CONDANNATO IL PEDIATRA DI VICENZA, MA PROMETEO DICE NO!

Fonte: http://www.massimilianofrassi.it/blog/

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Partiamo dalla notizia, che riportiamo dal Giornale di Vicenza.

CINQUE ANNI AL PEDOFILO. E’ stato condannato a cinque anni di reclusione per violenza sessuale su sei bambine, oltre all’interdizione dai pubblici uffici. A Domenico Mattiello, il pediatra di Vicenza, arrestato il 14 giugno 2011 dalla squadra mobile della questura di Vicenza in flagranza di reato, è andata meglio rispetto a quanto aveva chiesto l’accusa: otto anni. Il pediatra ha molestato sei bambine, una settima in realtà era costretta a guardare. Il medico è stato condannato anche perchè, durante una perquisizione nel suo studio e a casa gli era stato trovato del materiale pedopornografico che lui stesso aveva realizzato, filmando le sedute con i bambini. I legali del pediatra hanno annunciato che ricorreranno in appello.

Questa la notizia. Quello che segue il nostro comunicato.

“Vergognosa la condanna a soli 5 anni del pediatra vicentino” Lo dice l’associazione nazionale vittime di abuso, Prometeo.

“ Pur rispettando il lavoro della Magistratura, riteniamo a dir poco scandalosa la sentenza di condanna a soli 5 anni inflitta al medico vicentino Domenico Mattiello, reo di aver abusato di 6 bambine piccolissime e di averne obbligato una settima ad assistere ai suoi turpi giochi. Lo stesso deteneva poi materiale pedornografico. Cinque anni grazie al beneficio del rito abbreviato sono un insulto. Specialmente se si pensa che altri tipi di delinquenti, leggasi il caso Corona che tanto appassiona gli italiani a tal punto da dover aprire notiziari nazionali, ha ricevuto una condanna maggiore di questa. Diamo piena solidarietà alle famiglie delle piccole, sapendo che grazie al loro amore sapranno riportarle a quella vita che un orco, punito come fosse un ladro di auto, ha provato, inutilmente a sottrarre loro. Inoltre in vista delle prossime elezioni chiediamo ai movimenti politici di qualsiasi schieramento un preciso e inequivocabile intervento sul fronte della tutela dei minori, per evitare che i benefici di legge siano sempre verso chi delinque e mai verso chi subisce”.

L’ambiente e le tasse

Scritto da: Laura Pulici
Fonte: http://oggiscienza.wordpress.com/2013/01/29/lambiente-e-le-tasse/#more-35710

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AMBIENTE – Le tasse ambientali pagate dai Paesi dell’Unione Europea, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Eurostat, hanno raggiunto i 292 miliardi di euro, circa il 2,4% del Prodotto interno lordo comunitario. A incidere maggiormente sono le tasse sull’energia, pari al 75% del totale, seguite da quelle sui trasporti (21%) e infine dalle imposte per l’inquinamento e l’uso delle risorse (4%).

Tra i Paesi europei che pagano più tasse, in termini assoluti, ci sono la Germania, l’Italia, la Gran Bretagna e la Francia. Rapportando la tassazione ambientale al Pil, la maggior parte dei Paesi presenta un’incidenza tra il 2 e il 3%. Più alta in Danimarca, nei Paesi Bassi e in Slovenia dove le tasse sull’ambiente sono pari al 3,6-4,0% del Pil.

Confrontando il peso delle diverse tasse nei Paesi dell’Ue27 emergono notevoli differenze. I livelli più alti di tassazione dei prodotti energetici si registrano in Lituania, Repubblica Ceca e Lussemburgo, dove incidono rispettivamente del 96% e del 93% sul totale delle imposte. Mentre Danimarca, Paesi Bassi ed Estonia risultano gli unici Paesi in cui le tasse sull’inquinamento pesano più del 10%.

Il nostro Paese è allineato con la media europea: le tasse ambientali sono pari al 2,6% del Pil e sono composte per il 77% da imposte sull’energia, per il 22% da quelle sui trasporti e per l’1% da quelle sull’inquinamento.

Thor e i suoi fratelli, dalla Darpa arrivano i robot-eroi

scritto da : Antoninio Neri
Fonte: http://www.nextme.it/tecnologia/robotica/5052-robot-eroi-thor-darpa

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Entro la fine del prossimo anno i robot entreranno in azione nelle zone disastrate, e lo faranno camminando tra le macerie, su due gambe, proprio come noi umani. Rispetto all’uomo si muoveranno più lentamente e spesso saranno costretti a fermarsi, ma compenseranno queste lacune in velocità grazie ad una grande resistenza e “sacrificabilità”. Gli incendi di origine chimica, ad esempio, non possono certo bruciare i “polmoni” di un robot, ed anche un taglio con i raggi gamma non provocherà più alcun morto, perché rappresenterà solo un problema tecnico.

