Non solo F35: rapporto Ue sulle esportazioni di armi incompleto, in ritardo e passato sotto silenzio

Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=14083

«Ampie anomalie nei dati forniti dall’Italia»

Il Ministro della difesa Giampaolo Di Paola ha annunciato ieri che  governo si avvia ad un ridimensionamento delle spese militari, ma ha anche confermato che l’acquisto dei cacciabombardieri  F-35  «Dà e darà occupazione a 1.500 persone e sono previsti 10mila posti di lavoro, con oltre 40 imprese che contribuiscono alla crescita economica del Paese». Ma Francesco Vignarca , dell’Archivio Disarmo risponde: «Anche oggi il Ministro ha ricordato in aula i favoleggiati 10.000 posti di lavoro derivanti dalla nostra partecipazione al progetto. Un dato assolutamente irreale e smentito da valutazioni sindacale, industriali e della stessa Aeronautica Militare e che, anche se fosse confermato, evidenzierebbe solamente l’inefficienza degli investimenti militari: ogni posto di lavoro costerebbe allo Stato infatti 1,5 milioni di euro. Un’insegnante costa al massimo 50.000 euro. Ma di cosa stiamo parlando?».

Il ministro ed il governo farebbero bene anche a preoccuparsi per quel che si legge in un comunicato comune diffuso da un ampio gruppo di associazioni, reti e centri di ricerca di diversi Paesi europei, tra cui, per l’Italia, la Rete Disarmo e la Tavola della pace, che sottolinea: «La pubblicazione della “XIII Relazione annuale sul controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”, che ricopre le esportazioni per l’anno 2010, solleva diversi interrogativi sull’attendibilità dei dati forniti dai governi e sull’impegno dell’Unione europea ad operare un controllo efficace delle esportazioni di armamenti. Questa importante relazione (470 pagine di tabelle e dati) è stata pubblicata l’ultimo giorno lavorativo dell’anno (venerdì, 30 dicembre 2011) senza darne alcuna comunicazione né sul sito web del Consiglio dell’Unione europea Consilium che è responsabile della sua pubblicazione), né su quello del Parlamento europeo. Ciò sta ad indicare che questa relazione è considerata alla stregua di una mera occorrenza burocratica, piuttosto che un importante documento degno di ampio dibattito pubblico da parte dei governi degli Stati membri e delle istituzioni dell’Unione» secondo le 11 associazioni di Italia, Belgio, Francia, Finlandia, Gran Bretagna, Olanda, Spagna e Svezia . «Inoltre, otto Paesi (quasi un terzo degli Stati membri, tra cui due dei principali esportatori di armamenti al mondo, cioè Germania e Regno Unito) non hanno fornito dati completi sulle consegne di sistemi militari, rendendo così praticamente impossibile l’analisi delle esportazioni effettive di armi da parte dei paesi dell’Ue».

Il valore totale delle autorizzazioni (licences) di esportazione di armi nel 2010 è diminuito del 21% rispetto al 2009 quando avevano raggiunto un record di 40,3 miliardi di euro: nel 2010 ammontano a 31,7 miliardi di euro, una cifra vicina a quella del 2008 (33,5 miliardi di euro) che rappresenta uno dei valori più alti dall’attuazione nel 1998 di una politica comune europea sulle esportazioni di armamenti.

Le Associazioni europea spiegano che «Mentre il valore delle autorizzazioni all’esportazioni di armi verso i paesi occidentali (principalmente l’Unione europea e gli Stati Uniti) è sceso di oltre il 28%, è preoccupante  che le esportazioni di armi verso i Paesi delle economie emergenti e in via di sviluppo siano salite a 15,5 miliardi di euro, cioè a poco meno della metà del totale. Se il valore delle esportazioni di armi verso i regimi repressivi del Medio Oriente e Nord Africa è sceso rispetto ai livelli record del 2009, anche nel 2010 le autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso queste zone di forte tensione sono rimaste molto alte e superano gli 8,3 miliardi di euro»

Secondo l’articolo 15 della Posizione comune dell’Unione europea sulle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari, è prevista nel 2012 una revisione della normativa dell’Ue sulle esportazioni di armamenti. «Tale revisione può essere efficace solo se si basa su informazioni attendibili e complete e su un dibattito informato” – evidenzia il comunicato congiunto –  Come associazioni, reti e centri di ricerca da tempo attivi nel controllo delle esportazioni di armamenti, contro il commercio delle armi e nella promozione facciamo appello ai membri del Parlamento europeo per chiedere un dibattito sulla “Relazione annuale sul controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari” e un’analisi approfondita dei dati riportati e delle sue carenze».

Giorgio Beretta, analista della Rete Disarmo, che per primo ha esaminato il rapporto pubblicandone un ampio resoconto sul portale Unimondo, sottolinea che «Al riguardo va evidenziata l’ampia anomalia dei dati forniti dall’Italia. Mentre, la Relazione ufficiale della Presidenza del Consiglio sulle esportazioni di armamenti italiani per l’anno 2010 riporta come “operazioni di esportazione effettuate” un valore di circa 2.754 milioni di euro, il governo italiano ha segnalato all’Ue esportazioni effettuate per soli 615 milioni di euro. Se una minima differenza di dati tra i due rapporti può essere comprensibile, non può certo essere nell’ordine dei miliardi di euro soprattutto considerando che si tratta di consegne già effettuate nel 2010 e quindi con armamenti già passati e registrati dall’Agenzia delle Dogane».

Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, annuncia: «Nei prossimi giorni invieremo una richiesta ufficiale ai compenti uffici del ministero degli esteri per chiedere spiegazioni rispetto a queste anomalie. Ma, considerate le modifiche che il Governo si appresta a fare sulla legge 185 del 1990 che regolamenta le esportazioni militari italiane, è venuto il momento di aprire un confronto parlamentare e pubblico su tutta la materia che riguarda direttamente la politica estera e di difesa del nostro Paese».

Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace, sottolinea che «L’Europa è ormai diventata il primo esportatore mondiale di armi, contribuendo direttamente alla crescita dell’instabilità e del disordine internazionale. In un mondo che sembra ormai fuori controllo, con delle istituzioni internazionali fortemente indebolite, mentre l’Europa viene pesantemente attaccata dalla speculazione finanziaria, non possiamo permetterci di continuare a disseminare il mondo di armi italiane ed europee. L’Europa non può essere un fattore di destabilizzazione internazionale. Prima ancora di essere contro i nostri principi è contro i nostri interessi e la nostra stessa sicurezza. Chiediamo dunque al nuovo governo di agire di conseguenza».

Guerra alla Libia con settecento super bombe italiane

Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/

“Le operazioni condotte nel 2011 sui cieli libici hanno rappresentato per l’Aeronautica Militare italiana l’impegno più imponente dopo il 2° Conflitto Mondiale”.

È orgogliosissimo il Capo di Stato maggiore delle forze aeree, generale Giuseppe Bernardis. L’Italia repubblicana ha conosciuto i teatri di guerra dell’Iraq, della Somalia, del Libano, dei Balcani, dell’Afghanistan e del Pakistan, ma mai avevamo sganciato tante bombe e tanti missili aria-terra come abbiamo fatto in Libia per spodestare e consegnare alla morte l’ex alleato e socio d’affari Muammar Gheddafi. Una guerra record di cui però è meglio non andare fieri: secondo i primi dati ufficiali – ancora parziali – i nostri cacciabombardieri hanno martoriato gli obiettivi libici con 710 tra bombe e missili teleguidati. Cinquecentoventi bombe e trenta missili da crociera a lunga gittata li hanno lanciati i “Tornado” e gli AMX dell’Aeronautica; centosessanta testate gli AV8 “Harrier” della Marina militare. Conti alla mano si tratta di quasi l’80% delle armi di “precisione” a guida laser e GPS in dotazione alle forze armate. Un arsenale semi-azzerato in poco più di centottanta giorni di conflitto; il governo ha infatti autorizzato i bombardamenti solo il 25 aprile 2011 (56° anniversario della Liberazione) e la prima missione di strike in Libia è stata realizzata tre giorni dopo da due caccia “Tornado” decollati dall’aeroporto di Trapani Birgi.

