Ali Agca. Il lupo e la sua preda

Fonte: http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=760&biografia=Ali+Agca

Che Karol Wojtyla fin dall’inizio del suo mandato volesse far cadere il regime comunista non è un mistero. E siccome il comunismo non è mai stato tenero con i suoi oppositori pare naturale che il Kgb si opponesse a questo disegno in modo feroce, risoluto, tanto da tentare il colpo clamoroso: uccidere il Papa. Un colpo che se fosse riuscito sarebbe stato fra i più clamorosi del secolo.
La posta in gioco era troppo alta e il Kgb non aveva nessuna intenzione di esporsi in primo piano, soprattutto in previsione di un possibile fallimento, che fortunatamente si verificò. Così gli agenti del servizio segreto sovietico si rivolsero a quelli dei servizi bulgari, i quali fecero pressione sui colleghi turchi affinché si trovasse un killer disposto a sparare al Santo Padre.

Venne designato allo scopo Alì Agca, un fanatico invasato, con l’inclinazione al martirio di stampo religioso e, a quanto si dice, dalla mira infallibile. Il problema però era che Agca a quel tempo risiedeva in una prigione di massima sicurezza. I servizi segreti tuttavia non ci misero nulla a farlo evadere per poi farlo confluire nell’organizzazione di estrema destra soprannominata “Lupi grigi”, già ben conosciuta da Agca, guidata dal torvo Oral Celik. Per conto dell’organizzazione nel 1979 Agca si macchia di un delitto orrendo: l’uccisione dell’inerme Abdi Ipekci, giornalista e direttore del quotidiano liberale “Milliyet”.

E’ il 13 maggio 1981 quando Ali Agca è presente in piazza San Pietro pronto a compiere il suo turpe gesto. Una volta premuto il grilletto però la pallottola esplosa dal turco miracolosamente lascia illesi gli organi vitali del Santo Padre: il pontefice affermerà con ferma e convinta fede che il colpo fu deviato dalla provvidenziale mano della Madonna di Fatima.

Il terrorista, nato il 19 gennaio 1958 a Yesiltepe in Turchia, nella provincia di Malatya ai confini del Kurdistan, viene così arrestato e sottoposto agli interrogatori di rito.

Il 22 luglio 1981, dopo tre giorni di processo, i giudici della corte di Assise, condannano Mehmet Ali Agca all’ergastolo, in base alle risultanze processuali, le quali chiariscono, contrariamente a quanto strenuamente sostenuto dalla difesa, tutta tesa a presentare Agca come un fanatico in preda a delirio e in cerca di gloria nel mondo musulmano, che il vile attentato “non fu opera di un maniaco, ma venne preparato da un’organizzazione eversiva rimasta nell’ombra“. I giudici, per quanto inabili a provare in modo ferreo il complotto, non credono all’infermità mentale di Ali Agca o a presunti delirii mistici. Il terrorista, conscio della sua posizione di totale inferiorità, rinuncia a presentare appello.

L’anno seguente un’altra sentenza clamorosa si abbatte sul capo di Agca: il Consiglio nazionale di sicurezza turco riconosce la sua responsabilità nell’assassinio del giornalista e lo condanna alla pena di morte. Una successiva amnistia, frutto dei misteriosi meccanismi giudiziari turchi, lo condona però ad una pena di soli dieci anni di detenzione.

Sorprendendo tutti nel 1982 Ali Agca cambia la sua versione difensiva e comincia ad ammettere l’esistenza di una pista bulgara che collegherebbe l’attentato al Papa Giovanni Paolo II ai servizi segreti della Bulgaria. Emerge finalmente anche il nome del presunto complice, Oral Celik, che, a sentire Agca, sarebbe intervenuto in caso di fallimento. Agca sembra pentito, quasi redento: il suo spirito appare collaborativo e teso a risolvere i misteri che lo circondano.

Il 20 febbraio 1987 Papa Giovanni Paolo II riceve la mamma ed il fratello di Agca che gli chiedono di intercedere per la grazia. In seguito il Pontefice farà più volte visita al suo attentatore in carcere, in una serie di commoventi colloqui che hanno dimostrato a tutto il mondo la grande umanità e il superbo spessore spirituale di Karol Wojtyla.