Questi “robot-eroi” riusciranno dove i loro colleghi hanno fallito a Fukushima, affrontando crisi che si svolgono in pessimi ambienti, con porte, scale, macerie avendo la possibilità di superare indenni innumerevoli ostacoli. Se i precedenti robot umanoidi riuscivano a malapena a scavalcare il bordo di un tappeto, questi sistemi saranno progettati per salire le scale ed entrare in veicoli autoguidati, aprire la maggior parte delle porte ed utilizzare utensili elettrici per martellare o segare quelle che non riusciranno ad aprire normalmente.

Dal momento che i disastri rovinano o addirittura mettono fuori uso le comunicazioni, i robot avranno un altissimo livello di responsabilità: ci saranno pochi sistemi teleguidati, comandati a distanza tramite joystick o guanti con sensori; questi umanoidi, infatti, riceveranno sempre ordini da utenti umani, ma utilizzeranno i loro algoritmi per decidere come afferrare correttamente un sega, dove iniziare a tagliare e per quanto tempo.

La “catastrofe” che i robot dovranno affrontare è una sorta di corsa ad ostacoli, che la D.A.R.P.A. (Defense Advanced Research Projects Agency, l’agenzia governativa americana incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare) ha costruito per RoboticsChallenge, il progetto lanciato lo scorso ottobre. La posta in gioco è un premio di 2 milioni di dollari, che verrà assegnato alla squadra il cui robot non solo avrà ottenuto i migliori punteggi nel testa a testa del dicembre scorso, ma che avrà avuto la meglio nella seconda competizione, che si terrà nel 2014. I robot dovranno svolgere otto compiti diversi, dimostrandosi abili sia in termini di mobilità che nella capacità a manipolare oggetti. Tutte abilità indispensabili per chi deve effettuare interventi d’emergenza.

Ma veniamo ai robot in questione: Charli-2 ha la faccia nera, lineamenti sottili, sembra un agente con il casco antisommossa. Il suo corpo (1,5 metri per 26,5 kg di peso) è in plastica bianca e lega, quasi interamente scoperto. Nonostante queste caratteristiche, Charli-2 si muove goffamente: testato su un piccolo campo da calcio, si muove con passi brevi e trema. Non riesce a piegarsi in vita, poiché non ha la flessibilità necessaria per passare dalla posizione eretta a quella chinata e viceversa.

Più interessante è il progetto Thor, un robot più evoluto. Anche se si tratta ancora di un work in progress, Thor ha due gambe in alluminio massiccio, il torso, le braccia, due attuatori ed una testa mai vista prima. Tutti i suoi componenti trasmettono una sensazione di grande resistenza. Questo robot è il prototipo di una macchina che sarà il definitivo THOR – Tactical Hazardous Operations Robot. Sia che il DARPA Robotics Challenge miri ad un robot ibrido frutto dei migliori componenti, la vera domanda non è se l’automa sarà pronto per la distribuzione: proprio come la Grand Urban Challenge (sempre della DARPA) ha velocizzato lo sviluppo di automobili-robot e alla fine ha portato alle Google Prius che si guidano da sole, la Robotics Challenge porterà ad un robot veramente intelligente. Dopo quella fase, bisognerà solo vedere quando e come i robot-eroi verranno impiegati stabilmente nella nostra società.

Scusa cara, ma ho ‘mal di testa’

Fonte: www.italiasalute.it/benessere/sessualita.asp?ID=11568

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Una volta erano le donne che anticipando la richiesta sessuale maschile si scusavano per un ‘forte mal di testa’, ma ora a farne le spese sono proprio gli uomini e ci si accorge che il mal di testa associato con l’attività sessuale non è certamente uno scherzo. Conosciuta già dai tempi di Ippocrate, tuttavia, questa tipologia ha iniziato a essere scientificamente considerata negli anni ‘70.
Viene definita con molti nomi: cefalea benigna sessuale (BSH), cefalea coitale benigna, cefalea coitale, orgasmica cefalea, mal di testa primaria associata ad attività sessuale (PHSA), mal di testa durante il coito ‘rombo di tuono’, cefalea a rombo di tuono primaria (PTH) , mal di testa orgasmica (OH) e mal di testa preorgasmic.
E’ una cefalea associata ad attività sessuale di origine benigna sì, ma con effetti traumatizzanti per chi ne viene colpito.
Secondo il British Journal of  Medical Practitioners, la condizione colpisce una persona su 100. Tuttavia, i ricercatori ritengono che sia più diffusa di quanto si sappia perché i pazienti, per imbarazzo, non ne parlano con il proprio medico.
Questo tipo di mal di testa si presenta come un dolore lancinante che parte dalla base del cranio e si spinge fin dietro gli occhi ed è più probabile che chi ne venga colpito soffra già di emicranie.