“Le munizioni utilizzate dalle forze aeree italiane sono state le bombe GBU-12, GBU-16, GBU-24/EGBU-24, GBU-32, GBU-38, GBU-48 e i missili AGM-88 HARM e Storm Shadow, con una percentuale di successo superiore al 96%”, elenca diligentemente lo Stato Maggiore dell’AMI. Inutile chiedere cosa o chi sia stato colpito nel restante 4% degli attacchi dove sono state sganciate più di trenta bombe di “precisione”. Dettagliata è invece la descrizione del documento “Unified Protector: le capacità di attacco dell’AM” (6 giugno 2011) sulle caratteristiche tecniche di questi strumenti di distruzione e di morte.
“I sistemi d’arma a guida laser sono stati sviluppati negli anni ‘80 con i primi test eseguiti dalla Lockheed Martin e sono stati utilizzati nei più recenti conflitti, dalla guerra del Golfo alle operazioni sui Balcani, Iraq e Afghanistan”, scrivono i comandanti delle forze aeree. “La GBU-16 è un armamento a guida laser Paveway II, basato essenzialmente su bombe della serie MK83 da 495 Kg. Della stessa famiglia di ordigni fa parte la GBU-12 (corpo bomba MK82, 500 libbre). La GBU-24 è invece un armamento basato essenzialmente sia sul corpo di bombe della serie MK da 907 Kg. che delle bombe penetranti BLU-109 modificate con un kit per la guida laser Paveway III. Sviluppato per rispondere alle sofisticate difese aeree nemiche, scarsa visibilità e limitazioni a bassa quota, l’armamento consente lo sgancio a bassa quota e con una capacità di raggio in stand off (oltre 10 miglia) tale da ridurre le esposizioni”. Ancora più sofisticate le bombe GBU-24/EGBU-24, guidate con doppia modalità GPS e laser ed usate “per distruggere i più resistenti bunker sotterranei” e le GBU-32 JDAM (Joint Direct Attack Munition) da 1.000 e 2.000 libbre, che possono essere lanciate in qualsiasi condizioni meteo, sino a 15 miglia dagli obiettivi, “per ingaggiare più target con un singolo passaggio”.
“Lo Storm Shadow è un missile aviolanciabile con telecamera a raggi infrarossi a guida Gps che può colpire obiettivi di superficie in profondità, a prescindere dalla difesa aerea, grazie alle sue caratteristiche stealth”, recita il report dell’Aeronautica. Sviluppato a partire dal 1997 dalla ditta inglese MBDA, il vettore è lungo cinque metri, pesa 1.300 Kg, ha un raggio d’azione superiore ai 250 km e può trasportare una testata di 450 kg. “È utilizzabile contro obiettivi ben difesi come porti, bunker, siti missilistici, centri di comando e controllo, aeroporti e ponti. La carica esplosiva è infatti ottimizzata per neutralizzare strutture fisse corazzate e sotterranee”. Le coordinate del target e la rotta di volo dello Storm Shadow vengono pianificate a terra e successivamente inserite all’interno del missile durante la fase di caricamento sul velivolo. “Una volta lanciato, raggiunge l’obiettivo assegnato navigando in ogni condizione di tempo, di giorno o di notte in maniera assolutamente autonoma utilizzando gli apparati di bordo e confrontando costantemente la sua posizione con il terreno circostante”. L’altro missile aria-superficie impiegato dai caccia italiani è l’AGM-88 HARM (High-speed Anti Radiation Missile) della Raytheon Company, ad alta velocità e un raggio d’azione di 150 km, in grado di individuare e “sopprimere” i radar nemici.
Secondo il generale Bernardis, nei sette mesi di operazioni in Libia, “i velivoli dell’Aeronautica Militare italiana hanno eseguito 1.900 missioni con oltre 7.300 ore di volo, pari al 7% delle missioni complessivamente condotte dalla coalizione internazionale a guida NATO”. Attacchi e bombardamenti sono stati appannaggio dei cacciabombardieri “Tornado” versione IDS (Interdiction and Strike) del 6° Stormo di Ghedi (Brescia) e dei monoreattori italo-brasiliani AMX del 32° Stormo di Amendola (Foggia) e del 51° Stormo di Istrana (Treviso). Per la “soppressione delle difese aeree” e il controllo della no-fly zone sono stati impiegati i “Tornado” ECR (Electronic Combat Reconnaissance) del 50° Stormo di Piacenza, i cacciabombardieri F-16 del 37° Stormo di Trapani-Birgi e gli “Eurofighter 2000” del 4° Stormo di Grosseto e del 36° di Gioia del Colle (Bari). “L’AMI ha pure impiegato i velivoli da trasporto C-130 “Hercules”, i tanker KC-130J e Boeing KC-767 per il rifornimento in volo e, nelle ultime fasi del conflitto, gli aerei a pilotaggio remoto Predator B per missioni di riconoscimento”. Sui cieli libici hanno pure fatto irruzione un velivolo G.222VS “per la rilevazione e il contrasto delle emissioni elettromagnetiche” e un C-130 per quella che è stata definita dal comandante di squadra aerea, Tiziano Tosi, come una “PsyOP – Psycological Operation”, finalizzata a “influenzare a proprio vantaggio la coscienza e la volontà della popolazione interessata”.
Su Tripoli e altre città libiche sono stati lanciati centinaia di migliaia di volantini, il cui testo è stato concordato con il Comitato nazionale provvisorio di Bengasi. “La Libia è una e la sua capitale è Tripoli”, il titolo. “Vi chiediamo di unirvi tutti e prendere la decisione giusta e saggia. Unitevi alla nostra rivoluzione. Costruiamo a Libia lontano da Gheddafi. Libia unificata, libera, democratica”.
Quasi tutti i velivoli da guerra italiani sono stati schierati sulla base aerea di Trapani nell’ambito del Task Group Air Birgi, da cui dipendevano anche gli aerei senza pilota Predator B, operanti però dallo scalo pugliese di Amendola. Pisa e Pratica di Mare, gli aeroporti per le operazioni dei velivoli da trasporto o rifornimento. “Le operazioni d’intelligence, sorveglianza e ricognizione sono state effettuate grazie alla disponibilità di speciali apparecchiature elettroniche Pod Reccelite in dotazione ai “Tornado” e agli AMX”, scrive ancora lo Stato Maggiore. “Sugli oltre 1.600 target di ricognizione assegnati ai velivoli italiani, sono state realizzate più di 340.000 foto ad alta risoluzione, mentre circa 250 ore di filmati sono stati trasmessi in tempo reale dai Predator B”. Le missioni di attacco al suolo sono state pianificate e condotte “contro obiettivi militari predeterminati e definiti, o contro target dinamici nell’ambito di aree di probabile concentrazione di obiettivi nemici”. Probabile, dunque e non certa la concentrazione degli obiettivi militari. E gli effetti collaterali si confermano elemento integrante delle strategie di guerra del Terzo millennio…
I condottieri dell’Aeronautica Militare forniscono infine la percentuale delle ore di volo relative alle differenti tipologie di missione: il 38% ha riguardato pattugliamenti e “difese aeree” (DCA); il 23% attività di “sorveglianza e ricognizione” (ISR); il 14% l’attacco al suolo contro “obiettivi predeterminati” (OCA); l’8% la “neutralizzazione delle difese aeree nemiche” (SEAD); un altro 8% il rifornimento in volo (AAR); il 5% la “ricognizione armata e l’attacco a obiettivi di opportunità” (SCAR); il restante 4% “la rilevazione e il contrasto delle emissioni elettromagnetiche” (ECM). Come dire che ogni quattro velivoli decollati, uno serviva per colpire, ferire, uccidere.
Anche la Marina militare ha fornito dati numerici sull’intervento dei propri mezzi in Libia. Otto aerei a decollo verticale AV8 B Plus “Harrier”, stazionati sulla portaerei “Garibaldi”, hanno effettuato missioni di interdizione ed attacco per complessive 1.223 ore, utilizzando i missili aria-aria a guida infrarossa AIM-9L “Sidewinder”, quelli a medio raggio a guida laser “AMRAAM”, gli aria-terra “Maverick” e le bombe del tipo Mk82 ed Mk20. Una trentina gli elicotteri EH-101, SH-3D ed AB-212 assegnati ad Unified Protector, per complessive 3.311 ore di volo. Tremila e cinquecento gli uomini e le donne imbarcati su due sottomarini (“Todaro” e “Gazzana”) e quattordici unità navali (tre delle quali, “Etna”, “Garibaldi” e “San Giusto”, utilizzate in periodi diversi come sedi del Comando per le operazioni marittime NATO).
Come sen non bastasse, i vertici delle forze armate fanno sapere che l’80% circa delle missioni aeree alleate sono partite da sette basi italiane (Amendola, Aviano, Decimomannu, Gioia del Colle, Pantelleria, Sigonella e Trapani Birgi). “In questi aeroporti, l’Aeronautica Militare ha assicurato il supporto tecnico e logistico, sia per gli aerei italiani sia per i circa 200 aerei di undici paesi della Coalizione internazionale (Canada, Danimarca, Emirati Arabi Uniti, Francia, Giordania, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Turchia), schierati sul territorio nazionale. In sostanza, il personale e i mezzi della forza armata sono stati impegnati in maniera continuativa per fornire l’assistenza a terra, il rifornimento di carburante, il controllo del traffico aereo, l’alloggiamento del personale, ecc.”.
Piattaforma avanzata per il 14% di tutte le sortite aeree di Unified Protector lo scalo siciliano di Trapani, da cui sono transitati pure 300 aerei cargo e circa 2.000 tonnellate di materiale. Dalla Forward Operating Base (FOB) di Birgi, uno dei quattro centri di cui dispone la NATO nello scacchiere europeo, hanno operato anche gli aerei radar AWACS, “assetti essenziali alle moderne operazioni aeree per garantire una efficace capacità di comando e controllo”. Lo Stato Maggiore AMI ricorda infine “l’importante supporto di personale specializzato nel campo della pianificazione operativa offerto ai vari livelli della catena di comando e controllo NATO, attivata in tutta Italia”, all’interno del Joint Force Command di Napoli e del Combined Air Operation Center 5 di Poggio Renatico (Ferrara).
No comment invece sul costo finanziario sostenuto per le tremila missioni e le oltre 11.800 ore di volo dei velivoli italiani impiegati nella guerra alla Libia. Possibile però azzardare una stima di massima tenendo conto delle spese per ogni ora di missione dei cacciabombardieri (secondo Il Sole 24Ore, 66.500 euro per l’“Eurofigher 2000”, 32.000 per il “Tornado”, 19.000 per l’F-16, 11.500 per il C-130 “Hercules” e 10.000 per l’“Harrier”). Prendendo come media un valore di 20.000 euro e moltiplicato per il numero complessivo di ore volate, si raggiunge la spesa di 236.220.000 euro. Vanno poi aggiunti i costi delle armi di “precisione” impiegate (dai 30 ai 50.000 euro per le bombe a guida laser e Gps, dai 150.000 ai 300.000 per i missili “intelligenti”). Limitandosi ad un valore medio unitario di 40.000 euro, per le 710 munizioni sganciate sul territorio libico il contribuente italiano avrebbe speso non meno di 28.400.000 euro. Così, solo per “accecare” radar, intercettare convogli e bombardare a destra e manca abbiamo sperperato non meno di 260 milioni. Fortuna che c’era la crisi.

IL REGNO DEL RE DEL MONDO

Scritto da: Carlo Barbera
Fonte: http://www.strangedays.it/MisterinelPassato/RedelMondo.html

Secondo l’ipotesi di vari ricercatori, l’origine del fenomeno ufologico potrebbe non essere solo extraterrestre ma, almeno una buona parte dei mezzi a propulsione antigravitazionale  che si manifestano nei cieli del nostro pianeta, potrebbero provenire proprio dalla Terra, non dalla superficie ma dal suo interno, dalla grande cavità che si ritiene sede del grande continente di Agartha e dall’immensa rete di tunnel e gallerie che percorrono il sottosuolo del pianeta creando una vera e propria rete di comunicazione tra l’interno e l’esterno della Terra.

Il popolo abitante del continente interno di Agartha, qualsiasi sia la sua origine e provenienza, potrebbe utilizzare dischi volanti per spostarsi nella rete di tunnel e occasionalmente apparire nei nostri cieli.
Questa teoria offrirebbe, forse non completamente, una curiosa soluzione dell’enigma degli UFO su cui l’umanità si è interrogata negli ultimi decenni.
Essa darebbe ragione dell’ipotesi del contemporaneo ricercatore ed autore di numerosi best-sellers Erich Von Daniken, secondo cui i fondatori del regno di Agartha giunsero originariamente dallo spazio; nonché dei “veicoli misteriosi e sconosciuti, utilizzati dalla gente di Agartha, che sfrecciano attraverso gli angusti passaggi all’interno del nostro pianeta” di cui parla Ferdynand Ossendowski, (1876-1944) geologo russo dalla vita avventurosa, , nel suo “Bestie, Uomini e Dei” scritto del 1923, che si spinse nelle regioni della Mongolia entrando in contatto con i miti della terra di Agartha e del suo leggendario sovrano; oppure degli avvistamenti nel cielo della Mongolia narrati da Nikolay Roerich, filosofo, pittore, archeologo e mistico (1874-1947), che compì esplorazioni in India, Mongolia, Tibet e sull’Himalaya.
Nel suo libro “Heart of Asia”, del 1928, Roerich racconta: Notiamo qualcosa di lucente, che vola molto alto da nord-est a sud. Prendiamo nelle tende tre potenti binocoli e osserviamo l’enorme sferoide che brilla ai raggi del sole, visibile chiaramente sullo sfondo azzurro del cielo, mentre si muove a grande velocità. Poco dopo notiamo che cambia bruscamente direzione volando da sud a sud-ovest, e scmpare dietro i picchi innevati della Catena di Humboldt. L’intero campo segue l’insolita apparizione e i Lama bisbigliano: “Il Segno di Shamballah”. Nessun aeromobile di quella forma, grandezza manovrabilità  e velocità era stato inventato nel 1928.

