PERCHE’ DOVETTI LASCIARE IL “TIMES”

Scritto da: Robert Fisk  Fonte:  The Independent dell’11 luglio 2011
Traduzione di Gianluca Freda  Fonte: http://www.blogghete.altervista.org/j

E’ un califfo, suppongo, più o meno della varietà mediorientale.

 

Si sentono dire tutte queste cose terribili sui dittatori arabi, e poi, quando li incontri di persona, sono la quintessenza del fascino. Una volta Hafez al-Assad prese la mia mano e la tenne stretta a lungo, con un sorriso paterno. Non può certo essere così cattivo, dissi quasi a me stesso. Questo accadde molto tempo prima dei massacri di Hama, nel 1982. Re Hussein mi chiamava “Sir” e faceva lo stesso con molti altri giornalisti. In pubblico, questi potenti scherzano spesso con i loro vassalli. Gli errori si possono perdonare.

I “Diari di Hitler” furono l’errore di Murdoch, quando rifiutò di prendere in considerazione il fatto che un suo “esperto” aveva cambiato idea su quei documenti, proprio poche ore prima che il Times e il Sunday Times iniziassero a pubblicarli. Mesi dopo, ero di passaggio all’ufficio londinese del giornale poco prima di ripartire per Beirut, quando il responsabile per l’estero, Ivan Barnes, ricevette un dispaccio della Reuters proveniente da Bonn. “Aha!”, tuonò. “I diari erano falsi!”. Il governo della Germania Occidentale aveva dimostrato che dovevano essere stati scritti molto tempo dopo la morte del Führer.

Così Barnes mi spedì nell’ufficio dell’editore, Charles Douglas-Home, con la notizia arrivata dalla Reuters e lì trovai Charlie a colloquio con Murdoch. “Dicono che sono falsi, Charlie”, annunciai, cercando di non guardare verso Murdoch. Ma lo feci quando lui reagì. “Beh, eccoci qua”, commentò il boss con una risatina. “Chi non risica, non rosica”. Era molto allegro. La sua flemma era quasi ammirevole. Grande Storia. Aveva solo un piccolo problema. Che non era vera.

Stranamente, non mi apparve mai come l’orco del male, dell’oscurità e del veleno per cui si vuole farlo passare  negli ultimi giorni. Forse perché i suoi editori, sub-editori e giornalisti capivano sempre al volo ciò che Murdoch voleva dire. Murdoch era proprietario del Times quando, nel 1982, io facevo l’inviato durante la sanguinosa invasione e occupazione del Libano da parte di Israele. Dai miei reportage non venne mai tolta neanche una riga, per quanto critici essi fossero verso Israele. Dopo l’invasione, Douglas-Home e Murdoch furono invitati dagli israeliani a compiere una visita in elicottero nel Libano. Gli israeliani cercavano di gettare discredito sui miei reportage; Douglas-Home mi disse che era dalla mia parte. Sul volo di ritorno verso Londra, Douglas-Home e Murdoch si sedettero insieme. “Sapevo che Rupert era interessato a ciò che stavo scrivendo”, mi disse in seguito. “Credo che si aspettasse che gli dicessi che cos’era, anche se non me lo ha chiesto. Io non gli ho mostrato nulla”.

Ma le cose cambiarono. Prima di diventare editore, Douglas-Home scriveva per Al-Majella, una rivista in lingua araba, spesso ferocemente critica verso Israele. Ora i suoi editoriali sul Times presentavano una visione positiva dell’invasione israeliana. Scriveva che “non c’è nessun palestinese degno con cui il mondo possa parlare” e – Dio ci perdoni – che “forse adesso i palestinesi della West Bank e della Striscia di Gaza la pianteranno di sperare che un guitto come Arafat possa miracolosamente esentarli dal fare affari con gli israeliani”.

Tutto questo, naturalmente, era la posizione ufficiale del governo israeliano a quell’epoca.

