbolo, garantendo il pieno utilizzo e la funzionalità del complesso per la realizzazione di eventi culturali. Nel 2012 la Basilica Palladiana è stata restituita ai vicentini e trasformata in moderno contenitore culturale, arricchito di nuove e inedite funzioni (culturali, commerciali, informative, civiche).

Il primo nucleo dell’edificio, il primitivo Palazzo della Ragione, fu edificato alla metà del Quattrocento e successivamente circondato, tra il 1481 e il 1494, da un duplice ordine di arcate, erette da Tommaso Formenton. Crollate nel 1496 le logge dell’agolo sud-ovest, ne venne decisa dopo un lungo dibattito la ricostruzione totale, affidata nel 1546 al giovane Andrea Palladio, a seguito di pubblico concorso.
Il progetto segna la consacrazione artistica di Palladio e inaugura il nuovo volto di Vicenza, ispirato alla classicità, come indica lo stesso nome di Basilica, assegnato alla costruzione in riferimento agli edifici della Roma antica dove si discutevano politica e affari. Il sistema adottato da Palladio si basa su un duplice ordine di logge (tuscaniche al piano terra e ioniche al primo piano) che incorpora la preesistente fabbrica gotica, lasciando emergere la grande copertura a carena di nave rovesciata, e sulla ripetizione lungo tutto il perimetro dello stesso modulo architettonico: la serliana, un arco a luce costante affiancato da due aperture laterali rettangolari. L’opera venne completata nel 1614 con l’apparato scultoreo della terrazza.
Il primo piano ospita la grandiosa sala già del Consiglio, lunga 52 metri e alta 25 al colmo della volta.
A fianco del complesso monumentale si erge la Torre dei Bissari, alta 82 metri con una base di soli 7, dove venne installato fin dal XIV secolo il primo orologio meccanico a uso pubblico della città.

Tetti verdi: in Norvegia una tradizione preistorica. Le immagini piu’ belle

Scritto da: francesca Mancuso
Fonte: http://www.greenme.it/

tetti verdi Norvegia

I tetti verdi in Norvegia sono una tradizione radicata. Da centinaia di anni, le case vengono costruite con queste splendide coperture ricche di manto erboso, arbusti e piante di ogni genere.

In Scandinavia, i tetti erano probabilmente ricoperti di corteccia di betulla e zolle di terra fin dalla preistoria. Durante la dominazione vichinga e nel Medioevo la maggior parte delle case aveva i tetti a zolle. Nelle zone rurali, si trovavano ovunque fino agli inizi del 18° secolo. Una tradizione che rischiò di perdersi e che all’inizio del secolo scorso, il governo norvegese fece di tutto per salvare.

Allora, all’indomani della rivoluzione industriale apparvero i primi tetti di tegole prima nelle città e poi sulle case rurali. In seguito, il ferro e altri materiali industriali stavano prendendo campo, minacciando le antiche tradizioni dei tetti verdi. Tuttavia, poco prima della loro estinzione, vennero salvati, proclamando un vero e proprio revival delle tradizioni vernacolari.

Oggi è ancora boom. È stato incentivato un nuovo mercato dai rifugi e dalle case vacanza. Allo stesso tempo, i musei a cielo aperto e i movimenti di tutela hanno posto delle restrizioni per salvaguardare le antiche tradizioni costruttive. Ecco perché i tradizionali tetti verdi sono riusciti a riapparire ponendosi come alternativa ai materiali moderni. Ce n’è per tutti i gusti. Alcune ospitano un semplice tappeto d’erba, altre frumento o avena, piccoli alberi e fiori.

A conferma della diffusione dei green roofs in Norvegia, dal 2000 ogni anno viene assegnato un premio al miglior progetto della Scandinavia dal consiglio di amministrazione della Scandinavian Green Roof Association di cui anche l’Italia è partners.

 

Legalizzare la vendita di reni: lo chiede un premio Nobel

Fonte: http://www.controcopertina.com/legalizzare-la-vendita-di-reni-lo-chiede-un-premio-nobel/

reni“Autorizzare la vendita dei reni”. È la proposta choc apparsa ieri su un articolo del Wall Street Journal e firmata dall’economista premio Nobel Gary Becker e del suo collega argentino Julio Elias. L’idea è quella di mettere su un vero e proprio mercato dei reni, il cui scopo sarebbe quello di ridurre le liste d’attesa per i trapianti. Attualmente, la vendita dei reni è vietata in quasi tutti i Paesi del Mondo e il traffico illegale di organi è una grave piaga in diverse parti del globo.