L’uomo che per primo avanzò l’ipotesi che gli UFO provenissero da un luogo molto più vicino a noi, vale a dire dall’interno dello stesso pianeta Terra, fu il professore brasiliano, Henrique Josè de Souza.
De Souza, che visse a Sao Laurenco e fu presidente della Società Teosofica Brasiliana, sviluppò la sua teoria insieme ad un amico, il comandante Paulo Strauss, membro della Marina Brasiliana. Le loro tesi furono pubblicate per la prima volta in una serie di articoli apparsi nella rivista brasiliana “O Cruzeiro”, nel Febbraio 1955. In tre numeri della rivista, il professor de Souza e il comandante Strauss sostennero che, mentre era evidente che nessuna nazione del mondo aveva costruito i dischi volanti, certamente non i Russi né gli Americani che avrebbero  tratto grandi vantaggi dalla propaganda di simile invenzione, era altrettanto chiaro, in base ai dati raccolti dalla ricerca spaziale, che pareva inconcepibile che simili veicoli provenissero da lontani pianeti. Secondo de Souza e Strauss restava solamente la possibilità che gli UFO provenissero dalla stessa Terra, o meglio, dall’interno del pianeta.
De Souza, nella veste di leader dei Teosofi Brasiliani, si era interessato per anni alla leggenda di Agartha, e mentre rifletteva sul regno sotterraneo e la sua rete di gallerie – e su come qualcuno potesse servirsene  senza disporre di adeguati mezzi di trasporto -, si convinse che i dischi volanti appartenessero ad una civiltà avanzata: se erano in grado di vivere e prosperare sotto terra potevano aver sviluppato mezzi di trasporto molto più sofisticati di quelli concepiti dalla civiltà della superficie del pianeta.

Nel 1957, le conclusioni di de Souza e Strauss furono esaminate da O.C.Huguenin nel suo libro “From the Subterranean World to the Sy: Flying Saucers. Dopo aver dichiarato che “l’ipotesi dell’origine extraterrestre dei dischi volanti non sembra accettabile”, Huguenin affermava:
“Dobbiamo prendere in considerazione la più recente e interessante teoria proposta come spiegazione dell’origine dei dischi volanti: l’esistenza di un grande Mondo Sotterraneo con innumerevoli città in cui vivono milioni di persone. Questa umanità separata da quella di superficie ha raggiunto un alto gradi di civiltà, di organizzazione economica e sociale, di sviluppo spirituale e culturale, unitamente a uno straordinario progresso scientifico, a paragone del quale l’umanità che vive sulla superficie della Terra, può essere considerata barbara. Stando alle informazioni fornite dal comandante Paulo Strass, il Mondo Sotterraneo non si limita a caverne, ma è molto più esteso, occupando un’enorme cavità nel cuore della Terra, abbastanza ampia da contenere città e campi, dove vivono esseri umani e animali, il cui aspetto fisico è simile a quelli della superficie”.
Huguenin racconta poi che questo popolo, molto più progredito del resto dell’umanità per quanto attiene allo sviluppo scientifico, costruì macchine chiamate Vimana, che “volavano nei cieli e nei tunnel come aeroplani, utilizzando una forma di energia ottenuta direttamente dall’atmosfera”. Poi aggiunge: “Sono identici a quelli che noi chiamiamo dischi volanti”. E ancora: “Prima della catastrofe che distrusse il loro continente, gli Atlantidi crearono rifugi nel Mondo Sotterraneo, che raggiunsero a bordo dei loro Vimana, o dischi volanti. Da allora i dischi volanti sono rimasti all’interno della Terra, ed essi se ne servono per spostarsi da un luogo all’altro”.

Dal 1957 in poi, questa teoria è stata sostenuta in molte altre occasioni. Per esempio dall’Americano Ray Palmer, che nel 1959 ebbe a dichiarare: “Un’enorme quantità di prove indica che vi è un luogo sconosciuto di enormi dimensioni sotto la superficie da dove forse provengono i dischi volanti”. Raymond Bernard, scrittore ricercatore e noto sostenitore della teoria della Terra Cava, era convinto che gli UFO provenienti da Agartha potessero utilizzare una forza di propulsione antigravitazionale chiamata Energia Vril: “La tragica morte e scomparsa del capitano Mantell, che inseguì un disco volante finché quest’ultimo perse la pazienza e lo fece svanire disintegrandolo, starebbe a indicare che quella razza padroneggia una forma di energia superiore, che Bulwer Lytton chiamò “Vril”, che aziona i loro velivoli; essi se ne servono a fini distruttivi quando sono costretti a farlo per autodifesa”.

Un grande numero di indicazioni, come le misteriose luci verdi viste all’interno di gallerie e di caverne, misteriosi rombi e rullii di tamburi uditi provenire dalle profondità della terra, la probabilità geologica di cavità abitabili sotto la superficie del pianeta, i mezzi occorrenti per realizzare un’imponente rete di tunnel sotterranei, lo sviluppo scientifico indispensabile alla costruzione di veicoli avanzati per spostarsi nel mondo interno, e gli innumerevoli resoconti, le leggende e le tradizioni presenti presso tutti i popoli della Terra, lasciano supporre la realtà del mondo sotterraneo di Agartha e che da qualche parte, sotto l’altopiano del Tibet  si trovi il centro di questo antichissimo impero.
Rimane un mistero l’identità e l’origine del popolo che lo abita e lo mantiene in vita da millenni.
Forse i superstiti della perduta civiltà di Atlantide, i popoli di una cultura antidiluviana o forse esseri extraterrestri appartenenti ad una civiltà stellare multietnica e multidimensionale.
Come rimane un mistero la tradizione secondo cui il mondo sotterraneo sia governato da un onnipotente “Re del Mondo” .

Ossendowski, Roerich ed altri si sono occupati di questo misterioso personaggio, ciascuno all’insaputa dell’altro, descrivendolo come “la luce che guida il mondo”, un uomo buono e di grande saggezza, capace di dirigere la vita e di ispirare i più alti ideali e le vere tradizioni religiose dell’umanità.
Forse, fra tutti i racconti, il più accettabile è quello di Ferdinand Ossendowski, che nel suo “Bestie, Uomini e Dei” riferisce che un vecchio lama Tibetano gli parlò della visita del “Re del Mondo” a una lamaseria di Lhasa.
Una notte d’inverno diversi cavalieri entrarono nel monastero e ordinarono che tutti i Lama si radunassero nella sala del trono. Poi uno degli stranieri salì sul trono e si tolse il bashlyk, o copricapo, che gli nascondeva il volto. Tutti i lama si inginocchiarono perché avevano riconosciuto l’uomo che era stato descritto tanto tempo prima nei documenti del Dalai Lama, del Tashi Lama e di Bogdo Khan. Era l’uomo cui appartiene il mondo intero e che ha penetrato tutti i misteri della Natura. Pronunciò una breve preghiera tibetana, benedisse gli astanti e quindi fece predizioni che riguardavano il prossimo mezzo secolo. Ciò accadde trent’anni fa, e nel frattempo tutte le sue profezie si sono avverate.
Mentre pregava davanti al piccolo altare, un’enorme porta rossa si aprì da sola, le candele e le lampade davanti all’altare si accesero, e dai sacri bracieri, senza che nessuno li avesse alimentati, si alzarono volute d’incenso che riempirono la sala. Allora, senza aggiungere altro, il Re del Mondo e i suoi compagni scomparvero alla nostra vista, salvo le pieghe nel rivestimento di seta del trono, che si spianarono da sole, come se non vi si fosse seduto nessuno”.

Secondo il vecchio Lama il “Re del Mondo” aveva pronunciato le sue profezie trent’anni prima; considerando che il libro di Ossendowski fu pubblicato nel 1923, si può quindi desumere tale avvenimento accadde all’incirca negli ultimi decenni del 1800.

La profezia del “Re del Mondo”

Secondo il racconto del Lama ad Ossendowski, questa fu la profezia pronunciata dal “Re del Mondo”:
Sempre più popoli dimenticheranno la loro anima e si preoccuperanno solo del corpo. I più grandi peccati e la corruzione regneranno sulla terra. Le persone si trasformeranno in bestie feroci, assetate di sangue e bramose della morte dei propri fratelli. La “Mezzaluna” diverrà oscura e i suoi seguaci cadranno in miseria e si impegneranno in guerre senza fine. I conquistatori saranno visitati due volte dalla più grande sventura. […] Le corone dei re, grandi e piccoli, cadranno […] Ci sarà una terribile lotta fra tutti i popoli. I mari diverranno rossi di sangue […] la terra e il fondo dei mari si ricopriranno di ossa […] regni verranno spazzati via […] interi popoli periranno […] fame, malattie, crimini ignoti alla stessa legge e mai visti prima, dilagheranno nel mondo. […] Anche coloro che tenderanno la mano al prossimo periranno. I dimenticati e i perseguitati insorgeranno e attireranno su di sé l’attenzione del mondo intero. […]  Milioni di uomini si libereranno dai ceppi della schiavitù e dell’umiliazione solo per andare incontro a fame, malattie e morte. Le antiche strade si copriranno di folle erranti da un luogo all’altro. […] Verità e amore scompariranno. Allora io invierò un popolo ora sconosciuto che con mani forti estirperà la malerba della follia e del vizio e guiderà coloro che saranno rimasti fedeli allo spirito dell’uomo nella lotta contro il male. Getteranno le basi di una nuova vita sulla terra purificata dalla distruzione delle nazioni. Nel cinquantesimo anno faranno la loro comparsa tre soli regni, che dureranno per settantuno anni felici. Poi vi saranno altri diciotto anni di guerra e distruzione. Allora le genti di Agartha lasceranno le caverne sotterranee e appariranno sulla superficie della Terra”.
Guerre mondiali, l’ascesa e il declino degli imperi, l’inesorabile degenerazione dell’umanità.
Giusto è lasciare alla libera interpretazione del lettore la visione del Re. Le osservazioni finali, riportate da Ossendowski , sulla necessità che il popolo sotterraneo intervenga per salvare il mondo che pare condannato, sono forse le più adatte per concludere questo articolo.
Alcuni credono che sia precisamente questo il compito che, da epoche immemorabili, il popolo di Agartha attende di compiere nella sua fortezza sotterranea.

