Il mio meccanico? E’ una spia

Fonte: http://www.iljournal.it/2011/il-mio-meccanico-e-una-spia/258054

Giorgio Conforto è stata una spia italiana al servizio del KGB russo. Lo ha rilevato nel 1999 il rapporto Mitrokhin, dal nome dell’agente segreto russo che consegnò ai nostri servizi segreti sei casse di rapporti sulle attività dei servizi sovietici nel nostro paese. Tra i nomi delle spie c’era anche quello di Conforto il quale ufficialmente faceva il dirigente del Ministero dell’Agricoltura. Il 9 luglio del 2006 su La Stampa è uscita l’intervista che vi proponiamo nella quale Conforto racconta i segreti delle spie. L’occasione fu l’uscita di un libro dello stesso Conforto, che si chiama “Professione spia”. Un libro introvabile in libreria al contrario di quanto avviene nella Rete.
Leggendo le vicende dei tre italiani, Luca Boero (professione body guarda di una discoteca), Vittorio Carella (professione metronotte) e Antonio Cataldo (professione idraulico), liberati dalle prigioni di Tripoli lo scorso 21 agosto e sulla cui attività ancora c’è un mistero fittissimo, viene da chiedersi se fossero spie e se rispetto a quanto disse Conforto nel 2006, oggi sono cambiate molte cose intorno a questa “professione”.

Chi recluta le spie e come?
Non c’è una regola precisa. In genere, al Sisde (servizio segreto civile) vanno i migliori poliziotti. Al Sismi (servizio segreto militare) ufficiali delle Forze armate e sottufficiali dei Carabinieri. Ma questa è una prassi superata. Da quando c’è un generale della Guardia di finanza alla direzione del Sismi e un generale dei Carabinieri alla guida del Sisde, i nostri servizi segreti hanno praticamente espulso dai quadri dirigenti gli ufficiali dell’Esercito e della Marina e si sono innervati con ottimi investigatori di polizia. Oltre al travaso dai corpi armati dello Stato, c’è poi la terza via: quella familiare. Tra Sisde, Sismi e Cesis (il terzo servizio segreto, nato per coordinare gli altri due, nel tempo lievitato in numeri e funzioni) è pieno di figli subentrati ai padri. Comunque è bene precisare: non si entra nei servizi segreti per concorso, ma per chiamata. E’ chiaro che una buona raccomandazione aiuta.

Quante sono e quanto guadagnano?
In teoria la materia è coperta da segreto. Da quanto si sa, gli 007 italiani dovrebbero essere circa diecimila: cinquemila al Sismi, duemila al Sisde, un po’ meno di mille al Cesis, tremila al Ris (il Reparto Informazione e Sicurezza, incardinato nello Stato maggiore della Difesa, raccoglie i vecchi Sios, servizi segreti di forza armata). Ognuno di questi agenti segreti ha una sua rete di informatori, più o meno organizzata, più o meno consapevoli di fornire notizie ai servizi segreti della Repubblica. Anche la retribuzione varia: allo stipendio base di due-tremila euro (che non si perde: nei servizi si entra e si esce con molta facilità) va aggiunta la cosiddetta «indennità di cravatta», nata in origine come rimborso per l’acquisto di vestiti al posto delle divise, che può far quadruplicare la busta paga. Ci sono i «bonus» a discrezione del direttore. E per gli informatori, i fondi riservati non hanno limite. In Iraq le spese per l’intelligence sono state spaventose: in tre anni, circa 30 milioni di euro.

Chi li addestra?
C’è ovviamente una scuola per spie. Sia il Sismi che il Sisde hanno i loro corsi di preparazione. Il direttore della Scuola di Addestramento del Sisde spesso scrive anche sulla rivista del servizio, «Gnosis», ma non è dato conoscere il suo nome. Anche il discorso che il ministro dell’Interno tiene alle aspiranti spie viene reso pubblico. Ma sempre a cose fatte.

Sono come 007? Hanno licenza d’uccidere?
Nessuna licenza: è il paradosso dello spionaggio italiano. La legge stabilisce che le spie devono fare il loro lavoro, ma si devono guardare le spalle dalla magistratura perché non gli è concesso infrangere il codice penale. Molto si è parlato di una nuova legge che stabilisse le cosiddette «garanzie funzionali», cioè la possibilità di commettere piccoli reati, quali l’intercettazione telefonica o l’effrazione di un domicilio, avendo una speciale autorizzazione dall’alto. Ma siccome in Parlamento non si sono mai messi d’accordo su chi avrebbe dovuto autorizzare e poi vigilare, vige ancora il paradosso delle spie che non possono spiare.E non hanno caratteristiche fisiche alla James Bond, in genere sono persone dall’aspetto normale ma molto sveglie.

