Scritto da: Rita Pennarola
Fonte: http://www.lavocedellevoci.it/?p=3153
Come nel grande libro di Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, anche adesso tonnellate, montagne intere di libri e giornali stanno andando al macero in tutto il mondo, sostituiti senza nemmeno troppi rimpianti – e con gran respiro delle foreste – dalla comunicazione telematica.
In Italia – e solo in Italia – accanto a questo epocale fenomeno si registra però, già da qualche anno, il caso dei tanti giornalisti mandati al macero. Uomini e donne in carne e ossa, professionisti, gente spesso con i capelli bianchi, che aveva fatto il proprio dovere di servire il Paese raccontando e documentando la realtà.
A mandare al macero tutta questa gente onesta è stata la cosiddetta ‘giustizia’ italiana. Perché il nostro è l’unico Paese del mondo (compresa l’Africa) in cui siano vigenti leggi che condannano in primo grado un giornalista per presunta diffamazione in un processo definito ‘civile’, nel 90% dei casi senza che sia possibile verificare il rispetto di quella stessa legge in base alla quale si viene condannati. Veridicità del fatto, interesse pubblico della notizia e continenza nell’esposizione non bastano a scansare la condanna civile, i successivi pignoramenti e la definitiva riduzione di quella persona in stato di schiavitù.
Per questo ai tanti che come noi – che come me – in questo stato di schiavitù e in condizione di povertà assoluta sono stati ridotti da sentenze di questo genere (con giudizi d’appello che durano all’infinito e Cassazione che arriva, se arriva, quando sei già sotto tre metri di terra), dopo aver lavorato sodo per almeno tre decenni, è un gran sollievo oggi sapere che nel nostro disgraziato Paese c’è ancora qualcuno che s’interroga, almeno sul piano scientifico, a proposito delle leggi più inapplicate del mondo: quelle sulla responsabilità civile e disciplinare dei magistrati.
Il libro di Nicola Cioffi
Ma anche solo per concepire la visione immaginifica di una giustizia capace di riformare il marcio che alberga nelle sue membra, ci vuole un coraggio da leoni. Come quello che ha avuto da sempre un avvocato partenopeo, Nicola Cioffi (nella foto qui accanto), che con la sua Camera di Giustizia ha organizzato un ciclo di seminari su questi temi (vedi locandina qui sotto) ed è stato capace di portarli nel sancta sanctorum del malessere: dentro la piazza coperta del Tribunale di Napoli.
Ed è per tutto questo che, da giornalista mandata al macero, ho scritto l’introduzione al suo ultimo libro dedicato allo spinoso tema della responsabilità e irresponsabilità dei magistrati: epicentro, questo, di ogni possibile – o impossibile – salvezza per l’Italia e per tutti noi, giornalisti e cittadini.
Ne riporto qui di seguito il testo.
Qualcuno è disposto ad affermare, in piena onestà mentale, che la responsabilità di un chirurgo sia inferiore a quella di un magistrato? Risposta al cento per cento negativa: entrambe queste figure hanno il potere di decidere sulla vita degli esseri umani ed occupano pertanto il vertice della piramide sociale in fatto di potere e responsabilità.
Fin qui, tutto apparentemente condiviso. Ma solo in teoria, perché secondo la normativa italiana non esistono medici “irresponsabili” per legge: tutti, dal primo cardiochirurgo all’ultimo tirocinante, rispondono di tasca propria in tribunale per gli incidenti di percorso, siano essi causati da malfunzionamento, da negligenza o dolo. Un impianto legislativo che pone la categoria dei medici, pur con tutto il carico della sua rilevantissima funzione, esattamente alla pari con qualsiasi altro cittadino. Se sbagli potrai essere sottoposto ad un processo e, in caso di condanna, pagherai.
Esattamente il contrario di quanto accade per l’altra categoria apicale cui è affidata la vita degli esser umani: i magistrati.
«Quella del medico – sottolineano i responsabili delle principali sigle di camici bianchi in un’inchiesta apparsa sul settimanale Tempi – è una professione delicata quanto quella dei magistrati, gli unici, in Italia, a non avere responsabilità civile diretta». Costosissime, perciò, le assicurazioni obbligatorie imposte ai medici, con un pesante rischio di ritorno: «Quello che bisognerebbe chiedersi è se per la tutela della salute non valga lo stesso discorso della giustizia, perché se un medico ha paura, se evita operazioni difficili, se fa esami inutili prima di intervenire, a chi giova?».
L’ordinamento giudiziario italiano, in realtà, fin dal 1988 ha introdotto principi di responsabilità civile per i magistrati attraverso la cosiddetta legge Vassalli, varata all’indomani del referendum che vide gli italiani votare compatti per il SI’ alla responsabilità delle toghe. Norme che tuttavia, nonostante l’entusiasmo generale di allora, a quasi trent’anni di distanza restano tuttora “regolarmente” lettera morta.