Denaro, chi tocca muore: quando Kennedy silurò la Fed

Fonte: http://www.libreidee.org/2012/01/denaro-chi-tocca-muore-quando-kennedy-siluro-la-fed/

Chi tocca, muore: il denaro devono continuare a stamparlo banche private, che poi lo prestano agli Stati ricavando lauti interessi, in base alla pratica inaugurata secoli fa dalla Banca d’Inghilterra. Secondo alcuni analisti, quello dei politici che hanno provato a strappare alle banche l’esclusiva sull’emissione di moneta è ormai un affollato cimitero. Per Marco Seba, membro dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata di Ginevra, sono addirittura sette i presidenti americani a cui la questione monetaria sarebbe costata la pelle: Lincoln, Garfield e McKinley uccisi con armi da fuoco, mentre Harrison, Taylor e lo stesso Roosevelt sarebbero stati avvelenati, come sostiene un investigatore di Chicago, Sherman Skolnick. Ma il caso più clamoroso è quello di John Fitzgerald Kennedy, fatto assassinare (dalla mafia?) dopo aver esautorato, di fatto, la Federal Reserve, con un provvedimento da allora rimasto lettera morta: dollari emessi direttamente dallo Stato.

Ne parla diffusamente Enrica Perucchietti nel libro-indagine “L’altra faccia di Obama”, che scava nell’imbarazzante biografia del presidente-rockstar che, dopo l’incubo dell’era Bush, doveva restituire speranza all’America e al mondo: dietro alla sua campagna elettorale c’è il denaro della peggiore “casta americana”, quella del Bilderberg e delle lobby di Wall Street. La grande finanza onnipotente, cinica e spietata, che decreta l’immensa fortuna di minuscole élites e la rovina di interi popoli. Come dire che Barack Obama è davvero l’ultimo uomo al mondo in grado di poter indossare i panni di Robin Hood, che tanto aveva sbandierato nella sua spettacolare campagna elettorale. I suoi “padroni” occulti, i suoi veri “azionisti”, hanno in mente ben altro che la ridistribuzione della ricchezza. Prima ci sono amici banchieri, monopolisti e multinazionali; ci sono truffatori da salvare e bancarottieri da graziare. Nessuna speranza di veder democratizzato lo strumento di potere principale: il denaro.

E’ il 12 novembre 1963 quando il presidente Kennedy, alla Columbia University, denuncia esplicitamente un complotto che coinvolge la Casa Bianca e rischia di porre fine alla libertà del popolo americano. Kennedy annuncia che i colpevoli saranno smascherati, ma esattamente dieci giorni dopo, a Dallas, muore nell’attentato sul quale ancora oggi, mezzo secolo dopo, l’America non dispone di una esauriente verità giudiziaria. Secondo Enrica Perucchietti, doveva avere avuto un effetto sconvolgente il famoso decreto presidenziale numero 11110 firmato da Kennedy qualche mese prima, il 4 giugno: «Con un colpo di penna – scrive l’autrice de “L’altra faccia di Obama” – il presidente Kennedy decretò che la Federal Reserve, di proprietà di privati, sarebbe presto fallita». Il capo della Casa Bianca autorizzò infatti il Tesoro ad emettere dollari a costo zero, basati sulla riserva statale in lingotti d’argento.

«Sembra ovvio che il presidente Kennedy sapesse che l’uso delle banconote della Federal Reserve come presunta valuta legale fosse contrario alla Costituzione degli Stati Uniti», osserva l’autrice: «Jfk aveva inoltre previsto che le nuove banconote emesse direttamente dal governo in base alle riserve argentee si sarebbero diffuse e avrebbero progressivamente eliminato dalla circolazione la richiesta di banconote emesse dalla Fed», che le cedeva allo Stato dietro il pagamento di un interesse su ogni dollaro stampato. Era dunque il signoraggio bancario il “complotto” di cui parlò Kennedy poco prima di venire ucciso? Negli ultimi due secoli, aggiunge Enrica Perucchietti, il signoraggio ha messo in allarme politici e intellettuali: «Se mai gli americani consentiranno a banche private di emettere il proprio denaro – ammoniva profeticamente Thomas Jefferson – le banche e le grandi imprese priveranno la gente delle proprietà di ciascuno, finché i figli di sveglieranno senza tetto nel continente conquistato dai loro padri».

Il potere di emissione della valuta, insisteva Jefferson, «va tolto alle banche e restituito al popolo, al quale appartiene». All’epoca della fatale introduzione dell’euro, emesso dalla Bce che lo presta a caro prezzo agli Stati europei, proprio il “denaro del popolo” è stato l’obiettivo della crociata del giurista italiano Giacinto Auriti, giunto a denunciare la Banca d’Italia in nome della sovranità popolare monetaria. Fu dunque la battaglia per “restituire il denaro al popolo” a costare la vita a Kennedy? Sicuramente, sostiene Enrica Perucchietti, la politica monetaria di Jfk fu un concorso di pena per i tiranni dell’élite finanziaria. Ancora non sappiamo quale fu la scintilla della ribellione che spinse il presidente americano a rivelare al mondo, a mezzo stampa, «il piano occulto di un governo segreto che mirava – e mira tuttora, più che mai – a comandare l’intero pianeta».

Così era cinquant’anni fa, ma pure ai tempi di Roosevelt, che vent’anni prima dichiarò: «La verità è che elementi della finanza sono proprietari del governo nei suoi cardini principali, sin dai giorni di Andrew Jackson». Proprio quel Jackson che definiva «covo di vipere» il santuario dei banchieri. L’Occidente è in preda a una crisi mai vista e ormai sta per esplodere: «Solo, non sappiamo quando e come avverrà la deflagrazione, e con quale potenza: ma la rivolta, quella vera, non è concessa». Barack Obama? Puro teatrino della speranza, buono solo per il marketing elettorale organizzato direttamente da Wall Street. No, la rivolta non ci è concessa: il solo crederlo «basta per condannarci alla schiavitù». Banche, denaro, finanza: «E’ un bene che il popolo non comprenda il funzionamento del nostro sistema bancario e monetario», dirà con cinismo un altro presidente americano, Henry Ford: «Perché, se accadesse, credo che scoppierebbe una rivoluzione prima di domani mattina».

(Il libro: Enrica Perucchietti, “L’altra faccia di Obama – ombre dal passato e promesse disattese”, Uno Editori, 467 pagine, euro 18,50).

LA TYMOSHENKO PAGA PERCHE’ VUOLE L’UCRAINA INDIPENDENTE

Scritto da: Stefano Magni
Fonte:  http://www.lindipendenza.com/la-tymoshenko-paga-perche-vuole-lucraina-indipendente/

Yulia Tymoshenko rischiava di lasciarci la pelle, nel carcere di Kachanivsky, Kharkov, Ucraina orientale. Malata da mesi, con dolori alla schiena e difficoltà respiratorie, ha rischiato di essere uccisa da alcune medicine passatele dalle autorità carcerarie e poi dal ritardo dei soccorsi. Avvelenamento? Forse, ma basta l’incuria per mandare all’altro mondo una persona. La Tyomoshenko è una sorvegliata speciale: una telecamera la fissa 24 ore su 24. Ma per “accorgersi” che stava morendo, in seguito all’assunzione dei medicinali, la sua compagna di cella ha dovuto prendere a pugni la porta per farsi sentire dalle guardie. I soccorsi sono arrivati solo dopo più di 20 minuti. E’ questa la ricostruzione che è stata fatta dall’avvocato della ex premier ucraina, Serhy Vlasenko. Secondo Oleksandr Turchynov, braccio destro della Tymoshenko nel movimento Opposizione Democratica, si è trattato di un tentativo di avvelenamento. E’ dello stesso parere anche il marito di Yulia, Oleksandr Tymoshenko, esule a Praga, dove ha ottenuto l’asilo politico la settimana scorsa.

La Tymoshenko è stata condannata a sette anni di carcere per “abuso di potere”, dopo un processo in cui ha avuto ben poca possibilità di difendersi. Per gli europei occidentali e gli americani, è diventata un “caso umano”. Se dovesse passare altri anni in carcere e attrarre la simpatia di qualche star del pop, come Bono degli U2, potrebbe diventare una celebrità dissidente come Aung San Suu Kyi. E sarebbe la sua disgrazia. Perché dei casi umani non sappiamo che farcene. Servono agli intellettuali per farsi vedere sensibili ai problemi di mondi lontani, ai Vip che vogliono mostrarsi altruisti, alle Ong che campano sulle sfortune altrui. E in tutto questo baraccone, si perdono gli elementi essenziali: le idee del dissidente incarcerato, la possibilità di scegliere da che parte stare.

L’idea di Yulia Tymoshenko è una sola ed è bene ricordarla: l’indipendenza dell’Ucraina.

Il Paese è già indipendente, ufficialmente, dal 24 agosto 1991. Aveva passato un periodo terribile sotto il regime di Mosca: dai cinque milioni di morti della carestia scientemente provocata da Stalin, al numero tuttora sconosciuto di vittime dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl. Staccandosi dalla casa madre, gli ucraini avevano ben poco da rimpiangere. Ma i sovietici avevano fatto le cose per bene, al fine di tenersi le proprie province periferiche: da Stalin in avanti hanno creato un sistema detto di “interdipendenza” (che in realtà va letta come: dipendenza) per cui una provincia non può mai sganciarsi dal centro senza perdere gran parte della sua capacità produttiva. La Russia si presenta, anche sul piano formale, come la repubblica “erede” dell’Urss. E non ha perso il vizio di controllare gli affari dei Paesi ex sovietici. L’Ucraina è doppiamente vincolata. Dal suo territorio passano i gasdotti che vanno a rifornire l’Europa. Se Mosca deve esercitare pressioni su Kiev (sui prezzi, sulle basi militari, sulla politica, o altre ragioni), le basta chiude il rubinetto. Ed è l’Unione Europea che, trovandosi al freddo, protesta… contro Kiev, l’anello più debole della catena. Mosca non si accontenta di un’obbedienza economica. Vuole preservare la sua presenza politica nell’ex provincia sovietica. Fino al 2003 si sono alternati alla presidenza del Paese dei brontosauri post-sovietici approvati dal Cremlino: Leonid Kravchuk, poi Leonid Kuchma. Leader con una testa rivolta al passato, fedeli all’alleanza col Cremlino, per nulla riformatori. E anche estremamente corrotti. Kuchma è tuttora sospettato di aver fatto assassinare il giornalista Georgy Gongadze, che indagava su traffici illegali di armi.