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Nell’editoriale, si analizza la situazione americana, dopo le liste d’attesa sono di circa 4,5 anni per r un rene e le campagna di sensibilizzazione per le donazioni non hanno portato grandi risultati:

“Nessuno dei metodi in uso oggi è in grado di eliminare la carenza di reni – si legge – mentre invece pagare i donatori per i loro organi ci riuscirebbe. In particolare, con un prezzo sufficiente per i reni il numero di organi disponibili crescerebbe molto senza incidere molto sul costo del trapianto”.

Secondo alcuni calcoli, un rene dovrebbe costare in media 11 mila euro.

 “Il sistema che stiamo proponendo – scrivono i due economisti – include il pagamento agli individui che acconsentono al prelievo degli organi dopo la morte. La presunta immoralità di un mercato degli organi andrebbe confrontata con la possibilità di evitare ogni anno centinaia di migliaia di morti di pazienti in lista d’attesa”.

LA GUERRA CIVILE AMERICANA FU PER LA LIBERAZIONE DEGLI SCHIAVI NERI DEL SUD? UN MITO DURO A MORIRE

Scritto da: Rino Camilleri
Fonte: Il Timone, luglio-agosto 2012 (n. 115) ; Pubblicato su BastaBugie n. 262

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Ci voleva un libro come quello di Thomas E. Woods Jr. per sfatare un mito duro a morire, quello della guerra civile americana come conflitto per la liberazione degli schiavi neri del Sud.
Per esempio, non c’è film né fumetto che non riproponga, ancora oggi, il mito in questione. Anche nelle fiction più tenere verso i sudisti (come il celebre Via col vento o il crudo Il texano dagli occhi di ghiaccio con Clint Eastwood), lo spettatore cava almeno l’impressione che, sì, i nordisti non erano sempre degli stinchi di santo ma avevano ragione.
Invece Woods (già autore di “Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale”, Cantagalli) ci dice il contrario: avevano ragione i sudisti. Infatti, è sbagliato anche solo parlare di guerra civile, perché si trattò in realtà di una guerra d’indipendenza, così come lo era stata quella che le colonie d’America avevano condotto contro l’Inghilterra nel secolo precedente. In quest’ultima (che non fu affatto una rivoluzione, al contrario), gli americani reagirono contro un potere che era diventato centralistico e oppressivo, reclamando diritti conculcati (dunque, un ritorno allo status quo ante, diversamente dai giacobini francesi). Lo stesso fecero gli Stati del Sud quando il governo federale cominciò a comportarsi come a suo tempo aveva fatto Londra.
Il libro di Woods è esplicito fin dal titolo: Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America (D’Ettoris Editori, a cura di Maurizio Brunetti e con prefazione di Marco Respinti, firma del «Timone»). E ci informa che il predecessore di Abraham Lincoln (1861-1865) alla presidenza, James Buchanan (1857-1861), aveva consentito che ben sette Stati del Sud uscissero dall’Unione senza far storie. Infatti, era previsto fin dalla Dichiarazione d’Indipendenza che uno Stato potesse ritirarsi dal patto federale quando lo avesse ritenuto opportuno. La schiavitù non c’entrava affatto. Il problema era (tanto per cambiare, nella storia americana) squisitamente economico: il Nord era protezionista e il Sud liberoscambista. Cioè, il Nord, industriale e manifatturiero, difendeva i propri prodotti con alti dazi; il Sud, che questa roba la doveva importare, esportava però nel mondo il suo cotone e il suo tabacco. Il suo distacco dall’Unione avrebbe dirottato il commercio verso i suoi porti, praticamente privi di dazi.
Paradossalmente, agli abolizionisti conveniva che il Sud se ne andasse per i fatti propri, tant’è che William Lloyd Garrison (1805-1879), fondatore della Società antischiavista americana, ne sosteneva la secessione. L’esempio era dato dal Brasile, Stato federale in cui uno degli Stati, il Cearà, aveva abolito la schiavitù. Col risultato che i neri presero a rifugiarvisi; ciò ne fece crollare il prezzo e, in pochi anni, portò all’abolizione nell’intero Paese. La secessione americana avrebbe provocato la fuga degli schiavi negli Stati abolizionisti e ciò avrebbe costretto il Sud, rovinato, a seguire l’esempio brasiliano. Non solo. La stragrande maggioranza dei sudisti non era proprietaria di schiavi e, anzi, diverse personalità di primo piano (come i generali Lee e “Stonewall” Jackson) erano contrari alla schiavitù.
I primi sette Stati che si erano ritirati dall’Unione lo avevano fatto in realtà perché a loro non conveniva più restarci. Ciò era pacificamente ammesso fin dai tempi di «padri della patria» come Thomas Jefferson e John Quincy Adams; perfino da un osservatore acuto come Alexis de Tocqueville. Così, giudicando che ormai il governo centrale era divenuto oppressivo, sette Stati rivendicarono il loro diritto di sbattere la porta: South Carolina, Texas, Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia e Florida. Ma poi fu eletto Abraham Lincoln, il quale nel 1861 mandò una nave ad approvvigionare Fort Sumter, che controllava il porto di Charleston, in South Carolina. Era una provocazione, perché quello Stato si era già reso indipendente e non intendeva permettere al governo federale di mantenere – e rafforzare – una guarnigione sul proprio territorio.