Le Filippine fanno shopping di armi italiane

Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/

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Nuovi affari in Asia per AgustaWestland, la società produttrice di elicotteri del gruppo Finmeccanica. La marina militare delle Filippine ha ufficializzato l’acquisto di tre velivoli leggeri lanciamissili AW109 “Power” nell’ambito del programma straordinario di rafforzamento delle forze armate per far fronte alla recente crisi politico-militare con la Cina. Per i tre velivoli e il relativo supporto logistico fornito da AgustaWestland il governo di Manila spenderà non meno di 33,6 milioni di dollari.
“L’acquisto di questi elicotteri navali è un ulteriore passo per conseguire pienamente l’obiettivo di modernizzazione della marina militare filippina e delle nostre forze armate in generale”, ha spiegato il segretario alla difesa Voltaire Gazmin. “Grazie ai nuovi programmi militari, potremo dimostrare la nostra volontà ad assicurare la sovranità dello Stato e l’integrità del territorio nazionale”. Il nuovo piano di riarmo prevede una spesa complessiva di due miliardi di dollari circa ed è stato varato dopo l’inasprimento della disputa internazionale sul gruppo di isole di Scarborough Shoal nel Mar Cinese Meridionale. La loro sovranità è rivendicata praticamente da tutte le nazioni che si affacciano su questo tratto di mare (Brunei, Malesia, Vietnam, Taiwan, Cina e Filippine), ma sono soprattutto le autorità di Manila e Pechino a contendersi le isole minacciando l’uso della forza. Le Filippine affermano in particolare che esse rientrano “all’interno della zona economica esclusiva dell’arcipelago delle Filippine”. Da qui il massiccio impegno finanziario per acquisire negli Stati Uniti e in Europa unità navali da guerra, pattugliatori costieri, cacciabombardieri e mezzi di trasporto aereo. Oltre ai tre velivoli AW109 “Power” acquistati da Finmeccanica, sarà bandita nei prossimi mesi la gara per dotare le forze aeree filippine di 10 elicotteri d’attacco da impiegare per “operazioni di supporto e sicurezza interna e delle frontiere”. In pole position per la commessa concorrerà ancora AgustaWestland più alcune aziende specializzate di Francia, Russia e Sud Africa.
Quello dei tre elicotteri navali è il primo importante affare del complesso militare industriale italiano dopo che lo scorso anno le autorità di Manila hanno rinunciato ad acquistare 12 caccia-addestratori M-346 di Alenia-Aermacchi, preferendo i velivoli TA-50 della coreana KAI. Le Filippine sono però uno dei migliori clienti asiatici dei produttori di armi italiani. Nel 2008 l’aeronautica militare ha acquistato ad esempio 18 velivoli da addestramento primario SF.260F di Alenia Aermacchi (valore 13,8 milioni di dollari), che si sono aggiunti ai Siai-Marchetti SF.260 ad elica e S.211 a getto, in servizio nel paese da alcuni anni. L’accordo sottoscritto dai manager di Alenia Aermacchi ha tuttavia assicurato ai filippini che l’assemblaggio finale dei velivoli fosse effettuato in loco dalla “Aerotech Industries Philippines Inc.”.
In vista del rafforzamento della partnership tra i due paesi nel settore dell’industria bellica, il 14 giugno 2012 il ministro della difesa Giampaolo Di Paola si è recato in visita ufficiale nella Repubblica delle Filippine per incontrare il presidente Benigno S. Aquino III e le massima autorità militari locali. Cinque mesi prima era stato il segretario della difesa Voltaire Gazmin ad essere ricevuto a Palazzo Baracchini a Roma per un vertice con lo stesso Di Paola. Da quanto trapelato a conclusione dei due incontri, Manila avrebbe espresso l’interesse di acquisire mezzi navali e aerei di produzione italiana, in particolare due fregate della classe “Maestrale” in via di dismissione dalla Marina militare (previa rimessa a nuovo da parte di Fincantieri), alcuni pattugliatori lanciamissili, gli aerei biturbina P180 “Avanti” della Piaggio, i velivoli cargo C-27J di Alenia e finanche una decina di cacciabombardieri “Eurofighter” di prima generazione che l’Aeronautica militare sarebbe intenzionata ad alienare in vista dell’arrivo dei controversi e supercostosi F-35.