Yulia Tymoshenko ha, quantomeno, tentato di spezzare questa consuetudine. Dopo le elezioni del 2003, che avrebbero dato la vittoria (fraudolenta) al terzo brontosauro post-sovietico, Viktor Yanukovich, ha guidato la Rivoluzione Arancione. Benché la leadership politica del movimento fosse nelle mani del candidato presidente Viktor Yushchenko, era la Tymoshenko la vera animatrice della rivoluzione. Senza sparare un solo colpo, i rivoluzionari hanno vinto all’inizio del 2004. Yushchenko ha trionfato nelle elezioni.

E della rivoluzione non se ne è fatto nulla. Dopo sei anni di lacerazioni interne alla sua maggioranza, l’esperimento è fallito. Complice la pressione russa da un lato e l’indifferenza europea dall’altra, oggi, al potere, c’è quello stesso Yanukovich che aveva perso la rivoluzione. Uno per uno, tutti i membri dell’ultimo governo Tymoshenko, premier per prima, stanno passando sotto le forche caudine della magistratura. L’Ucraina è oggi più realista del re: persino le figure storiche dell’indipendentismo, Stepan Bandera (1909-1959) e Roman Shukhevych (1907-1950), sono state private del loro simbolico status di eroi nazionali.

All’Unione Europea, che a volte emette sterili proteste sulle condizioni carcerarie della Tyomoshenko, tutto sommato sta bene che le cose siano andate in questo modo. Come ha ben dimostrato, forte dei suoi documenti, il dissidente sovietico Vladimir Bukovskij (nel suo “Eurss”), nessun leader europeo, da Mitterrand ad Andreotti, avrebbe voluto la dissoluzione dell’impero sovietico. E tuttora c’è da scommettere che i leader europei che contano, come Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, preferiscano trattare con una sola capitale, Mosca, piuttosto che con tante nuove voci.

I BEATI PAOLI

Fonte: http://www.tanogabo.it/beati_paoli.htm

La società segreta dei Beati Paoli, il cui ricordo ancor oggi è mantenuto vivo da una costante tradizione orale, è nata, secondo il marchese di Villabianca, dallo strapotere e dai soprusi dei nobili che amministravano direttamente anche la giustizia criminale nei loro Stati e, molto spesso, si servivano di bravacci per risolvere, alla svelta, quei casi che per ragioni di opportunità o di prudenza consigliavano di non far ufficialmente decidere alle loro Corti.
I membri di questa setta Furono giustizieri o sicari?
Certamente l’uno e l’altro contemporaneamente. Giustizieri, quando operarono per vendicare delitti impuniti ed impedire soprusi; sicari, quando invece si prestarono ad eseguire vendette personali o allorché si servirono dell’alone di mistero che li circondava e dell’indubbio favore popolare per compiere delitti comuni. Dalle scarse fonti a nostra disposizione non possiamo fornire notizie per documentare attendibilmente il loro operato, in ogni modo possiamo affermare che questa setta sicuramente esistette, e costituì un vero e proprio tribunale di giustizia, protettrice dei deboli e degli oppressi. La setta agiva nell’ombra e nella massima segretezza per proteggere i deboli e gli oppressi utilizzando un vero e proprio tribunale. Solo il Marchese di Villabianca nei suoi ” Opuscoli palermitani” cita la setta segreta con il suo tribunale e i luoghi dove agiva. In questi diari hanno attinto diversi autori tra cui il Linares ed il Natoli.
Quest’ultimo scrisse tra il 1909 e 1910 un romanzo d’appendice che era regalato dal Giornale di Sicilia ai propri lettori.


Il Tribunale dei Beati Paoli.
In prossimità della Chiesa di S. Maruzza, all’interno del palazzo Baldi – Blandano, con ingresso nel vicolo degli orfani, è stata ritrovata, come indicavano documenti e testimonianza, la grotta dove la setta, degli incappucciati neri, detta dei Beati Paoli, aveva stabilito il proprio tribunale. Il quartiere Capo, intricato da ampie cavità sotterranee che fanno parte di un vasto complesso cimiteriale cristiano. Il luogo dove si riuniva la fratellanza dei Beati Paoli si trova nei pressi della chiesa di Santa Maruzza e il vicolo degli orfani.
La leggendaria grotta dei Beati Paoli, che fa parte di un complesso di cavità di quello che era il letto naturale del fiume Papireto, è ricavata nella sua sponda di sinistra in un grosso blocco di calcarenite. Nei secoli, la grotta fu interessata, ora come luogo di riunione segrete (secondo quanto tramandatoci dalle tradizioni), ora come immondezzaio privato, sfruttando la preesistenza dell’ipogeo, ora come rifugio durante le incursioni aeree della seconda guerra mondiale.
All’antro, accessibile da nove gradini, si perviene attraverso un piccolo ingresso che dà sul vicolo degli orfani dove sorge una vasca seicentesca con un ninfeo in pietra lavica, alimentata da una vecchia torre d’acqua. Accanto a lei, alla profondità di tre metri e mezzo, c’è un cunicolo che porta ad altre due grotte, che sicuramente custodiscono nuovi misteri.
Durante i lavori di pulitura, sepolte nel terriccio che ricolmava l’ingrottato, sono stati trovati diversi oggetti di differenti epoche, ma la cosa che ha suscitato scalpore è il ritrovamento di un puntale conico di ferro che altro non è che un portafiaccola da parete, per il quale bisogna stabilire il periodo a cui risale. Quest’ultimo ritrovamento richiama certamente a presupposti sull’esistenza dei sectarij….Ma a dir del Villabianca alla fine del settecento di quella terribile organizzazione “se n’era già perduta la semenza”.
Il Comune di Palermo, ha iniziato il recupero di tutta la zona che interessa il complesso di palazzo Blandi, in vista d’inserire il tutto in un nuovo itinerario nel circuito cittadino. Il percorso potrebbe comprendere l’area che riguarda l’antico letto che solcava il fiume Papireto, iniziando con la visita alle catacombe paleocristiane del IV-V sec.dopo Cristo, proseguendo con la visita d’alcune cripte e finendo con la leggendaria grotta dei Beati Paoli.

UN SUSSULTO DI STATO

Scritto da: Gianni Tirelli
Fonte: http://www.oltrelacoltre.com/

“Senza stato etico non esiste ne stato sociale ne stato di diritto, e per tanto, nessun concetto di società civile”.

Definire il contesto in cui viviamo, “una società” sembrerebbe una barzelletta se non fosse una tragedia! E’ più verosimile pensare ad una fabbrica di insaccati dove i macellati sono gli stessi cittadini che si nutrono vicendevolmente delle carni e del sangue dei loro simili. E senza fare una piega!!
Il Grande Inganno perpetrato nei confronti della cittadinanza e che ha fatto decadere il concetto di società, è la conseguenza delle privatizzazioni di beni che, dallo Stato (cioè noi!) sono passati nelle grinfie dei privati. Individui che per definizione vanno ascritti nella categoria dei criminali, e per tanto, ogni loro azione è volta al profitto personale (ad ogni costo e con ogni mezzo), al privilegio e al potere.?Il risultato finale é un aumento sconsiderato delle tariffe, una qualità dei servizi, ben sotto la soglia della decenza e un inquinamento endemico che ha messo a rischio e compromesso la salute di tutti noi – sempre più cornuti e mazziati!
Se la privatizzazione, producesse reali vantaggi alla collettività, la stessa non esisterebbe! Come del resto la politica che, se fosse di qualche utilità sociale, sarebbe vietata!!
Quale privato rischierebbe tanto, se la privatizzazione non fosse un piatto così ricco e allettante da ficcarcisi dentro fino al collo e con tutta l’ingordigia ascrivibile a questa moderna razza di vampiri?

L’economia cinese è malata, come quella Usa

Fonte: http://www.asianews.it/notizie-it/L%E2%80%99economia-cinese-%C3%A8-malata,-come-quella-Usa-23651.html

Nuova iniezione di crediti – dopo la stretta anti-inflazione – e nuova emissione di moneta per salvarsi dalla crisi europea. Ma i crediti vanno per il 70% alle industrie statali e ai funzionari di partito; alle famiglie e alle piccole imprese solo poche gocce. È tempo di cambiare il modello di crescita di Pechino, che finora ha penalizzato il consumo interno. Materialismo confuciano e materialismo consumista Usa si sostengono insieme e insieme crolleranno.
Milano (AsiaNews) – Bollente, gelata ed ora di nuova calda: questa è la doccia – non scozzese, ma cinese – delle manovre sul credito cui è sottoposta l’economia dell’Impero Comunista di Mezzo, la Cina. Il riferimento è agli editti imperiali in materia di credito bancario. Prima c’è stata l’espansione, con la riduzione della percentuale di riserve monetarie, in relazione al capitale ed ai depositi, che le banche commerciali devono detenere presso la banca centrale. L’obbiettivo era di permettere alle banche di fornire più crediti all’economia e si sposava con il pacchetto di stimolo e sviluppo e il varo di numerosi progetti di spesa. É la struttura della politica economica e monetaria cinese decisa a seguito della prima fase della crisi economica globale che ha avuto avvio nel 2007 / 2008. Poi, visto il bollore dell’inflazione, gli editti si sono volti verso la gelata: alle banche viene chiesto di congelare una percentuale maggiore di disponibilità monetarie e così ridurre i crediti alle imprese. Ma dopo la (relativa) gelata, ora siamo di nuovo all’espansione.

Secondo i dati della Banca Popolare della Cina (BPdC), resi noti l’8 gennaio, lo scorso dicembre i crediti bancari sono cresciuti in un solo mese del 13,92 % passando da 562,2 a 640,5 miliardi di yuan (101 miliardi di dollari). È la conseguenza della decisione del 5 dicembre scorso dell’istituto di emissione, BPdC, che, in tale data, aveva infatti ridotto il tasso di riserva dello 0,5 % portandolo al 21 %. Su base annua la crescita della M2 – la base monetaria costituita dal contante in circolazione e dai depositi bancari – è stata del 13,6 %, mentre, sempre su base annua, a novembre la crescita della M2 era del 12,7 %, con un incremento perciò di 0,9%. È segno che i dirigenti cinesi sono allarmati dalla crisi del debito in Europa: temono che anche l’economia cinese possa schiantarsi al suolo e cercano di evitare tale prospettiva emettendo più moneta. Gonfiate da tali dati, le borse cinesi mettono ancora a segno dei rialzi di qualche punto.