I locali spararono contro il forte e non ci fu nemmeno un ferito, ma la loro reazione servì a Lincoln per dichiarare i secessionisti ribelli e scatenare la guerra. A quel punto, altri quattro Stati dichiararono la loro indipendenza: Tennessee, Virginia, North Carolina e Arkansas. Infatti, al momento di firmare la Costituzione, la Virginia – ma anche New York e Rhode Island – aveva ottenuto di inserire una clausola di ratifica che le consentiva di lasciare l’Unione se il governo centrale non fosse stato ai patti: non avevano combattuto contro l’oppressione fiscale inglese per ritrovarsi sottomessi a un potere analogo. Da qui la guerra. Che non fu degli Stati del Sud contro quelli del Nord, ma degli undici resisi indipendenti contro il governo federale.
Così scriveva un soldato nordista: «Stiamo combattendo per l’Unione (…). Loro stanno combattendo per l’indipendenza». Per giunta, per i primi diciotto mesi di guerra la questione della schiavitù non venne neppure presa in considerazione. Lo stesso Lincoln, tre anni prima, così si era espresso: «Non sono – né mai sono stato – in alcun modo a favore dell’uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera (…), ed io sono, come chiunque altro, favorevole ad assegnare la posizione di superiorità alla razza bianca». Anche da deputato dell’lllinois, Lincoln aveva tenuto la stessa posizione. Semmai, era un forte sostenitore del progetto di mandar via i neri emancipati in qualche colonia fuori dall’Unione. Infatti, prese seriamente in considerazione l’idea di spedirli in Liberia o ad Haiti, o in Honduras, Ecuador, Amazzonia.
Talmente sentita era la posizione costituzionale degli Stati secessionisti (riunitisi frattanto in Confederazione sotto il presidente Jefferson Davis) che le cosiddette «cinque tribù civilizzate», gli indiani Cherokee, Choctaw, Chickasaw, Creek e Seminole, si schierarono al loro fianco con tanto di dichiarazione ufficiale.
La Guerra di Secessione fu anche la prima guerra totale della storia dopo i tempi del  paganesimo antico. Per la prima volta, anche la popolazione civile divenne un obiettivo bellico. Nella New Orleans occupata, il generale nordista Butler diede di fatto, con un proclama, licenza di stupro ai suoi soldati. A Vicksburg il generale Sherman fece distruggere tutte le fattorie e requisire totalmente i raccolti. A Meridian, per cinque giorni diecimila soldati nordisti lavorarono con picconi, asce e fuoco per radere al suolo ogni casa. L’incendio totale di Atlanta lo si può ammirare nel famoso film Via col vento.
In quella guerra, per la prima volta la Scienza mise a disposizione il suo talento. Fecero la loro prima comparsa le corazzate e i sommergibili, il filo spinato, i palloni aerostatici, la mitragliatrice, i campi di concentramento. La guerra “cavalleresca” dei secoli precedenti era scomparsa per sempre, né mai più sarebbe ritornata, in un crescendo di orrori di cui ancora oggi non si vede la fine. Per questo e per le vere cause del distacco del Sud, l’assassino di Lincoln, dopo aver perpetrato l’attentato, esclamò: «Sic semper tyrannis», così sempre ai tiranni. Agli occhi dei sudisti, Lincoln non era che un oppressore.
Uno dei prodromi di quella guerra, poi celebrato come episodio-icona dell’antischiavismo, era stata l’avventura del famoso John Brown (1800-1859). Del quale il libro di Woods ci da un’immagine un po’ meno oleografica. Nell’ottobre 1859, John Brown e diciannove suoi seguaci sequestrarono l’arsenale federale di Harpers Ferry, in Virginia, allo scopo di armare gli schiavi negri e indurli all’insurrezione. Circondati dai cittadini, dalla Guardia Nazionale e dai soldati federali, i venti commandos risposero al fuoco. Dieci rimasero uccisi. John Brown e altri sei, impiccati.
Durante la successiva Guerra di Secessione nacque la famosa canzone nordista John Brown’s Body (riesumata, in italiano, negli anni Sessanta dal trio – italianissimo – Los Marcellos Ferial, quelli della più conosciuta Sei diventata nera). Eppure, il famoso scrittore Nathaniel Hawthorne (autore della celebre Lettera scarlatta) ebbe a dire che «mai nessuno fu impiccato più giustamente». Quattro anni prima, John Brown, «che era quasi certamente pazzo», aveva compiuto un efferato massacro a Potatawomie Creek in Kansas. Brown, «che si credeva investito di una missione divina: distruggere la schiavitù», con i suoi uomini attaccò cinque famiglie. Nessuna di esse possedeva schiavi ma era legata politicamente alla fazione secondo Brown «sbagliata». I capi famiglia furono trascinati fuori di casa e trucidati sotto gli occhi atterriti dei familiari.