Poi, nella primavera del 1983, un altro cambiamento. Con il pieno consenso di Douglas-Home, avevo trascorso mesi ad investigare sulla morte di sette prigionieri palestinesi e libanesi, catturati dagli israeliani a Sidone. Era evidente, concludevo, che quegli uomini erano stati assassinati. Il becchino mi aveva perfino raccontato che i loro cadaveri gli erano stati portati con le mani ancora legate dietro la schiena, pieni di lividi. Ma adesso Douglas-Home non capiva come fosse “giustificabile” pubblicare un simile rapporto “a tanta distanza dai fatti”.

In altre parole, le stesse fondamenta del giornalismo investigativo – controllo dei fatti e mesi di interviste – erano diventate un’arma a doppio taglio. Quando avevamo i fatti, era passato ormai troppo tempo per poterli pubblicare. Chiesi agli israeliani se pensavano di condurre un’inchiesta militare e loro, ansiosi di mostrare quanto erano umani, ci dissero che ci sarebbe stata un’indagine ufficiale. L’”indagine” degli israeliani, sospetto, era una pura messinscena. Ma fu sufficiente a “giustificare” la pubblicazione del mio lungo e dettagliato rapporto. Appena fu possibile presentare gli israeliani come i “buoni”, le preoccupazioni di Douglas-Home evaporarono.

Quando morì, di cancro, venne annunciato che il suo vice, Charles Wilson, sarebbe diventato editore del giornale. Murdoch disse che Wilson era stato “scelto da Charlie”, e anch’io lo credetti, quindi tutto in regola. Fino a quando, parlando con la vedova di Charlie, lei mi disse che era la prima volta che sentiva dire che l’assegnazione della direzione a Wilson fosse una scelta del suo defunto marito. Tutti sapevamo che Murdoch si era impegnato con ogni genere di garanzie per l’indipendenza editoriale, l’imparzialità e tanti buoni propositi quando aveva comprato il Times. E poi aveva licenziato il suo primo editore, Harold Evans. In seguito, si sarebbe occupato dei sindacalisti.

Charles Wilson – che molto tempo dopo divenne, per un breve periodo, l’editore dell’Independent – era un uomo ruvido, amichevole, che sapeva mostrare grande gentilezza, ma anche durezza, verso il suo staff. Anche con me fu gentile. Ma una volta che ero andato a trovare Wilson a Londra, Murdoch entrò nel suo ufficio. “Ciao Robert!”, mi salutò Murdoch, prima di iniziare una gioviale conversazione con Wilson. Dopo che se ne fu andato, Wilson mi disse a bassa voce: “Hai visto che ti ha chiamato per nome?” Era ridicolo. Era come il sorriso di Assad o il “Sir” di Re Hussein. Non significava nulla. Murdoch stava solo scherzando con i suoi vassalli e i suoi cortigiani.

Un segnale d’avvertimento. Mentre ero ancora a Beirut ovest, nel periodo in cui dozzine di occidentali venivano rapiti, aprii il Times e scoprii che uno scrittore filo-israeliano affermava sul paginone centrale che tutti i giornalisti di Beirut ovest, palesemente intimiditi dal “terrorismo”, dovevano essere considerati dei “succhiasangue”. Il giornale sosteneva forse che anch’io ero un succhiasangue? In tutto questo tempo, Murdoch aveva espresso esclusivamente opinioni filo-israeliane e aveva accettato un premio come “Uomo dell’Anno” da parte di una nota organizzazione ebreo-americana. Gli editoriali del Times divennero sempre più filo-israeliani, il loro uso della parola “terrorista” sempre più ambiguo.

La fine, per me, arrivò quando nel 1988 andai a Dubai dopo che la USS Vincennes aveva abbattuto sul Golfo un aereo passeggeri iraniano. Nel giro di 24 ore, parlai con i controllori del traffico aereo britannico a Dubai, scoprii che le navi americane minacciavano in continuazione gli aerei della British Airways e che l’equipaggio della Vincennes sembrava entrato in preda al panico. Alla sede estera del giornale, mi dissero che il mio rapporto sarebbe andato in prima pagina. Li avvisai che le “voci” americane secondo le quali il pilota della IranAir stava cercando di schiantarsi contro la Vincennes in un attacco suicida erano fuffa. Concordarono.