AsiaNews è un’agenzia missionaria cattolica ed ai missionari è preclusa ogni speculazione. Se così non fosse ci sentiremmo di affermare che non c’è momento migliore per speculare al ribasso e questa non è pura cattiveria, ma semplice osservazione, oltre che reale preoccupazione per la gente comune della Cina.

In primo luogo c’è un indice, il PMI (Purchasing Manager Index), che è un buon indicatore dell’andamento a breve dell’attività manifatturiera ed è compilato sulla base di un sondaggio condotto tra i responsabili degli uffici acquisti delle imprese industriali. Per la Cina il segnale predittivo prossimo di tale indice è negativo , situandosi sotto la sensibile soglia di 50. Questo indica una prospettiva di contrazione dei livelli della produzione del settore manifatturiero a causa di una attesa di calo della domanda.

In secondo luogo, nonostante la stretta monetaria mantenuta dalla BPdC fino ad inizio dicembre, la massa di moneta M2 è molto elevata, 11.550 miliardi di dollari, ed è superiore a quella giapponese, (9.630 miliardi di dollari), e a quella americana (8.980 miliardi di dollari). Va detto che per lo scorso anno, il totale del credito concesso dal sistema bancario in Cina è stato pari a 7.470 miliardi di yuan, appena sotto la soglia stabilita dal governo per il 2011 di 7,5 mila miliardi di yuan .

Questa massa di credito bancario è inferiore a quello del 2010, che era stato pari a 7,95 mila miliardi di yuan, ma qui va fatto un raffronto di più lungo termine. In un decennio, dal 2001 al 2011, il credito bancario in Cina è cresciuto un po’ meno di 7 volte, mentre la crescita della M2 è stata di un po’ più di sette volte. I margini per stimolare l’economia della Cina, senza rischiare l’iperinflazione, sono perciò limitati. Nel 2008, per compensare il crollo della domanda globale, la Cina ha ampliato la propria offerta di moneta di uno straordinario 150%, un aumento che ha permesso ai dirigenti cinesi di mantenere alta la crescita economica per non rischiare di perdere il controllo politico. Oggi una tale manovra non sarebbe possibile.

In terzo luogo la Cina non può più contare su quello che è stato in questo decennio il combinato del motore della crescita cinese, esportazioni ed investimenti in conto capitale fisso. In questo decennio le esportazioni sono passate dal 25 % del Pil circa al 42 % nel 2008, con una media nel periodo superiore al 35 %. Elevatissimi, in rapporto a qualsiasi altro Paese ed a qualsiasi altra epoca, sono stati anche gli investimenti. Nel 2010 sono stati pari a circa il 45 % del Pil. In questi anni, a fronte di una progressiva deindustrializzazione in Europa e negli Usa, si è assistito ad un eccesso di investimenti in Cina, che hanno sì mantenuta alta la crescita cinese del Pil, ma che ora contribuiscono solo ad alimentare un peso insostenibile, quello della sovraccapacità produttiva.

Per i lettori di AsiaNews tutti questi non sono elementi nuovi, visto che sin dal suo inizio nel 2003 ne abbiamo trattato. La novità è che la crisi del debito nei Paesi occidentali rende lo sbocco delle esportazioni cinesi verso di essi non più incrementabile. Di conseguenza, il meccanismo cinese di crescita mediante il traino delle esportazioni verso tali Paesi e degli investimenti produttivi non è più praticabile. Dall’entrata definitiva degli accordi del Wto, l’abbattimento dei dazi doganali, la cosiddetta globalizzazione, la crescita del Pil cinese è stata determinata per circa il 70% da questi due fattori combinati e solo per il restante 30 % dalla crescita del consumo interno. Questo è il reale significato del termine “mercantilismo” riferito alla Cina dei nostri giorni, un’espressione ed un riferimento al mercantilismo europeo del settecento proposto da AsiaNews da svariati anni.

La Cina non può pensare di risolvere i propri problemi senza modificare il proprio modello di crescita e far leva sui consumi interni. Anche questo ad AsiaNews lo andiamo dicendo da svariati anni. Modificare degli schemi mentali consolidati sembra però essere molto difficile per la dirigenza cinese, anche perché il vecchio modello ha permesso loro di mantenere stabile il controllo della società in questi anni di transizione da una economia stalinista a quella capital-comunista attuale.

In questi anni il divario di reddito in Cina è aumentato, a scapito delle famiglie, cui in questi decenni è andato in media solo il 36 % del Pil, insieme alle piccole imprese, escluse dal sistema del credito bancario controllato per il 70 % dalle quattro maggiori banche commerciali cinesi.
Queste sono banche statali, controllate da funzionari del partito e finanziano di preferenza gli investimenti in infrastrutture volute dal partito, insieme con le grandi imprese statali, controllate anch’esse da funzionari del partito. Alle piccole e medie imprese non resta che il mercato “parallelo”, una rete di finanziarie che richiedono ben altri tassi d’interesse rispetto a quelli ufficiali. Per i piccoli imprenditori, il risultato della debolezza della crescita in Europa e nell’America settentrionale è stato perciò un tragico aumento dei suicidi; per i medi imprenditori, la via dell’emigrazione.

Sempre ancorati ad uno schema di crescita del Pil trainata dalle esportazioni, le autorità finanziarie cinesi hanno pensato di aver trovato una soluzione nell’espansionismo valutario: l’estensione dell’area di influenza dello yuan. Sin dal 2009, subito dopo l’esplodere della crisi finanziaria americana, la banca centrale cinese ha lanciato un programma di accordi di compensazione denominati in yuan per il saldo delle transazioni commerciali internazionali. Finora, come comunicato lo scorso 9 gennaio dalla banca centrale, nell’ambito di questo genere di accordi, sono state siglate intese con 14 Paesi. Lo scorso anno gli scambi commerciali il cui pagamento è stato saldato in base ad esse, hanno raggiunto un totale di 2.080 miliardi di yuan (USD 330 miliardi), mentre il regolamento in yuan di investimenti diretti ha raggiunto un totale di 110, 9 miliardi di yuan. Francamente non pensiamo che per ora e nell’immediato questa soluzione possa essere altro che un palliativo.

La verità è che la rapida crescita della Cina in questi ultimi 15 anni è stata alimentata dall’espansione senza precedenti dell’offerta di moneta degli Stati Uniti, a partire dagli anni ’90 e della crescita delle quotazioni della borsa americana, con la conseguente espansione della domanda in America di beni di consumo provenienti dalla Cina. I due materialismi gemelli, quello americano – finanziario e dei consumi – e quello cinese – confuciano e nazional-comunista – insieme si sono alimentati ed insieme cadranno. Lo scriviamo con dolore pensando alle sofferenze di tanti che si sono trovati intrappolati in essi.

Intervista a Edward Griffin

Scritto da : Intervista e traduzione di Massimo Mazzucco
Fonte: http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=3517

NOTA: Riproponiamo oggi questa intervista a Ed Griffin, che risale a quasi due anni fa, perchè affronta diversi argomenti di cui ci stiamo occupando in questo periodo.

G. Edward Griffin è uno scrittore e giornalista che nel corso degli anni si è occupato di alcuni eventi storici di grande importanza che hanno finito per condizionare enormemente il mondo in cui viviamo oggi.

Il suo libro più famoso, che ha venduto quasi un milione di copie, è “The Creature from Jekyll Island”, nel quale Griffin rivelò e descrisse per la prima volta i retroscena che portarono alla creazione della Federal Reserve da parte di un ristretto gruppo di banchieri, nel 1913.

Dopo aver svolto una indagine simile sulla nascita dell’industria farmaceutica – che non a caso vide impegnati gli stessi protagonisti del “colpo di stato” bancario – Griffin ha combattuto una lunga battaglia per far conoscere al mondo la cura contro il cancro a base di vitamina B-17, o “amigdalina”, scoperta dal Dott. Krebs nel secolo scorso, e praticata (per brevissimo tempo) con grande successo dal Dott. Richardson di S. Francisco.

Nella prima parte dell’intervista Griffin parla della nascita della Federal Reserve, e delle potenti famiglie di banchieri che sono alle sue spalle. Si cerca anche di capire meglio quali siano le vere relazioni fra i Rothschild e i Rockefeller. Nella seconda parte Griffin (un libertarian come Ron Paul) parla nel dettaglio della scuola economica austriaca, nella terza parla della Cina, del progetto Amero e della lotta contro il “Nuovo Ordine Mondiale”.

I PARTE – La nascita della Federal Reserve

M.M.: Siamo al telefono con G. Edward Griffin, autore, giornalista investigativo e produttore. È il 7 aprile 2010. Signor Griffin, sarebbe giusto presentarla come la persona che ha svelato e raccontato la nascita della Federal Reserve, nel suo libro “The Creature from Jekyll Island”?

E.G.: Diciamo che siamo vicini. In realtà, molti prima di me avevano svelato diversi aspetti della Federal Reserve e del sistema bancario. Di fatto ci sono stati molti libri sull’argomento. Il problema è che quasi nessuno li leggeva.

M.M.: A quel che mi risulta, lei è stato il primo a collegare tutti gli elementi, dall’inizio alla fine. Giusto?

E.G.: Sì, dall’inizio alla fine. Molti altri autori avevano voluto concentrarsi sull’aspetto del meccanismo monetario, e hanno fatto anche un ottimo lavoro, dal quale ho imparato molto. Poi però magari non lo collegavano agli aspetti sociali che ne risultavano. Pochi si domandavano, ad esempio, “che cosa rappresenta questo in termini di incentivo verso la guerra?” Non guardavano al risultato storico, alle conseguenze di questo sistema monetario.

M.M.: Oppure ai collegamenti con l’industria farmaceutica, che lei stesso ha indagato e svelato negli anni ’90, giusto?

E.G.: Sì. Quello che ho fatto forse è stato di mettere insieme più aspetti del problema, all’interno del libro, mostrando come avevano tutti la radice in questo meccanismo del denaro creato dal nulla.

M.M.: Può riassumere, in modo molto sintetico, quello che racconta e rivela nel suo libro?

E.G.: Beh, è un libro di 600 pagine. Volendo farne una sintesi complessiva, direi che è qualcosa del genere: Il potere di creare moneta dal nulla, e di controllare il sistema bancario e il sistema di credito, è forse la forza più poderosa di tutte, nel mondo. La metterei addirittura al di sopra del potere della bomba atomica, perché coloro che hanno questo potere economico sono in grado di impadronirsi dei governi, e quindi possono usare quei governi per sganciare bombe atomiche.