“La cooperazione tra Italia e Filippine deve essere rafforzata” è l’imperativo lanciato dal ministro Di Paola preferendo ignorare che le maggiori organizzazioni non governative internazionali denunciano come il paese sia lacerato da un sanguinoso conflitto interno e che sono ancora numerosi i casi di tortura, le esecuzioni extragiudiziali e le sparizioni forzate. Le forze armate e di polizia sono impegnate a combattere gruppi di guerriglieri di estrema sinistra in alcune aree rurali e le milizie islamico radicali nelle regioni meridionali  dell’arcipelago. Nel corso delle operazioni belliche si registrano inauditi massacri della popolazione: ad esempio, il 23 novembre 2009, nella provincia meridionale di Maguindanao, sono state sequestrate e poi assassinate 57 persone, tra cui 32 giornalisti. Amnesty International ha criticato l’“assenza di giustizia” e ha chiesto al governo del presidente Aquino di fermare la proliferazione delle bande armate private al soldo dei clan locali. “Figure di primo piano del clan Ampatuan, tra cui lo stesso governatore di Maguindanao, sono sotto inchiesta per il massacro ma il procedimento giudiziario va avanti con estrema lentezza e tra mille ostacoli”, scrive l’ONG. “Nel frattempo le bande armate private continuano a operare senza freni, grazie ad un ordine esecutivo in vigore dal 2006, che autorizza la Polizia nazionale ad avvalersi di milizie e di organizzazioni civili di volontari come moltiplicatori di forza”. Nell’ottobre del 2011 sono scoppiate le ostilità tra le forze armate nazionali e il Fronte di liberazione islamica Moro (Moro Islamic Liberation Front – Milf) sull’isola meridionale di Basilan. Durante le incursioni militari, sempre secondo Amnesty, “sono stati eseguiti bombardamenti aerei e attacchi via terra, provocando lo sfollamento di almeno 30.000 civili”.
Le regioni più a sud dell’arcipelago delle Filippine sono oggi pure uno dei fronti più importanti della cosiddetta “lotta al terrorismo internazionale” lanciata dal Pentagono dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Washington ritiene che le milizie islamiche attive nella provincia di Mindanao (un gruppo di isole vicine alla Malesia e all’Indonesia) siano legate alla rete di al-Qaida. Si tratterebbe solo di qualche centinaio di combattenti, sufficienti però per poter giustificare l’escalation militare USA nella regione.
Negli ultimi dieci anni le Filippine hanno ricevuto da Washington aiuti militari per un valore complessivo di 512,22 milioni di dollari. Nel Paese opera poi una task force di 500-600 uomini provenienti dai reparti d’élite delle forze armate statunitensi. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, a fine 2012 le Filippine avrebbero offerto l’accesso nei principali scali aeroportuali agli aerei da trasporto, ai caccia e ai velivoli spia delle forze armate USA in cambio di nuove forniture di armi ed equipaggiamenti strategici (navi da guerra della classe “Hamilton”, uno squadrone di cacciabombardieri F-16 di seconda mano, ecc.).
Gli Stati Uniti supportano già da tempo le attività di sorveglianza e intelligence delle forze armate filippine con i droni schierati nell’isola di Guam, nell’Oceano indiano. Inoltre hanno dichiarato la propria disponibilità a trasferire i grandi velivoli P3C “Orion” di U.S. Navy in una base dell’arcipelago per concorrere alle operazioni di pattugliamento aeronavale nel Mar Cinese Meridionale. Per potenziare i dispositivi di “sicurezza marittima”, lo scorso anno è stato ceduto alle Filippine un vecchio pattugliatore della Guardiacoste. Un secondo pattugliatore sarà ceduto nel corso del 2013; inoltre verrà sviluppato un sistema di “sorveglianza costiera” composto da circa 20 stazioni radar e un centro di elaborazione dati a Luzon.
La partnership tra Stati Uniti e Filippine è consacrata infine dalle sempre più numerose esercitazioni militari congiunte. L’ultima di esse (“Phiblex”) risale allo scorso autunno: a largo della Cina si sono dati appuntamento per una quindicina di giorni di cannoneggiamenti aeronavali quasi tutte le unità da guerra delle Filippine più la nave d’assalto e portaelicotteri “USS Bonhomme Richard” e il sottomarino “USS Olympia” della classe Los Angeles con ben sei reattori atomici.