Assai significativo, da questo punto di vista, l’articolo di Maurizio Tortorella pubblicato a marzo 2014 da Panorama: secondo dati ufficiali di Via Arenula, a partire dall’entrata in vigore della Vassalli, e fino a febbraio 2014, erano state proposte in tutto appena 410 cause civili nei confronti di magistrati ad opera di cittadini “vittime” di malagiustizia. Una media, quella attuale, di appena 15-16 domande ogni anno, benché continuino a proliferare, specie sui social network, associazioni, gruppi e singole persone che documentano la loro vita distrutta “per mano di legge”. «Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime – si legge nel pezzo di Panorama – sta nella complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato».
Timori tutt’altro che infondati, stando alle statistiche riportate dal giornale: «Fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di “ammissibilità” da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un’impugnazione da parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l’8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti, dopo lunghi anni dalla presentazione».
Ancor peggio se guardiamo all’esito dei pochi giudizi ritenuti ammissibili: dopo una via crucis infinita, ben 17 su 35 richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte. Accolte solo 7 sulle 410 avviate: un miserrimo 1,7%. «I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto», conclude Tortorella, descrivendo una casta che dovrebbe giudicare e punire se stessa, ma non lo fa. E resta perciò l’unica categoria umana immune da giudizi e responsabilità, tanto da sfiorare le caratteristiche del divino, manca solo l’immortalità.
Ce n’è abbastanza per comprendere come, un siffatto sistema, possa alimentare lucide follie – evidentemente già in essere, ma striscianti, in tanta parte della popolazione – che poi sfociano in stragi come quella compiuta da Claudio Giardiello al Tribunale di Milano. E a nostro sommesso parere ce ne sarebbe anche abbastanza per cominciare a scrivere un “libro nero” della magistratura italiana, tale da documentare come un simile abuso di autorità non solo non sia in grado di garantire libertà e democrazia ad un popolo, ma diventi invece un insopportabile fattore di autoritarismo dispotico e liberticida. Nessuno, nella nostra condizione umana, può e deve essere considerato apriori e per ipotesi “irresponsabile”, pena lo spettro di un regime dittatoriale, il cui esito è la perdita di vite umane. E a poco servono i confronti con Paesi come la Francia, tante volte invocati dal corporativismo delle toghe. Certo, anche Oltralpe per i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni il ricorso alle cause risarcitorie non è previsto dai regolamenti se non in casi di dolo. E tuttavia laggiù esiste un controllo della politica nel suo insieme (quindi intesa anche come polis) sulla magistratura: il che, se esercitato in maniera corretta, garantisce quell’equilibrio tra poteri – compresa la volontà popolare, espressa attraverso la polis – che risulta praticamente scomparso in Italia, dove la classe politica è tuttora sottoposta al giudizio degli elettori, mentre chi decide della loro libertà e della loro vita si giudica da sé, in un mostruoso ed autoreferenziale sistema dagli esiti sempre più catastrofici.
Giusto perciò chiedersi se continuerà un simile andazzo anche dopo la riforma del febbraio 2015, emanata in risposta alle sanzioni in arrivo dall’Europa per l’eccessiva “benevolenza” delle leggi italiane in favore delle toghe che sbagliano.
Il volume scritto da Nicola Cioffi, stenuo difensore di lungo corso delle libertà civili e dei diritti dell’uomo, prova a dare risposte a questo interrogativo, offrendo uno spiraglio a quanti, indipendentemente dalla propria collocazione politica, hanno ormai perso ogni fiducia nella possibilità di vedere riconosciuti diritti sfacciatamente calpestati.
E proprio i diritti dell’umanità, dentro e fuori le aule, sono da sempre al centro della riflessione di Nicola Cioffi, una vita vissuta nelle fila dei Radicali a caccia della possibilità di assicurare su questa terra qualcosa che almeno si avvicini al sentimento di giustizia indissolubilmente connaturato all’animo umano, nonostante tutto.
In questa direzione vanno gli anni delle Borse di studio organizzate da Nicola Cioffi attraverso la “sua” Camera europea di giustizia, insostituibile palestra di vita e di umanità per intere generazioni di giovani giuristi, luogo pressoché unico in cui si impara a bandire l’ossequio servile dinanzi al giudice, altro vizio capitale di tanta parte del nostro ordinamento forense.
Dobbiamo perciò essere grati a Nicola per questo libro sulla responsabilità civile dei magistrati, e per il ciclo di seminari ad esso connesso, ma soprattutto dobbiamo essere consapevoli che si tratta di esperienze tanto preziose quanto sempre più rare.
Per quanto sconfortanti siano le conclusioni del libro sui mali ineluttabili della giustizia italiana – a cominciare da procedimenti disciplinari che si risolvono in una farsa – fino a quando sapremo seminare il fermento vivo di giuristi come Nicola Cioffi la speranza di un mondo più uguale e meno ingiusto non morirà.
Nella foto di apertura, l’inaugurazione del ciclo di seminari a Palazzo di Giustizia il 10 settembre. Al centro Luigi de Magistris, all’estrema destra i magistrati Nunzio Fragliasso e Antonio Buonajuto.