Se la grazia ancora non arriva, la sua buona condotta in carcere consente ai magistrati di diminuire ulteriormente la pena: il 25 maggio 1989 il Tribunale di sorveglianza di Ancona concede una riduzione di 720 giorni di reclusione; il 9 gennaio 1994 la riduzione è di altri 405 giorni; il 18 dicembre 1995 è di 180 giorni.

Tali provvedimenti consentono di abbreviare il termine di 26 anni di reclusione, scontati i quali un ergastolano può chiedere la libertà condizionale. Agca nel settembre del 1996 presenta nuovamente la domanda di grazia o, in subordine, l’espiazione della pena in Turchia.

Il 13 giugno 2000 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi concede la grazia: il giorno seguente Ali Agca viene estradato dall’Italia e giunge ad Istanbul.

In Turchia, nel carcere di massima sicurezza di Kartal, Ali Agca avrebbe dovuto scontare i dieci anni per l’assassinio del giornalista Abdu Ipekci ma, il 18 luglio 2001, un provvedimento del Tribunale costituzionale turco predispone un allargamento dei reati beneficiari di amnistia, per il quale Ali Agca potrà tornare in libertà.

Nel gennaio del 2006, anche per buona condotta, Agca viene scarcerato. Dopo poco la Corte di cassazione, su appello del ministro della Giustizia turco, decide per il suo ritorno in carcere. Agca fa perdere le sue tracce, ma in pochi giorni la poliza lo rintraccia e lo arresta senza che questi opponga resistenza. Viene reso libero nel gennaio del 2010.

Le case chiuse e la legge Merlin

Fonte: http://www.storiaproibita.it/blog/?p=57

Le prostitute sono diventate oggi parte integrante del tessuto urbano, costellano le periferie, popolano strade inanimate, appaiono come fantasmi in luoghi dove non ci si aspetterebbe mai una presenza umana. Sono lì, ai margini di grandi arterie stradali o sotto a un cavalcavia, a ricordare l’incapacità della nostra società di fare i conti con il mercato del sesso a pagamento.

Ma un tempo l’iconografia della prostituta era diversa, non sulla strada ma nelle stanze di appartamenti più o meno lussuosi o al contrario più o meno stamberghe. Erano però chiuse, le persiane accostate, i vetri oscurati, per motivi di tutela del comune senso del pudore e soprattutto per la privacy di chi le frequentava. E a specificare l’obbligo della chiusura, esisteva una precisa legge sin dal 1888 che obbligava le case a tenere serrate le persiane con tanto di catene.

Erano nate in Francia così sembra, e lì si chiamavano maisons de tolérance. Cavour le portò in Italia insieme all’unificazione del paese: l’accentramento amministrativo di fine ‘800 riguardò anche le prostitute, schedate e controllate settimanalmente da un medico. In cambio lo Stato beneficiava di tasse e balzelli su un lavoro certo non granché tutelato: le otto ore lavorative erano ben lontane e più si lavorava più si guadagnava.

La struttura delle case chiuse era più o meno omogenea, sia che si trattasse di case di lusso frequentate dalla buona borghesia che si trattasse invece di quelle di categoria inferiore, affollate per lo più da soldati, contadini e gente di passaggio. All’ingresso si trovava il salone e il bar, dove ammirare e scegliere le ragazze. Ai piani superiori, di norma, le camere da letto dove consumare il proprio momento di passione. Lo standard della ‘professione’ all’epoca era da stakanovisti: dalle 30 alle 50 marchette al giorno e per non più di 15 giorni, poi la ragazza veniva cambiata come uno strofinaccio.

L’iniziazione degli uomini prevedeva un passaggio in una di queste case intorno ai 18 anni. Era una tradizione assolutamente diffusa e comune e tale è rimasta anche in tempi molto molto recenti.

Già dal 1948 in Italia fu vietata la concessione di nuove licenze, ma il provvedimento di chiusura, la notissima legge Merlin, fu approvato solamente nel 1958, a dieci anni dalla sua presentazione e dopo aver superato diverse resistenze. La legge Merlin fu approvata a scrutinio segreto con 385 si e 115 no il 29 gennaio del 1958. A favore della chiusura si schierarono tutti i partiti di sinistra e la democrazie cristiana. Contrari al provvedimento invece si dichiararono i monarchici, l’MSI e qualche indipendente. Fra i personaggi famosi contrari alla legge, il più noto è sicuramente Indro Montanelli che al mondo delle case chiuse dediò un appassionato pamphlet “Addio Wanda”.