Si combatte in Mali, ma il vero obiettivo francese è Algeri

Fonte: http://www.libreidee.org/2013/01/si-combatte-in-mali-ma-il-vero-obiettivo-francese-e-algeri/

François-Hollande

L’appetito vien mangiando, dice il proverbio. Così, una volta «ricolonizzate» la Costa d’Avorio e la Libia, e «dopo aver tentato di accaparrarsi anche la Siria», la Francia «mira di nuovo al Mali per attaccare di spalle l’Algeria». Lo sostiene l’inviato speciale francese Thierry Meyssan, da anni in prima linea sui fronti caldi del Mediterraneo: è l’Algeria, dice Meyssan, il vero obiettivo dell’attivismo militare francese nel Mali, che resta peraltro un paese-chiave per il futuro energetico europeo: si diramano infatti nel sottosuolo maliano gli immensi giacimenti algerini di petrolio e gas, lungo frontiere di sabbia oltre le quali il Niger custodisce l’enorme riserva di uranio che alimenta le centrali nucleari della Francia. Naturalmente, per far intervenire l’esercito, la Francia ha avuto bisogno di utilizzare, sul campo, le solite pedine: i jihadisti di Al-Qaeda, reclutati dall’intelligence parigina.

Già durante l’attacco alla Libia, ricorda Meyssan in un servizio realizzato per diverse testate giornalistiche, i francesi e i britannici hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere il potere di Tripoli. Dopo la caduta di Gheddafi, Meyssan racconta di esser stato personalmente testimone di un episodio illuminante: all’hotel Corinthia, messo in sicurezza da un commando inglese giunto appositamente dall’Iraq, il Cnt libico, cioè il Consiglio Nazionale di Transizione, ha ricevuto in quella occasione i dirigenti dell’Aqmi (“Al-Qaeda nel Maghreb Islamico”), cioè i “terroristi” contro cui dichiara oggi di combattere la Francia. «Era evidente che il successivo obiettivo del colonialismo occidentale sarebbe stata l’Algeria, e che Aqmi vi avrebbe giocato un ruolo». Parigi, scrive oggi Meyssan, ha concepito uno scenario in cui la guerra penetra in Algeria attraverso il Mali.

«Poco prima della presa di Tripoli da parte della Nato – rivela il giornalista – i francesi riuscirono a corrompere e riguadagnare gruppi tuareg: ebbero il tempo di finanziarli abbondantemente e di armarli, ma era già troppo tardi perché potessero giocare un ruolo sul terreno». Una volta finita la guerra, i tuareg fecero ritorno al loro deserto, tra il Sahara centrale e i margini del Sahel, ossia un grande spazio comune tra Libia e Algeria, Mali e Niger. Tradizionalmente protetti da libici e algerini, i tuareg sono stati “abbandonati” dagli altri due paesi: per questo, sin dagli anni ‘60, non hanno mai smesso di mettere in discussione la sovranità del Mali e del Niger sulle loro terre. «Assai logicamente», dunque, i gruppi armati dalla Francia «decisero di utilizzare le loro armi per finalizzare le loro rivendicazioni in Mali», destabilizzando il paese e creando il disordine “necessario” al successivo intervento militare francese.

Così, il movimento liberazione dell’Azawad ha preso il potere in quasi tutto il Mali settentrionale, mentre un piccolo gruppo di islamisti tuareg, Ansar Dine, legato ad Aqmi, ne ha approfittato per imporre la sharìa in alcune località. Ad accentuare il caos, lo strano golpe del marzo 2012: un gruppo di militari ha rovesciato il presidente Amadou Toumani Touré, dichiarando di voler riprendere il controllo del nord del paese. Il comitato golpista, «composto da ufficiali addestratisi negli Stati Uniti», ha impedito lo svolgimento delle elezioni e ceduto il potere a un uomo di Parigi, Dioncounda Traoré. «Questo gioco di prestigio è legalizzato dal Cedeao», l’alleanza politico-militare dell’Africa occidentale, «il cui presidente è nientemeno che Alassane Ouattara, messo al potere un anno prima dall’esercito francese in Costa d’Avorio». Il maldestro golpe filo-francese, continua Meyssan, ha però accentuato la divisione del paese, disgregando anche l’esercito: le unità d’élite dell’esercito maliano, addestrate negli Usa, si sono unite alla ribellione, sotto il comando dei tuareg. Così, l’avanzata dei “ribelli” verso sud ha dato il pretesto al presidente-fantoccio Dioncounda Traoré per decretare lo stato d’emergenza e chiedere l’“aiuto fraterno” della Francia.

Il resto è cronaca: Parigi è intervenuta tempestivamente per impedire la presa della capitale, Bamako, grazie ai paracadutisti già parcheggiati in Mali, in attesa del momento buono. Difficile che l’offensiva dei “ribelli” potesse davvero minacciare la capitale, osserva Meyssan, dato che ad attaccare le periferie di Bamako – nelle formazioni di Ansar Dine – sono stati i nazionalisti tuareg, non interessati a conquistare il sud del Mali. Per far apparire politicamente accettabile il suo intervento armato, la Francia ha chiesto aiuto a molti Stati, tra cui l’Algeria, tendendo così una trappola agli algerini: «Accettare di cooperare con l’ex potenza coloniale o assumere il rischio di un riflusso degli islamisti sul proprio territorio». Dopo qualche esitazione, Algeri ha accettato di aprire il suo spazio aereo al transito francese. Ma, poco dopo, un gruppo islamista non identificato ha attaccato il grande impianto metanifero di In Amenas, della British Petroleum, nel sud dell’Algeria: il commando ha accusato Algeri di complicità con Parigi nella questione del Mali. Pesante il bilancio di sangue del blitz delle forze speciali algerine. L’obiettivo dell’azione dei terroristi? «Internazionalizzare il conflitto, portandolo in Algeria».