Sono in realtà i finanzieri dietro le quinte che determinano la politica che porta alle scelte militari, alle scelte sociali. Costoro controllano letteralmente il mondo. Il potere del denaro tocca tutti, e lo fa senza che la gente si accorga di essere controllata da questo potere. Sanno soltanto che se fanno certe cose vengono premiate, e se ne fanno certe altre vengono punite economicamente, ma non sanno chi ci sia, in alto, a decidere le punizioni o ad elargire i premi. Questa è forse la visione generale che sfugge a molte persone, la totale assolutezza del potere del denaro.

M.M.: Questa gente ha, oppure ha avuto, dei nomi?

E.G.: Certo che hanno dei nomi. Cambiano sempre, ma è sufficiente guardare i grandi istituti finanziari, le banche. Ma non sono sempre presidenti – non dimentichiamo che i presidenti vengono eletti. Sono coloro che appartengono ai consigli direttivi che di solito hanno il maggiore potere all’interno delle istituzioni finanziarie. In Europa certamente bisogna partire dal nome dei Rothschild, su questo non c’è dubbio. Il potere della famiglia Rothschild è enorme.

M.M.: Che ha ancora, vero?

E.G.: Assolutamente, ce l’hanno ancora, anche se fanno ogni sforzo possibile, come hanno sempre fatto, per non comparire praticamente mai nella cronaca. Non gli piacciono i reportage televisivi, non gli piace essere visti, non gli piacciono i programmi TV che parlano di loro, a meno che li facciano apparire come gente interessata soprattutto a produrre vino o alle corse dei cavalli.

M.M.: Io pensavo che facessero solo quello!

E.G.: Questa è l’impressione che vorrebbero dare. Semplicemente di persone molto ricche, che si godono la bella vita, ma non vogliono dare l’impressione di essere coinvolti attivamente nelle questioni politiche o finanziarie. Questo è il modo in cui la famiglia Rothschild ha agito fin dall’inizio, gli piace restare nell’ombra.

Questo è vero anche per gli Stati Uniti, dove abbiamo l’impero dei Rockefeller. La dinastia dei Rockefeller si comporta in modo molto simile, forse non quanto i Rothschild, ma anche loro preferiscono restare sullo sfondo. Si può partire da quei due nomi e poi vedere chi si aggrega intorno loro, e quali istituzioni finanziarie controllano, ed ecco fatto.

M.M.: Questi due nomi sembrano ricorrere praticamente dall’inizio dell’economia moderna. Per quel che ne sa lei si tratta di un rapporto prevalentemente conflittuale fra le due famiglie, oppure di un rapporto di complicità? Immagino che esistano ambedue gli aspetti, ma secondo lei quale prevale?

E.G.: Sono contento che mi abbia chiesto “secondo me”, perché sono il primo a confessare di non saperlo con certezza. Ma è sempre stata una questione intrigante. Io immagino che vi sia oggi più collaborazione fra loro di quanta ce n’è mai stata in passato. Io tendo a vedere quelle dinastie, e i gruppi che stanno sotto di loro, come un classico cartello. Istituzioni economiche molto grandi e potenti, che hanno deciso di smettere di combattersi e di dividersi il mercato, invece di cercare di danneggiarsi a vicenda, poichè si sono rese conto di essere ambedue talmente forti che nessuno è in grado di eliminare l’altro.

Questo è il meccanismo classico della formazione di un cartello. Lo stesso sistema bancario è un cartello gigantesco, fondato su questo principio. Tutte le grandi banche collaborano fra loro, formando quello che è chiamato il sistema della Federal Reserve, in cui stabiliscono le regole per dividersi il mercato senza competere, praticando tutti gli stessi tassi di interesse, seguendo tutte le stesse regole, che tutti devono rispettare, se non vogliono essere tagliati fuori. Direi che più o meno a questo ciò che avviene fra i Rothschild e i Rockefeller.

M.M.: La Federal Reserve non è una banca vera e propria, giusto? E’ una istituzione.

E.G.: Giusto. Il sistema della Federal Reserve è un cartello. È semplicemente un accordo, si tratta di personale assunto per far funzionare questo accordo.

M.M.: In Italia abbiamo lo stesso problema con la Banca Centrale, che sfugge ad ogni controllo, ma non ci permette nemmeno di sapere chi faccia parte del suo consiglio di amministrazione. È una cosa fantastica: questa gente può fare quello che vuole, e non sono nemmeno tenuti a dirci chi siano.

E.G.: Certo. Comandano loro. Questo è un esempio perfetto che dimostra chi è davvero al potere.

M.M.: Quindi si può dire che ciascun caso sia leggermente diverso, a seconda delle nazioni, ma fondamentalmente lo schema è lo stesso?

E.G.: Lo schema è lo stesso, con piccole differenze. Ad esempio, negli Stati Uniti è stato necessario, strategicamente, creare l’illusione di un sistema decentralizzato, perché all’inizio c’era una certa resistenza alla creazione della Federal Reserve. La gente iniziava già a temere la concentrazione del potere economico in un gruppo ristretto di società finanziarie, di Wall Street a New York.

Quindi, per far passare l’idea di fronte agli elettori, e anche a qualche parlamentare, hanno dovuto creare l’illusione di decentralizzare il meccanismo, di spezzettarlo geograficamente, e così hanno creato tutte queste banche regionali, che non erano nemmeno banche, ma così le chiamavano. Ce n’era una in ognuna delle più importanti zone metropolitane, e così la gente poteva dire: “Cavoli, l’hanno davvero spezzettato per bene!”

M.M.: Esattamente come nei media. Sembra che ci siano così tante televisioni in giro, e poi…

E.G.: E’ solo un miraggio. Oggi in realtà non è più necessario fare questo, ma ci ricorda come è iniziato questo sistema.

M.M.: Se non sbaglio, questa è proprio la tesi di fondo del suo libro “Jekyll Island”, che questi banchieri hanno creato quello che sembrava essere il salvatore della gente dagli squali delle banche, mentre la realtà veniva creato dagli squali stessi.

E.G.: Esatto. Ecco perché si sono incontrati in segreto a Jekyll Island, in modo che nessuno potesse vedere chi c’era dietro a tutto questo.

II PARTE – La scuola economica austriaca

M.M.: Quali sono i principi fondamentali della cosiddetta scuola di economia austriaca?

E.G.: Non sono certo che i principi della scuola economica austriaca siano stati mai definiti fino in fondo, con soddisfazione di tutti, ma posso provare a fare qui un tentativo al volo.

Si tratta del principio del “lasciar succedere” [laissez faire], applicato all’economia. Sostanzialmente la scuola austriaca dice che l’economia sarebbe migliore per tutti, a lungo termine, in misura inversamente proporzionale al controllo esercitato del governo. La scuola economica austriaca illustra semplicemente questo con grande accuratezza, utilizzando esempi e ricorrendo alla logica per dimostrare che è vero.

Se comunque si lasciano da parte le teorie, i tecnicismi, il linguaggio, si può dire semplicemente che la scuola economica austriaca insegni che il governo non deve immischiarsi nell’economia. Con la sola eccezione di garantire che gli accordi vengano rispettati. In altre parole, il governo deve proteggere la gente, che non si veda rubare i propri soldi.

M.M.: Sembra quasi la costituzione americana.

E.G.: Esatto. Il ruolo del governo è semplicemente quello di garantire che, se qualcuno stabilisce un accordo economico, questo venga rispettato.

Questo è in diretto contrasto con la situazione odierna, nella quale è diffusa l’opinione che l’economia non sia in grado di funzionare senza l’intervento dei politici e dei banchieri, questi saggi comitati di persone che sembrano saperne così tanto da poter giocherellare con l’economia, intervenendo qua e là, introducendo delle restrizioni, oppure dei fattori amplificanti, con la redistribuzione… Insomma, conosciamo la musica, è sempre quella. Tutto ciò dovrebbe essere a vantaggio della gente, ma alla fine torna a vantaggio degli amministratori del sistema, mentre la gente resta fregata, perché ha perso la propria libertà e ha perso il potere d’acquisto della sua unità monetaria.

M.M.: Se fossimo in un libero mercato, dove anche il denaro è oggetto di scambio – che è la chiave, se ho ben capito, della scuola economica austriaca – la gente avrebbe più soldi rispetto ai beni disponibili?

E.G.: Io sono convinto che un sistema del genere, dove vi fosse libertà di competere su tutto, compresa la moneta stessa, sarebbe un incentivo eccezionale per la produttività. Il corto circuito del debito che esiste oggi, con tutte queste regole, verrebbe rimosso, e tutta l’energia verrebbe incanalata verso la produttività. Mentre ora, non vorrei indicare una cifra, ma direi che il 30-40% dell’energia dell’umanità viene dispersa in questo corto circuito fra il polo positivo è quello negativo, da parte degli amministratori e degli speculatori, i quali non producono niente. Se si potesse rimuovere il corto circuito del debito nel sistema monetario penso che l’economia, il livello di vita e la produttività aumenterebbero di colpo almeno del 30%, e forse anche di più.

M.M.: Io sono anche convinto, senza avere i numeri della mia parte, che esista una volontà evidente di mantenere attivo quel corto circuito, poiché è un modo di disperdere energie che altrimenti potrebbero venire indirizzate contro chi è al potere in questo momento.

E.G.: Certo, loro non vogliono che la gente sia indipendente, non vogliono una opposizione troppo forte, vogliono mantenere tutto sotto controllo.

M.M.: C’è una reale possibilità di capovolgere questa situazione? Sarà forse il futuro stesso ad occuparsene, facendo crollare l’intero sistema economico?

E.G.: Questa è certamente la grande domanda. Sì, io penso che sia possibile, ma per essere realistici, non è possibile nel futuro a breve termine. Perché la locomotiva in questo momento sta viaggiando nella direzione opposta, e viaggia alla massima velocità. Come si fa a farle invertire la marcia? Prima di tutto bisogna capire che sta viaggiando nella direzione sbagliata, poi bisogna rallentarla, per poterla fermare. E poi bisogna farla ripartire in direzione opposta, e questo richiederà del tempo.

Al giorno d’oggi quelli che controllano il potere, e che dovrebbero prendere questa decisione, sono tutti in favore della situazione così com’è. Non vogliono invertire la marcia del treno.

M.M.: Ecco perché parlavo della possibilità di una forza esterna come unica soluzione.

E.G.: Sì, finché quella gente è al potere non c’è possibilità di cambiamento. Quindi la vera domanda diventa: quanto tempo ci vorrà per sostituire la gente che controlla il potere in tutte le nazioni del mondo? Lo si può anche fare, ma certamente non accadrà entro le prossime elezioni.

M.M.: Intanto siamo già alla quarta generazione di Rockefeller, se non sbaglio.

E.G.: Sì. Io penso che dovremo aspettare un paio di generazioni, prima di vedere questo capovolgimento. Questo però non significa che io sia pessimista, anzi sono ottimista, perché già inizio a vedere i primi segni del cambiamento. Vedo la nascita di un movimento che a mio parere continuerà a crescere nella prossima generazione, fino ad arrivare ad invertire la marcia.