 

Hong Kong alla scoperta della Barbagia

Fonte: http://lanuovasardegna.gelocal.it/

 

imageNUORO. Cinesi, soprattutto, ma anche tanti americani, sudafricani, giapponesi e inglesi. Più quattro sardi, un barbaricino, una quindicina di italiani in tutto. È il pubblico che venerdì sera alla Hong Kong City University ha dato il via a una serie di eventi interamente dedicati a Grazia Deledda.«La nostra scrittrice premio Nobel per la letteratura è così sbarcata ufficialmente in Asia, accolta da tanto interesse ed entusiasmo» fa sapere Ciriaco Offeddu, ingegnere nuorese classe 1948, consulente e manager, da quattro anni trapiantato nell’ex colonia inglese, dopo sedici anni passati a fare la spola, avanti e indietro tra Milano e il sud-est asiatico. «Parlare dell’Italia a Hong Kong è forse facile – racconta –, ancora di più se l’evento è tenuto nello straordinario showroom della Ferrari, circondati da automobili che sono la concretizzazione di un’aspirazione, di un’arte. Ma le foto di Nuoro antica e di Grazia Deledda, dei suoi libri e delle sue traduzioni si sono intonate magicamente all’ambiente, e il tutto ha avuto il sapore di una felice scoperta, così come doveva essere» assicura il figlio di Nannino Offeddu.

La madre, 94 anni, e una sorella vivono a Nuoro.

La città del Nobel che spesso non sa di avere un Nobel in casa. La Cina senza frontiere, invece, ha sete di conoscenza e con la Deledda vuole conoscere la Barbagia tutta. Tant’è che l’università di Hong Kong ha inaugurato, l’altro ieri, un programma culturale che coinvolge anche Macao e che andrà avanti fino al prossimo autunno, con diverse tappe intermedie, e che culminerà con una visita a Nuoro.

Professori e studenti cosmopoliti della university sbarcheranno a Nuoro, alla scoperta dei luoghi d’origine di Grazia Deledda e dei suoi romanzi. «La cultura scolpisce un sogno e lo veste di possibilità» scrive via email Ciriaco Offeddu. Lui che fa il resoconto della serata inaugurale: «La storia della nostra scrittrice, raccontata con freschezza da Angelo Paratico, è stata preceduta da una presentazione di Xu Xi, direttrice del master in Creative writing della HK City University, che ha illustrato il corso di studi e spiegato le ragioni e gli obiettivi della visita di ottobre in Sardegna».