«La tecnica di ingerenza francese – scrive Meyssan – è una riedizione di quella adottata dall’amministrazione Bush: utilizzare gruppi islamisti per creare dei conflitti e poi intervenire e installarsi sul posto con il pretesto di risolvere quegli stessi conflitti. È per questo – continua il giornalista – che la retorica di François Hollande ricalca quella della “guerra al terrorismo”, malgrado sia stata abbandonata da Washington». Un copione invariabile, nel quale si ritrovano i protagonisti di sempre: «Il Qatar ha acquisito azioni di grandi società francesi installatesi in Mali, e l’emiro d’Ansar Dine è vicino all’Arabia Saudita». Il presidente Hollande? Un «piromane-pompiere», che veste anche i panni dell’apprendista stregone. La Francia ha deciso di rafforzare il suo dispositivo anti-terrorismo: «Parigi non teme tanto un’azione degli islamisti del Mali sul suolo francese, quanto il riflusso degli jihadisti dalla Siria». E ne ha ben donde, osserva Meyssan, visto che proprio la Dcri, l’intelligence francese, ha reclutato giovani musulmani francesi per combattere in Siria nei ranghi dell’Esl, il cosiddetto “Esercito siriano libero”. Ora, di fronte alla disfatta dell’Esl in Siria, «questi jihadisti stanno attualmente tornando al loro paese d’origine, dove potrebbero essere tentati, per solidarietà con Ansar Dine, di utilizzare le tecniche terroristiche che sono state loro insegnate in Siria».

Riciclare i mozziconi di sigarette e trasformarli in oggetti: l’idea geniale di TerraCycle

Scritto da: Walter
Fonte: http://www.soloecologia.it/10012013/riciclare-mozziconi-di-sigarette-trasformarli-oggetti-terracycle/4903

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Dei danni provocati all’ambiente dai mozziconi di sigaretta abbiamo già parlato tempo fa con dovizia di particolari. Siamo perciò felicissimi di leggere che oltreoceano qualcuno si sta muovendo seriamente per implementare processi di riciclo delle famigerate cicche, ovvero i filtri delle bionde. L’organizzazione ecologista statunitense è famosa e ha affiliati in tutto il mondo: si chiama Terracycle ed è specializzata nel ricavare articoli per la casa, l’arredamento e l’abbigliamento proprio dai rifiuti. E così, con la sponsorizzazione della Santa Fe Natural Tobacco Company, le cicche rinascono a nuova vita diventando portaceneri, bidoni per la spazzatura e un materiale simile alla plastica che potrebbe essere definito “legno finto”.

La filosofia che sta dietro l’azienda è chiamata cash for trash (soldi per i rifiuti) ed è già applicata con successo ad altri materiali e imballaggi. Li raccolgono da strade e spiagge gruppi di volontari raccolti in brigades, compensati con appositi punti, che in seguito potranno scambiare con regali e articoli commerciali. Devono raccogliere, suddividere, inscatolare e spedire i rifiuti (con affrancatura a carico del destinatario).

I mozziconi di sigarette sono solo l’ultima categoria merceologica introdotta nel processo di raccolta: prima sono venuti tappi di sughero, bottiglie in plastica, spazzolini da denti, dischi in vinile, carte di caramelle, tetrapak, tubetti di dentifricio, sacchetti per le patatine e molti altri tipi di contenitori e materiali poliaccoppiati. I prodotti di TerraCycle contribuiscono a diminuire la quantità totale di rifiuti mandati in discarica e a mantenere il mondo più pulito. Sono rivenduti online e presso importanti rivenditori come Walmart e Target.

Gas algerino, quanto ci costi: 1 miliardo di euro in più per l’Italia? Ecco perché la guerra nel Sahel/Sahara ci riguarda

Scritto da: Umberto Mazzantini
Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=19989

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Se qualcuno pensava che la guerra nel Mali e il tentativo di Al-Qaida au Maghreb islamique (Amqui) di tagliare le rotte del petrolio e del gas e di mettere le mani sulle risorse del Sahara/Sahel non ci riguardasse farebbe bene a leggere cosa scrive oggi Althesys in un rapporto seguente all’assalto di una falange islamica internazionale all’impianto algerino di In Amenas, costato la vita ad almeno 37 lavoratori petroliferi. Secondo questa importante società di consulenza strategica, «La crisi algerina potrebbe costare all’Italia un miliardo di euro in più all’anno per la fornitura di energia».