Oggi il dibattito sulla prostituzione continua ad infiammarsi con ciclica regolarità, diviso fra le polemiche per i rischi di una prostituzione costretta nella strada e le richieste di modifiche e diritti portate avanti dalle associazioni delle prostitute.

Approfondimenti:

storia delle case chiuse

bibliografia su prostituzione e case chiuse

il testo della legge Merlin

Il gioco Puttanopoly ideato dalle associazioni delle prostitute

Zero²

Fonte: http://www.megachipdue.info/tematiche/guerra-e-verita.html

Tantissimi elementi aggiornano l’inchiesta sull’11/9 nel nuovo libro curato da Giulietto Chiesa per le edizioni PIEMME.

Hanno vinto, non c’è dubbio, su molti fronti. Sono riusciti a innescare
la guerra infinita, che ha già visto tre capitoli mortiferi,
ma di taglia limitata, come l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia. Tre
guerre vili, combattute in prevalenza dall’alto, con una superiorità
tecnologica schiacciante. Sono solo anticipi di ciò che si
prepara. Partite che servono per creare disordine e moltiplicare
la paura, e che sono vinte in anticipo. Ma in Afghanistan non
sono loro a decidere quando si chiuderà la partita. E, per quanto
riguarda l’Iraq e la Libia, i conti veri si faranno sul lungo periodo….(continua su http://api.edizpiemme.it/storage/village/2011/09/08/566-2279.pdf)

Rifiuti Brescia, quello che l’inchiesta non dice

Scritto da: Diego Barsotti
Fonte: http://greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=13514

La premessa è d’obbligo: nulla possiamo dire nel merito dell’inchiesta che ha portato all’arresto di 10 persone in Lombardia, tra cui il vicepresidente del Consiglio regionale Franco Nicoli Cristiani, ex assessore per due legislature in quota Pdl. La procura della repubblica di Brescia farà il suo lavoro e se saranno confermati i gravi indizi che hanno fatto scattare le manette per politici, dirigenti e imprenditori, ci auguriamo che i responsabili paghino il loro debito.

Quello che possiamo e dobbiamo dire è che non è reato costruire discariche per l’amianto, non è reato costruire impianti di trattamento dei rifiuti e non è reato riutilizzare le scorie delle acciaierie per sottofondi stradali. Quello che è reato è il fare queste cose in modo non corretto e non rispettando la legge, magari pagando o intascando tangenti al fine di far passare come corrette certe operazioni.

Andiamo nello specifico. Le discariche di amianto sono fondamentali in ogni paese civile. In Italia purtroppo dobbiamo usare il condizionale: sarebbero fondamentali, perché in realtà non ne abbiamo. L’amianto infatti se viene smaltito sottoterra seguendo le procedure corrette  rimineralizza e non provoca alcun danno alle persone e all’ambiente. E’ questo il modo più sostenibile per smaltire le tonnellate di eternit prodotte in tutto il ventesimo secolo.  Viceversa abbandonato nei cassonetti o lasciato a sgretolare sui tetti abbandonati costituisce un rischio sanitario enorme. In Italia non essendoci discariche o moduli di discariche ad hoc per ospitare l’amianto siamo costretti a inviarlo nelle cave tedesche, con costi altissimi sia dal punto di vista economico (i tedeschi ovviamente si fanno pagare per la gestione corretta dell’amianto) che ambientale (camion in su e in giù per la penisola, a inquinare e intasare le strade).

Poi è ovvio che se la discarica in questione non è stata progettata correttamente o se sono girate tangenti o se sono stati falsificate analisi, è bene che la giustizia punisca i responsabili: ma il male non è la discarica di amianto in sé, bensì la gestione non corretta di questo strumento.