I prossimi passi: a marzo proiezione del film Cenere interpretato da Eleonora Duse e approfondimento dell’opera di Grazia Deledda. Evento doppio, con tutta probabilità, da tenere sia a Hong Kong sia a Macao. «Per maggio poi – va avanti il manager nuorese, anche lui scrittore, autore di diversi libri – stiamo organizzando una spettacolare presentazione della Deledda che vedrà in scena la rappresentazione di alcuni atti tratti da suoi libri, sceneggiati e rappresentati da una compagnia teatrale internazionale. I brevi atti serviranno di cornice e sottolineatura a una vera e propria discussione sulla nostra scrittrice, che ci auguriamo venga arricchita dall’intervento di vari esperti sardi e italiani».

Offeddu, intanto, ha già dato il suo prezioso contributo alla scoperta del Nobel nuorese. My Grazia Deledda è il titolo del testo bilingue, in inglese e italiano, consegnato l’altra sera nello showroom della Ferrari nella metropoli asiatica. «L’abbinamento di cultura, cibi e vini sardi è stato il segreto del successo di una serata splendidamente riuscita» conclude Offeddu. (l.p.)

Scoperto un misterioso corpo celeste che sconcerta gli astronomi

Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it/

Si chiama roxs 42Bb per la sua vicinanza alla stella roxs 42B, si trova a circa 500 anni luce dal nostro Sole e rischia di sconvolgere la classificazione ufficiale dei corpi celesti. Gli astronomi, infatti, si chiedono se si tratti di un nuovo tipo di pianeta o di un raro tipo di stella mancata.

roxs 42Bb

La scoperta di roxs 42Bb sfida le conoscenze finora acquisite su come si formano i pianeti e le stelle, e sulla classificazione dei corpi celesti.

 

Si tratta di un oggetto grande circa 9 volte la massa di Giove, al di sotto del limite riconosciuto dalla maggior parte degli astronomi per marcare la differenza tra un pianeta e una nana bruna.Tuttavia, roxs 42Bb si trova ad una distanza dalla sua stella 30 volte maggiore rispetto a quella di Giove dal Sole. Ciò rende particolarmente difficile la sua classificazione, in quanto si pone a metà strada tra un pianeta e una stella.

 

Roxs 42Bb, infatti, non è abbastanza grande per essere classificato come una nana bruna, ed è troppo lontano dalla sua stella perché lo si consideri un pianeta. L’enigmatico oggetto si trova in una zona sconosciuta sullo spettro dei pianeti e delle nane brune.Tuttavia, Thayne Currie, dell’Università di Toronto e autore principale dello studio pubblicato su Arxiv, ritiene che la scoperta di roxs 42Bb possa riempire il vuoto tra le due classificazioni e stimolare nuove ricerche nella teoria sulla formazione delle stelle e dei pianeti.

 

“Abbiamo misure molto dettagliate di questo oggetto che coprono un arco di sette anni, nei quali abbiamo rilevato la sua gravità, la temperatura e la composizione molecolare. Eppure, non siamo in grado di determinare se si tratti di un pianeta o di una stella fallita”, ha ammesso Currie in un resoconto comparso sull’Astrophysical Journal Letters.

 

Ma un altro enigma avvolge roxs 42Bb: come si è formato? La maggior parte degli astronomi ritiene che i pianeti giganti gassosi, come Giove e Saturno, si formino per accrescimento di base, per cui si forma prima un nucleo solido attorno al quale poi si addensa il massiccio involucro gassoso. Questa dinamica sembra funzionare più efficacemente nelle vicinanze della stella masre a causa del tempo ridotto richiesto per la formazione del primo nucleo.

 

Un altra teoria attribuisce la formazione dei pianeti giganti gassosi all’instabilità del disco di gas che circonda una giovane stella, un processo mediante il quale una parte del disco collassa direttamente sotto la sua stessa gravità, fino a formare un pianeta. Questo processo funziona meglio più lontano dalla stella madre.

 

“E’ molto difficile capire se questo oggetto possa essersi formato come Giove”, ammette Currie. “Inoltre, ha una massa troppo bassa per essere considerato una tipica nana bruna. L’instabilità del disco potrebbe funzionare data la distanza dalla sua stella”. Il ricercatori ritiene che roxs 42Bb possa inaugurare una nuova classe di oggetti celesti: delle nane brune con massa planetaria.

 

“Questa situazione è un po’ diversa rispetto a quando si dovette decidere se Plutone fosse un pianeta”, continua Currie. “L’interrogativo era se un oggetto di massa così bassa poteva considerarsi un pianeta. Qui, la questione è se un oggetto così massiccio, eppure così lontano dalla sua stella, sia un pianeta. In caso affermativo, come si è formato?”.