Da chi dipendono?
Quella dei servizi segreti è una piccola piramide. In cima c’è il presidente del Consiglio che in genere delega a un sottosegretario i rapporti con l’intelligence. Sotto di lui c’è il segretario generale del Cesis, a cui spetta il coordinamento tra i servizi segreti. Il direttore del Sisde risponde anche al ministro dell’Interno; quello del Sismi al titolare della Difesa.

Chi ne determina le strategie?
Il presidente del Consiglio emette delle direttive. I due ministri (Interno e Difesa) danno le loro indicazioni. Il resto del governo, di fatto, non ha alcun ruolo.

Chi stabilisce cosa sia la sicurezza nazionale? Noi, gli americani, l’Europa, Dio?
La risposta politicamente corretta è semplicissima: il governo legittimo. È Palazzo Chigi che stabilisce che cosa sia la sicurezza nazionale, e infatti il presidente del Consiglio ha il potere di coprire alcuni atti con il Segreto di Stato. La realtà è più complicata: è evidente che gli americani hanno sempre influenzato molto, per usare un eufemismo, le scelte dei nostri servizi. Già nella scelta degli uomini. Nei fatti i direttori dei servizi segreti sono stati i sacerdoti supremi di certo atlantismo. C’è stato un caso famoso, nei primi Anni Settanta, quando il generale Vito Miceli, direttore del Sisde, non voleva dare ad Andreotti il Nulla Osta di Sicurezza, cercando di bloccargli la nomina a ministro. Andreotti si offese moltissimo.

Quando cambiano i governi, le consegne devono essere passate in toto ai nuovi o ci sono delle zone d’ombra?
Naturale che le zone d’ombra ci siano. Non per nulla la storia d’Italia è intessuta di trame: potenti dc che fanno le scarpe ai loro concorrenti interni, democristiani contro socialisti, ora l’alternanza tra destra e sinistra. E volete che un governo uscente vada a raccontare i suoi segreti più reconditi a chi lo scaccia? Li scoprano da soli, se sono bravi.

È possibile che ci siano dei doppiogiochisti. E in genere per chi lavorano, per i palestinesi, per il Mossad, per gli americani, per i russi, per chi?
Doppiogiochisti ci sono nei migliori servizi segreti, figurarsi in quelli italiani. Dentro il Sismi da un decennio c’è in corso una caccia al doppiogiochista di cui si conosce solo il nomignolo, il Verme, che lavorava per i sovietici e oggi probabilmente è passato ai russi. Di Pazienza s’è detto che fosse troppo intimo con i servizi segreti francesi. Nel vespaio mediorientale, poi, si può essere amici e nemici allo stesso tempo.

Se li prendono, i doppiogiochisti, che ne fanno?
Non finiscono mai in galera. Li utilizzano. Ossia diventano canali privilegiati per scoprire quanto sanno gli avversari. E per disinformarli. Vengono trasmesse informazioni false per vedere l’effetto che fa. Si cerca di stimolare il dialogo. Poi, quando il gioco si è esaurito, viene caldeggiata una lunga vacanza all’estero.

Che cosa succede quando c’è un episodio clamoroso (un attentato, una strage, un aereo che cade)? Si forma un’unità di crisi? Da chi è diretta, chi è informato di quello che fa?
I servizi segreti vengono subito allertati. Anzi, a rigore dovrebbero essere loro ad allertare il governo e tutti gli altri. Sia a Forte Braschi (dove ha sede il Sismi), sia a via Lanza (sede centrale del Sisde), esistono sale operative supertecnologiche, dotate di computer, reti criptate di comunicazione, mappe satellitari e quant’altro che aiuta i dirigenti a prendere le decisioni più difficili. Ma la moltiplicazione delle sale operative non significa molto. Le decisioni che contano poi vengono regolarmente prese in un salottino di Palazzo Chigi, alla presenza di chi davvero conta. Ai tempi della crisi di Sigonella, l’allora direttore del Sismi, il compianto Fulvio Martini, s’installò a Palazzo Chigi per giorni e non ne uscì finché non fu tutto finito.

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