Stesso discorso per l’impianto di trattamento dei rifiuti – uno strumento, anch’esso, al servizio della corretta gestione del ciclo integrato dei rifiuti – e per le scorie delle acciaierie utilizzate come sottofondo stradale dell’autostrada BreBeMi: è infatti cosa assolutamente buona e giusta utilizzare alcune delle scorie della acciaierie come sottofondi stradali, a patto però che queste scorie siano trattate in modo corretto, rispettando i parametri stabiliti dalla legge. Riutilizzare tali rifiuti infatti è una pratica virtuosa che consente di vendere rifiuti che diventano risorsa, evitare di consumare suolo cioè di buttare materiale in discarica (pagando il gestore della discarica). E infine consente di evitare l’escavazione di materiale vergine, consumando ulteriormente il pianeta.

Serial killer di sciamani peruviani

Fonte: http://www.salvaleforeste.it/201111081591/serial-killer-di-sciamani-peruviani.html

Il governo del Perù ha reso noto che quattordici sciamani nel nord-est del paese sono stati uccisi nel corso degli ultimi venti mesi. L’ufficio del procuratore provinciale sostiene che questi omicidi siano stati ordinati da Alfredo Torres, il sindaco di Balsa Puerto, e realizzati dal fratello. Il leader indigeno Roger Rumrrill sostiene queste uccisioni sono parte di una più ampia caccia alle streghe organizzata dai due fratelli,  membri di una sconosciuta setta protestante.

L’ufficio del procuratore provinciale ha fatto sapere che gli assassini sarebbero stati ordinati dal sindaco di Balsa Puerto, Alfredo Torres, e realizzati dal fratello, Augusto, localmente conosciuto come “il cacciatore di streghe”. Solo sette corpi sono stati rinvenuti, tutti di sciamani uccisi con colpi di arma da fuoco, coltellate o colpi di machete.  Altri sette sciamani risultano scomparsi. Secondo il ricercatore Rogger Rumrill, Torres e il fratello appartengono a una setta protestante che considera gli sciamani sono posseduti dal demonio, e che ritiene debbano essere uccisi “.
Torres nega le accuse, sostenendo che gli sciamani, tutti e quattordici, sono stati uccisi dalle famiglie scontente dei loro servizi.

Uno degli sciamani destinati alla morte è però riuscito a sopravvivere. Inüma Bautista, APU shawi della comunità del Paradiso, è stato colto in un’imboscata, ma sopravvissuto ai colpi di machete, che hanno comunque causato la perdita di un braccio e lasciato profonde cicatrici in tutto il corpo. Dopo essersi ripresi dalle ferite, Inüma Bautista ha testimoniato sul coinvolgimento Augusto Torres, fratello del sindaco di Balsa come uno dei killer. Contemporaneamente uno dei presunti killer, Salomone Napo, è apparso in un video, in cui confessava il suo coinvolgimento nella morte di Mariano Apuela.

Gli sciamani, tutti membri della comunità Shaui, stavano progettando di avviare un’associazione volta a condividere le loro conoscenze tradizionali. La Fondazione di Studi Sciamanici ha chiesto alle autorità peruviane di agire per affrontare queste atrocità, e per prevenire nuovi omicidi.
La tensione è ancora alta fra il governo peruviano e le comunità indigene, dopo le violenze del 2008. Il nuovo governo sembra però aver cambiato approccio. Ollanta Humala non è Evo Morales, ma il fatto che il governo si sia attivato per fare luce sul caso rappresenta già una novità positiva.

“La morte di questi sciamani non rappresenta solo una tragica perdita della vita, ma la perdita di un enorme corpo di conoscenze sulle piante della foresta pluviale e gli sciamani ruolo cruciale giocare nella medicina tradizionale e guida spirituale nelle comunità indigene”.

Maya: una nuova interpretazione conferma la data del il 21 dicembre 2012 ma esclude la fine del mondo

Scritto da: Francesca Mancuso
Fonte:http://www.nextme.it/rubriche/misteri/2821-maya-2012

La fine del mondo tra un anno circa? No, secondo le ultime scoperte. Quanto rivelato dall’interpretazione della Profezia Maya potrebbe non avverarsi. Uno studioso australiano, Sven Gronemeyer, della Trobe University, avrebbe dato una nuova lettura ai testi dell’antico e misterioso popolo. Secondo lui, ciò che i Maya hanno predetto non riguarderà la fine del mondo, così come la immaginiamo, ma il passaggio ad un’altra era.