Il giorno dopo, il mio rapporto fu pubblicato con tutte le parti che contenevano critiche verso gli americani cancellate; tutte le mie fonti erano state ignorate. Il Times conteneva perfino un editoriale in cui si insinuava che il pilota fosse davvero un attentatore suicida. Un successivo rapporto ufficiale americano e i resoconti degli ufficiali della marina statunitense provarono in seguito che il mio articolo era corretto. Solo che ai lettori del Times non fu consentito leggerlo. Fu allora che presi contatto per la prima volta con l’Independent. Non credevo più al Times; e di sicuro non credevo a Rupert Murdoch.

Mesi dopo, un caporedattore che era in servizio la sera in cui arrivò il mio rapporto sulla Vincennes, mi scrisse per lettera che aveva proposto il mio rapporto per la prima pagina, ma che Wilson aveva detto: “Non c’è dentro niente. Non contiene neanche un fatto. Non voglio neanche sentirli questi deliri”. Wilson, mi disse il caporedattore, aveva chiamato “bubbole” e “ciance” i miei materiali. I compiti assegnati al caporedattore per quella sera erano: “Shambles, articolo sul caos nel Golfo; [George] Brock [il responsabile di Wilson per gli esteri], riscrivere l’articolo di Fisk”.

Le buone notizie: pochi mesi dopo ero corrispondente dell’Independent per il Medio Oriente. Le cattive notizie: non credo affatto che Murdoch abbia mai interferito personalmente con gli eventi appena descritti. Non ne aveva bisogno. Aveva trasformato il Times in un docile quotidiano pro-Tory, filo-israeliano, privo di qualunque indipendenza editoriale. Certo, se non avessi vissuto per tanto tempo in Medio Oriente, ci avrei messo di più a capire tutto.

Ma lavoravo in una regione in cui quasi ogni giornalista arabo conosce bene l’importanza dell’autocensura – o censura diretta – e in cui i re e i dittatori non hanno bisogno di impartire ordini. Hanno satrapi, vassalli e ufficiali di polizia – e governi “democratici” – che conoscono i loro desideri, sanno cosa gli piace e cosa non gli piace. E tutti fanno esattamente ciò che pensano che il padrone desideri. Ovviamente tutti mi dicevano che non era vero e proseguivano affermando che il loro re/presidente aveva sempre ragione.

Nelle ultime settimane, ho ripensato a cosa abbia significato per me lavorare per Murdoch, a cosa ci fosse che non andava, all’esercizio del potere per interposta persona. Perché non si poteva in nessun caso dare la colpa a Murdoch. Murdoch era più califfo che mai, non responsabile di un editoriale o di una “storia” più di quanto un presidente siriano sia responsabile di un massacro – quest’ultimo sarebbe stato sempre perpetrato in base agli ordini di governatori che avrebbero poi potuto essere processati o licenziati o mandati a fare i consiglieri di un primo ministro – e il capo avrebbe invariabilmente nominato suo figlio come successore. Pensate ad Hafez e Bashar Assad o a Hosni e Gamal Mubarak o a Rupert e James. In Medio Oriente, i giornalisti arabi sapevano cosa volevano i loro padroni e contribuivano a creare un deserto giornalistico, senza più l’acqua della libertà, una versione della realtà completamente distorta. Lo stesso accade nell’impero di Murdoch.

Nel mondo sterile dei Murdoch, le nuove tecnologie erano usate per privare le persone della libertà di parola e della privacy. Nel mondo arabo, i potenti sopravvissuti non avevano problemi nel nominare primi ministri addomesticati. Chi non risica, non rosica.

 

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