Insomma, quella che si combatte nel Sahel è la continuazione della guerra in Libia, ma mentre quella era una guerra di conquista per il petrolio e il gas voluta da Sarkozy ed alla quale ci siamo accodati per non essere messi fuori dal tavolo del banchetto che avevamo già imbandito con l’amico Gheddafi, questa è una guerra contro l’islamismo militante e militare per difendere il petrolio e il gas, anche il nostro.

Alessandro Marangoni, amministratore delegato e capo del team di ricerca di Althesys, sottolinea che «L’instabilità in Algeria riporta in primo piano la fragilità del nostro Paese nell’approvvigionamento di gas e torna lo spettro della crisi tra Russia e Ucraina del 2009.  Nonostante siano passati più di quattro anni, e i consumi di metano siano scesi sensibilmente, la strategia italiana per la fornitura di gas non è migliorata molto. Continuiamo infatti a basarci su poche infrastrutture dipendenti da Paesi ad alto rischio geopolitico: l’unica novità è il rigassificatore di Rovigo, che vale circa il 10% dei nostri consumi (coperti al 90% dalle importazioni). E se le forniture dall’Algeria dovessero scarseggiare o addirittura bloccarsi, le alternative sarebbero limitate agli altri gasdotti, con la Russia che continua a rappresentare una quota molto importante».

Quel che accade nel sempre più infuocato Sahara Sahel ci riguarda perché l’Amqi è un’evoluzione (in peggio, se possibile) del  Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, nato in Algeria dopo che con un colpo di Stato fu negata la vittoria elettorale del partito islamico. E’ dalla guerra civile algerina, dalla sua brutalità e dalle sue complicità inconfessate che nasce l’integralismo islamico militare che ha cercato di prendere il potere in Mali, infiltra i campi profughi del Polisario in Algeria e destabilizza ancora di più la Mauritania, il Niger, il Ciad, fino ad arrivare alla Nigeria. Una zona franca tra Libia e deserto algerino che rischia di rendere inaccessibili i giacimenti di petrolio e gas e uranio. E’ questo che volevano mandarci a dire i tagliagole dell’Amqi che hanno trucidato gli operai di Amenas: alla vostra guerra contro di noi risponderemo tagliando con il terrore la giugulare del vostro rifornimento di gas e petrolio.     

Gli esperti di Althesys ricordano oggi che «Le importazioni di gas algerino coprono circa un terzo dei consumi italiani, ossia il 32,6% dell’import totale pari a 22,952 miliardi di metri cubi l’anno nel 2011. Circa 8 miliardi di euro al prezzo medio sul mercato libero del gas. Qualora si dovesse verificare un’interruzione della fornitura, gli effetti sull’economia italiana e sulla bolletta sarebbero ingenti.Limitandosi ai soli effetti sulla produzione elettrica (circa il 42% da gas nel 2011) il rischio di maggior costo può essere stimato in 989 milioni di euro l’anno. Ipotizzando, infatti, di sostituire in emergenza la produzione a gas con quella a olio combustibile, come già avvenuto con la crisi del gas russo, si avrebbe un sensibile aumento del costo di produzione del chilowattora. Il calcolo si basa sull’ipotesi che la mancanza del gas algerino impatti uniformemente su tutti i settori – elettricità, industria, utenze civili – e che quindi richieda di sostituire con l’olio circa un terzo della generazione elettrica da gas. Un costo di 2,7 milioni di euro al giorno».

Però alla guerra del gas russo-ucraina sono cambiate molte cose: calo dei consumi, arrivo del fracking e dello shale gas, debutto del terminal Lng di Rovigo… ma Marangoni avverte: «La mappa dei rischi nell’approvvigionamento energetico italiano non è mutata di molto. E in futuro la situazione potrebbe addirittura peggiorare. Il progetto Galsi, il gasdotto che unisce il nord Africa alla Sardegna, aumenterà di altri 8 miliardi di metri cubi l’anno le importazioni dall’Algeria, portando così la nostra dipendenza dal 29,5% a quasi il 40%”. Nonostante i buoni propositi, la politica energetica italiana sembra ignorare un elemento chiave: il fuel risk. È necessario che anche l’Italia pensi a diversificare in breve tempo il proprio mix energetico, sia in termini di provenienza, sia di fonti».

L’impero segreto del Vaticano, costruito coi soldi di Mussolini

Fonte: http://www.articolotre.com

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-G.C.-22 gennaio 2013- Il Guardian contro il Vaticano. Certo di avere scovato i retroscena imbarazzanti dell’“impero celato” della Santa Sede, il giornale britannico ha attaccato il Papato sulle sue pagine, illustrando come sia stato in grado di costruire la propria potenza con i soldi del fascismo.