La sua nuova interpretazione è stata presentata per la prima volta ieri presso uno dei posti più suggestivi legati ai Maya, il sito archeologico di Palenque, nel Messico meridionale.

Dopo aver esaminato la tavoletta di pietra scoperta a Tortuguero (chiamata Tortuguero 6), nello Stato messicano di Tabasco, lo studioso australiano ha riferito che l’annunciata fine del mondo, letta dagli occhi dei Maya, altro non sareebbe che il ritorno del dio Bolon Yokte alla fine del tredicesimo periodo di 400 anni, che coincide, indovinate un po’, proprio con il 21 dicembre 2012.

Niente scenari apocalittici, mega eruzioni vulcaniche, violenti tsunami, eruzioni solari e asteroidi in agguato dietro l’angolo. Ciò che la tavoletta Maya nasconde, secondo Gronemeyer, è la fine di un periodo lungo 5.125 anni dall’inizio del calendario maya, ossia dal 13 agosto 3114 a.C.

Inoltre, secondo lo studioso, la pietra contiene una profezia dell’allora sovrano Bahlam Ajaw, che avrebbe dunque annunciato il ritorno del dio Maya. Secondo il sovrano, Bolon Yokte, dio della creazione e della guerra, sarebbe apparso proprio il 21 dicembre in un santuario di Tortuguero. “Si tratta pur sempre del passaggio di un dio e non necessariamente di un grande salto per l’umanità” ha ribadito Gronemeyer.

Secondo l’esperto dunque “i calcoli sul calendario Maya indicano il completamento della tredicesima Bak’tun, o più semplicemente la fine di un periodo e la transizione verso un nuovo ciclo, anche se tale data è stata caricata da un valore simbolico legato al giorno della creazione“. Peccato però che la tavoletta in pietra di Tortuguero abbia una crepa che ha del tutto cancellato l’ultima iscrizione.

Possiamo dormire sonni tranquilli, dunque. Ma proprio qualche giorno fa è stata ritrovata una nuova tavoletta Maya che farebbe riferimento ancora una volta al 2012. Il luogo del ritrovamento è stato il tempio Maya di Comalcalco, sempre in Messico. Ad annunciarlo è stato l’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) del Messico. Tuttavia, secondo gli esperti messicani non vi sarebbe alcun riferimento alla fine del mondo.

 

Via Fani: istantanee di una strage

Scritto da: Paolo Benetollo
Fonte:
http://www.pagine70.com/vmnews/wmview.php?ArtID=708