M.M.: In che cosa consiste esattamente il cambiamento che lei inizia a vedere? Sta parlando forse del modo di pensare della gente?

E.G.: Si, vedo soprattutto ciò che inizia a cambiare nel modo di pensare della gente, e qui veniamo al lavoro che sto svolgendo attualmente, la Freedom Force International. Credo che sia proprio il ruolo di questa organizzazione, di stabilire una intelaiatura solida, una rete di persone particolarmente informate e impegnate, non necessariamente in grande numero rispetto alla popolazione. Gente che faccia tutto il possibile e che sia intenzionata ad influenzare i centri di potere della società, cioè entrare in politica, penetrare i grandi media, creare i propri canali di comunicazione, penetrare le scuole, andare dove la gente cerca una leadership.

Oggi chi cerca una leadership – e quasi tutti lo fanno – si rivolge ai normali centri di potere, di cui i partiti politici sono un ottimo esempio, e questi hanno dei leader che stanno viaggiando nella direzione opposta. È questo che dobbiamo cambiare. Io vedo un gruppo molto ristretto di noi, forse la metà dell’1%, che con la prossima generazione lavori in modo dedicato e intelligente. Aiutandoci fra noi possiamo rimpiazzare la vecchia leadership nei centri di potere.

M.M.: Quindi lei dice contemporaneamente che coloro che stanno al potere non permetteranno mai i cambiamenti, ma che quei cambiamenti si possono ottenere lavorando dall’interno del sistema?

E.G.: Esattamente. Cercare di farlo dall’esterno del sistema che cosa significa? Significa che bisogna attaccarlo con armi e munizioni…

M.M.: No no, io non penso nemmeno lontanamente ad una soluzione violenta. Penso che o ci sarà un crollo del sistema stesso, che permetterebbe a molte persone di capire molte cose nello stesso momento, oppure che la presa di coscienza dell’attuale situazione inizi a diffondersi così rapidamente che non ci sarà più bisogno del suo 0, 5%, per penetrare le strutture effettive del potere, ma porterà semplicemente alla loro perdita di credibilità.

E.G.: Se il sistema dovesse crollare oggi, non essendo la maggior parte delle persone minimamente informata sulla realtà, penso che cadrebbero nel panico e continuerebbero a seguire gli stessi leader che l’hanno fatto crollare.

M.M.: Molto probabilmente.

E.G.: Io quindi non vedo il crollo del sistema come una reale soluzione. Bisogna prima alzare il livello di coscienza e riuscire a piazzare i nuovi leader nelle giuste posizioni, perché nel momento del crollo la gente si rivolge ai propri leader, e quindi la domanda è: chi saranno domani i loro leader?


III PARTE – Cina, Amero e Nuovo Ordine Mondiale

M.M.: Il fatto che la Cina detenga oggi una grossa quota del debito estero americano significa che la Cina è in posizione di potere rispetto agli Stati Uniti? O sono forse gli Stati Uniti, proprio a causa del debito, ad essere in posizione di forza rispetto alla Cina?

E.G.: Direi che ambedue le ipotesi sono vere. Trattandosi di dinamiche contrapposte, si tratta di decidere quale sia la più forte delle due. Direi che in questo momento il potere economico sta certamente dalla parte della Cina. Ma la Cina resta comunque una nazione fragile, proprio perché sono pieni di dollari.

Per inquadrare meglio la situazione credo che sia necessario capire bene quali siano le vere intenzioni della Cina rispetto agli Stati Uniti, e per farlo bisogna saper guardare le cose non dal punto di vista americano, ma da quello cinese.

I cinesi, popolo molto paziente, stanno mettendo in atto un piano a lungo termine, il cui obiettivo ultimo è la distruzione totale degli Stati Uniti d’America. Vogliono dominare gli Stati Uniti d’America, vogliono conquistarli, vogliono umiliarli, sognano di farla pagare a questi diavoli stranieri, che in passato li hanno derisi davanti al mondo. Non vedono l’ora che l’America crolli, e sono disposti a sacrificare la loro economia pur di mettere l’America in ginocchio. A loro non interessa veramente l’economia, interessa dominare, interessa controllare. Solo così si può comprendere perché continuino ad incoraggiare gli Stati Uniti ad affondare sempre di più nel debito.

M.M.: E gli americani sarebbero così stupidi da cadere nella trappola? Oppure c’è anche un punto di vista vantaggioso dalla loro parte?

E.G.: Certamente è un’ottima domanda, perché io credo che i nostri leader al massimo livello siano tutt’altro che stupidi. Penso che stiano giocando una lunga partita a scacchi, nella quale prevedono di riuscire a creare, prima del crollo, quello che loro chiamano il nuovo ordine mondiale, del quale la Cina diventerebbe semplicemente una parte. Non si tratterebbe quindi di una sconfitta degli Stati Uniti da parte della Cina, ma di una fusione fra Cina e Stati Uniti.

M.M.: Secondo lei cercherebbero di farlo sotto la famosa ipotesi dell’Amero, ovvero demonetizzando del tutto il dollaro?

E.G.: Se parliamo della leadership americana, certamente hanno in programma una valuta regionale, che potrebbe essere l’Amero. Qualche mese fa avrei detto che certamente era l’Amero, ma ultimamente girano voci, nei meeting internazionali, secondo cui gli americani tenderebbero a saltare quel passaggio, per adottare direttamente una valuta globale.

M.M.: Ne ha parlato anche Brown, lo scorso giugno, se non sbaglio.

E.G.: Esattamente. Bisogna però vedere se si tratta di reali intenzioni, oppure se si tratta di una strategia di facciata, da gettare sul tavolo solo per poter giungere più comodamente ad un compromesso.

M.M.: Cioè?

E.G.: In altre parole, si tratterebbe di spaventare prima la gente con lo “spettro” della moneta globale, per poi fingere di “accontentarsi” di quella regionale. Non so esattamente a che gioco stiano giocando, ma se dovessi fare una scommessa oggi punterei ancora i miei soldi sull’Amero.

M.M.: Questo però implicherebbe la totale demonetizzazione del dollaro, e quindi la scomparsa istantanea del debito estero americano. Secondo lei la Cina è disposta ad accettare una cosa del genere?

E.G.: Penso che prima di far scomparire il dollaro ci debba comunque essere una specie di accordo internazionale, che in qualche modo traduca i debiti in dollari in una valuta differente. Si tratterebbe cioè di stabilire un rapporto di scambio fra il vecchio dollaro e il nuovo Amero. A quel punto i cinesi non avrebbero più alternative, perché se insistessero per avere i vecchi dollari della Federal Reserve si troverebbero con della carta straccia in mano.

M.M.: Quindi alla fine è ancora l’America ad avere il coltello dalla parte del manico.

E.G.: C’è un proverbio che dice: “Se tu devi alla banca 100 dollari e non paghi, avrai dei problemi. Se tu devi alla banca 100 milioni di dollari, e non li paghi, i problemi li avrà la banca”.

M.M.: Ci può dire qualcosa di più sull’organizzazione che lei ha fondato, Freedom Force International?

E.G.: È una organizzazione che ha ormai aderenti in 74 paesi nel mondo. Stiamo mettendo insieme gente che comprende a fondo la gravità del problema globale che stiamo affrontando. Sono persone che vengono dalle culture più diverse, dalle razze più diverse, dai luoghi più diversi, dalle più diverse posizioni politiche, ma sono tutti uniti in quello che noi chiamiamo “il credo della libertà”. Le loro opinioni possono differire su molte altre cose, ma su questo siamo tutti assolutamente d’accordo.

E’ la prima volta, per quel che mi risulta, che un movimento così ampio sia nato sulla base di una pura ideologia. È facile trovare persone che condividano con te le cose che non ti piacciono, molto più difficile è trovare persone che condividano con te la stessa visione del mondo che vorresti costruire.

Chiunque vuole lavorare per un mondo dove la libertà dell’individuo sia veramente rispettata dovrebbe dare una seria occhiata a quello che rappresenta oggi Freedom Force International.

M.M.: Ci sono aderenti anche in Italia?

E.G.: No, in Italia non mi pare. E’ strano, bisogna dire.

M.M.: Non si preoccupi. Anche da noi ci sono molte persone che cominciano a vedere le cose in questo modo. Vedrà che prima o poi si farà vivo qualcuno anche da noi.

l’IMPERO DELLA COCAINA…

Note redazione:  Un libro che si legge tutto d’un fiato… sembra di essere in un film, peccato che è tutto drammaticamente vero…

Fonte: http://www.newtoncompton.com/libro/978-88-541-3318-1/l%27impero-della-cocaina

Dalla Colombia all’Italia fino all’Europa e agli Stati Uniti: viaggio in presa diretta nel traffico dell’oro bianco

Tutto l’illecito della cocaina documentato passo dopo passo.

Un’inchiesta durata più di due anni, dall’oscura foresta colombiana ai paesi dell’Aspromonte calabrese, per ricostruire i misteri di un potere criminale feroce, ricchissimo, efficiente e ormai globalizzato. Ripercorrendo la filiera dell’oro bianco, Andrea Amato ha partecipato all’assalto a una raffineria nella giungla, è entrato in contatto con una colonia di calabresi nel cuore del Sudamerica, ha avuto a che fare con un narcotrafficante molto potente, colombiano di passaporto ma italiano fino al midollo. È andato a San Luca, la Corleone di Calabria, a Duisburg in Germania, a Filadelfia, dove si contano almeno trenta ragazzi vittime della lupara bianca; ha sperimentato quanto sia facile comprare droga nelle nostre città. Seguendo il percorso della foglia di coca partita dalla giungla, l’autore è finito in un palazzo in pieno centro a Milano, considerato il “supermarket” della droga, riuscendo a filmare tutto con una telecamera nascosta. L’impero della cocaina è un libro scioccante e duro che documenta, senza mediazione, come si produce la droga, come viene spacciata in tutto il mondo, come le organizzazioni di trafficanti, con la ’ndrangheta in prima fila, siano capaci di insinuarsi ovunque.

Dalla produzione allo spaccio fino al riciclaggio dei soldi che ne derivano.

Con un’intervista a Piero Grasso, Procuratore nazionale antimafia, e a Nicola Gratteri, il “Giovanni Falcone” della ’ndrangheta.

Alcuni capitoli del libro:

* L’informatore
* La Colombia
* Policía Nacional
* Assalto alla raffineria
* Paramilitari e guerriglieri
* La pista italiana in Colombia
* Da Reggio Calabria a Duisburg
* Milano: supermarket droga
* ’Ndrangheta S.p.a.: la prima azienda italiana