Secondo il quotidiano, grazie ai contanti versati alla Chiesa da Benito Mussolini, in cambio del riconoscimento pontificio del fascismo, datato 1929, il portafoglio della Santa Sede negli anni è accresciuto a dismisura. Il valore del fondo, da quel lontano giorno in cui furono firmati i patti Lateranensi, ammonta ora a 570 milioni di sterline.

E proprio da quel fondo fantasma, il Vaticano attinse, nel 2006, 15 milioni, per acquistare decine di locali nel centro di Londra, Parigi e in alcune città della Svizzera, investendo dunque nel mercato immobiliare.

Ciò che lascia senza parole è però il metodo che la Santa Sede avrebbe utilizzato per mantenere il segreto sui soldi fascisti e per incrementare la sua ricchezza.

Le palazzine acquistate nel Regno Unito, difatti, sono ufficialmente proprietà di una società britannica chiamata Grolux Investments Ltd. Non si sa chi ci sia realmente dietro quest’impresa, ma il Guardian è stato in grado di scoprire che due azionisti intestatari, John Varley e Robin Herbert, sarebbero, in realtà, fidati banchieri cattolici.

Interrogati dai giornalisti inglesi al riguardo, non hanno voluto assolutamente commentare la notizia, né rispondere alle molte domande sollevate.

Non per questo il quotidiano ha demorso: effettuando diverse ricerche in vecchi archivi, è riuscito a ricostruire uno spaccato di verità. La Grolux avrebbe infatti ereditato il suo intero portafoglio a seguito di una riorganizzazione, del ’99, di due società diverse, la Grolux Estates Ltd e la Cheylesmore.

Le azioni di queste, erano a loro volta detenute da una terza società, la cui sede era la stessa della banca newyorkese JP Morgan. E fin qui non ci sarebbe poi molto di strano, se non che alcuni file di guerra collegano il Vaticano a quella stessa banca.

Non solo: un documento, stilato da alcuni funzionari ministeriali nel periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale, riporta una forte critica verso il finanziere papale di quegli anni, Bernardino Nogara.

L’uomo, che controllava gli investimenti della Santa Sede, era collegato alla holding svizzera Profima SA di Losanna.

In questa, Nogara, avrebbe spostato i titoli bancari italiani, col fine di riciclarli e sfuggire a evenutali controlli. Operazioni illecite, che hanno contribuito ad accrescere il patrimonio fiscale del Vaticano.

Nel 1931, poi, Nogara fondò una società offshore in Lussemburgo, attraverso cui era in grado di controllare più attività immobilari. Quest’impresa divenne poi la Grolux. Da Lussemburgo, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, con il rischio di un’invasione tedesca, le operazioni furono quindi trasferite negli Stati Uniti e nella Svizzera, dichiaratasi neutrale e quindi non soggetta a rischi d’invasione.

Oggi, gli investimenti realizzati attraverso i fondi di Mussolini sono controllati da un funzionario papale a Roma, Paolo Mennini, il quale, altri non è che il banchiere del Papa:  il quale gestisce tutta la ricchezza della Chiesa, essendo il capo dell’unità speciale APSA “Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica”.

Un patrimonio che si aggira intorno ai 680 milioni di euro

 

 

Il Financial Times massacra Monti: “Non sei l’uomo giusto per guidare l’Italia”

Fonte: http://www.controcopertina.com/il

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Della credibilità internazionale che avrebbe ridato all’Italia, Mario Monti ha sempre fatto un cavallo di battaglia. E anche nei “comizi” di questi giorni, il senatore a vita va ripetendo che ha salvato il Paese e gli altri Stati si fidano di noi.

Ma la credibilità di Monti all’estero, in verità, non è alta come vorrebbe farci credere, se è vero come è vero che il Financial Times titola: “Monti non è l’uomo giusto a guidare l’Italia”. Scrive Wolfgand Muchau: “In Italia la crisi finanziaria si è smorzata ma la crisi economica è in crescita. A mala pena c’è un giorno senza una notizia che parli del peggioramento del credit crunch, del calo dell’occupazione, dei consumi, della produzione e della fiducia delle aziende”.

Prosegue l’articolo del FT: “Di nuovo, un governo europeo ha mal interpretato l’impatto prevedibile (sull’economia) delle misure di austerity” e il risultato è che “l’Italia fa fronte a una recessione lunga e profonda“.

E ancora: ”Monti ha promesso riforme ed è finito con l’aumentare le tasse. Il suo governo ha tentato di introdurre modestre riforme strutturali, che sono state annacquate diventando insignificanti da un punto di vista macroeconomico”.

La critica del quotidiano inglese è durissima e racconta di un disastro. Davvero un brutto colpo per lo smisurato ego del professore, che invece in patria viene coccolato come un neonato in culla.