L’uomo si alzò all’alba,come ogni giorno. Di mestiere faceva il venditore ambulante di fiori, e stazionava giornalmente all’angolo tra via Fani e via Stresa. Ma quella mattina del 16 marzo 1978 perse il suo appuntamento con la storia. Perché qualcuno, la sera prima, tagliò i quattro copertoni del furgoncino con il quale si recava al lavoro. E così, sacramentando,dovette restare a casa. Forse,se avesse potuto recarsi con un altro mezzo al lavoro, avrebbe avuto l’occasione di vedere da vicino la scena di uno dei crimini più gravi della storia dell’Italia repubblicana, quella che è conosciuta come l’eccidio di via Fani.
Ma erano tante le case della capitale dove alcuni uomini avevano un appuntamento con il destino.
Uno di questi era il maresciallo Oreste Leonardi. 52 anni, torinese, istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo di Viterbo, da quindici anni guardia del corpo dell’onorevole Aldo Moro. Come ogni giorno si alzò presto,prese il caffè e lo portò alla moglie.
Andò nell’armadio e prese alcune pallottole, dopodiché si recò all’appuntamento con l’uomo che doveva scortare,come ogni giorno. Quell’uomo era Aldo Moro, di cui era un amico personale.
Nel frattempo, in via Montalcini 8,interno 1, una donna,Laura Braghetti, salutò degli uomini, che uscirono furtivamente, e si preparò ad ascoltare, nervosamente, la radio. Se l’operazione a cui partecipava avesse avuto un esito postivo, lei sarebbe stata tra le prime a saperlo. Perché è nell’appartamento in cui abita che verrà portato il sequestrato. L’appartamento ha un’intercapedine,piccola,nella quale con ingegnose modifiche, è stata costruita una piccola cella, nel cui interno sono stati posti un lettino, un tavolino, un wc chimico. Sulla parete campeggia una stella a cinque punte, che diventerà tristemente famosa.
Un altro uomo si preparò per recarsi in via Fani. Era uno dei dirigenti, uno di quelli che aveva meticolosamente preparato,assieme alla direzione strategica, il piano dell’agguato. Il suo nome Franco Bonisoli, l’uomo che aveva scoperto, fuori dalla chiesa di santa Chiara, nella quale Moro si recava quotidianamente ad ascoltare Messa, che la Fiat 130 nella quale viaggiava non era blindata.
Non era un esperto d’armi, e controllò per l’ennesima volta che la pistola con cui avrebbe sparato quel giorno fosse carica. Si era esercitato in campagna, in alcune grotte, per mesi. Ma nonostante ciò non si sentiva materialmente pronto.
Altre 11 persone nel frattempo si sono messe in moto.Ognuna ha un compito ben definito, non c’è spazio per l’improvvisazione. Anche se le icognite che pesano sull’obiettivo sono tante.
Via Mario Fani, qualche minuto dopo le 8,30.
All’angolo con via Stresa, di fronte al bar Olivetti, alla fermata del bus, ci sono due figure: portano divise dell’Alitalia; contemporaneamente,dietro la siepe, quattro persone sono nascoste con le armi in pugno, e aspettano nervosamente il momento per entrare in azione.
Su un lato della strada è parcheggiata una 128 bianca, targata CD19707.A bordo c’è Mario Moretti, massimo dirigente e responsabile delle Br.
L’attesa del gruppo è spasmodica:qualcuno,prima di entrare in azione “ha dovuto bersi un cognacchino”,come diranno i brigatisti in uno dei processi sul caso Moro.
Proviamo ad immaginare una scena altenativa: posizioniamoci all’interno della 130 che viaggia verso via Fani,scendendo da Via Trionfale. Alla guida c’è l’appuntato Domenico Ricci, al suo fianco Oreste Leonardi, con la sua pistola d’ordinanza chiusa in un borsello di plastica. Dietro c’è Aldo Moro,immerso nella lettura dei suoi appunti: quel giorno deve presentare una bozza di governo, il primo con l’appoggio,anche se solo esterno,del Partito Comunista Italiano. Al suo fianco le inseparabili borse: quelle dalle quali è difficile che si stacchi, che avrebbero in seguito alimentato polemiche a non finire con la loro misteriosa scomparsa.
Ricci guarda nello specchietto: lo fà per abitudine, segue sempre con lo sguardo l’Alfetta guidata dalla guardia di PS.Giulio Rivera, coadiuvato dal brigadiere di PS Francesco Zizzi e dalla guardia di PS Raffaele Iozzino. Segue come un’ombra la 130,lungo la discesa di Via Fani. Quello che segue avviene in un attimo, ed è stato ricostruito con un lavoro paziente, nonostante il quale ancor’oggi si nutrono forti perplessità: da via Stresa una 128 bianca fa retromarcia,mentre dal lato di Via Fani la 130 con a bordo Aldo Moro frena di colpo. E’ solo un attimo,ma Ricci non fa in tempo a frenare di scatto. La sorpresa è stata totale, i tempi dell’agguato sono scanditi in maniera a dir poco eccezionale. La 130 è bloccata,per qualche istante sembra che il tempo si fermi: da dietro le siepi del bar Olivetti sbucano quattro persone armate, una parte del commando è già in azione per bloccare il traffico in ogni direzione; disperatamente Ricci cerca di uscire dal budello in cui è bloccato.Troppo tardi: una tempesta di piombo si abbatte sulle auto. Nella 128, Moretti innesta la retromarcia,rendendo impossibile qualsiasi spazio di manovra. Quasi simultaneamente cadono sotto la tempesta di piombo Leonardi, Ricci.
Iozzino no: tenta una disperata reazione,esce pistola in pugno, ma è abbattuto a tradimento:qualcuno lo colpisce alle spalle. Zizzi non è morto, ma è fuori combattimento.
Pochi minuti, e tutto è compiuto. Aldo Moro viene scaraventato giù dall’auto,mentre due brigatisti lo sorreggono; non è ferito, ma questo lo si saprà solo in seguito. Qualcuno afferra anche le preziose borse di Moro. La scena della strage non è però occupata solo dai brigatisti: poco più giù,stà arrivando con il suo motorino, l’ingegner Marini, che ha il tempo di guardare la scena:ma solo per pochi secondi. Una Honda, su cui viaggiano due persone,esplode una raffica di mitra verso di lui, colpendo il parabrezza del motorino. E’ così profondo lo choc, che Marini non riuscirà a dare un quadro personale della dinamica dei fatti. Qualcuno, intorno,si è reso conto che qualcosa di grave è avvenuto:sono da poco passate le 9,00. Un giornalaio, che ha la sua edicola a pochi metri dal luogo dell’agguato, racconterà che suo figlio, attratto dal rumore degli spari, è accorso sul posto dell’eccidio, giusto in tempo per vedersi puntare in faccia una pistola. Giuseppe Marrazzo,inviato del Tg2, intervistò una signora, che aveva seguito le fasi finali dell’agguato: la donna dichiarò che Moro camminava al fianco di un giovane, ma tranquillamente,non in modo concitato; che aveva ascoltato nitidamente la voce di una donna; che aveva ascoltato una voce gridare ” lasciatemi “;
che Moro era stato caricato in una 128 blu scuro, che scomparve verso via Trionfale.
Torniamo per un attimo sulla scena dell’agguato: fermiamo con una macchina fotografica ideale le varie scene che si succedono agli occhi di ipotetici spettatori.
Riverso al suolo giace Raffaele Iozzino, con la pistola a due passi.
Ha il volto esanime, guarda verso il cielo, con le braccia spalancate. Ha solo 25 anni, era nato in provincia di Napoli, a Casola, nel 1953.
Domenico Ricci è riverso, quasi adagiato sul corpo di Leonardi. Aveva 42 anni, da 20 anni era l’autista di fiducia di Moro. Era nato a San Paolo di Jesi,nel 1934. Lascia la moglie e due bambini. Al suo fianco giace Oreste Leonardi, il volto coperto di sangue. Era nato nel 1926, a Torino. Lascia la moglie e due figli.
Gli altri due uomini della scorta hanno destini diversi : Francesco Zizzi, nato a Fasano nel 1948, capo equipaggio, muore durante il trasporto all’ospedale Gemelli di Roma.
Giulio Rivera, 24 anni, nato nel 1954 a Guglionesi, in provincia di Campobasso, muore all’istante, crivellato da otto pallottole.
Cinque vite annientate in pochi secondi,da quella che i giornali chiameranno “geometrica potenza di fuoco”.
Che ha prodotto almeno 93 colpi, i cui bossoli furono materialmente trovati sul luogo della strage. Ma che potevano essere di sicuro di più. Infatti poco dopo arriva Paolo Frajese, inviato del Tg1, per documentare l’accaduto. Lasciamo alle sue parole drammatiche il resoconto immediato di quello che vide, con voce che tutti ricorderanno spezzata in più punti. Una voce attribuita alla forte emozione, ma che in realtà era dovuta alla corse fatta dal giornalista per recarsi sul luogo dell’agguato:
“Ecco la macchina con i corpi degli agenti che facevano parte della scorta dell’on. Moro, coperti da un telo… Vi sono due uomini sulla 130, un altro corpo è sulla macchina che seguiva. I carabinieri stanno facendo i rilievi. Sono quattro morti più un ferito, mi dice un collega, e l’on. Moro è stato rapito. Sembra, mi dice ancora questo collega, che ringrazio, .. .sembra che sia stato anche ferito… guardate i colpi… puoi andare sulla portiera per piacere? … guardate i colpi sparati evidentemente con mitra, con mitragliatori, il corpo di un altro di questi… di questi agenti. Ecco per terra ancora… andiamo qui a destra per piacere… i bossoli… vedete, e poi… ancora a destra… vediamo la borsa, evidentemente la borsa di Moro e il berretto di un… di un… non si capisce che cosa sia, sembra di un pilota… sembrerebbe, no, un berretto probabilmente di un metronotte, sembra forse un berretto dell’Alitalia, ma no, l’Alitalia non ha quei gradi… e il caricatore di un mitra. Forse gli attentatori erano mascherati… può darsi… con una strana divisa! Questa è la scena. Ancora un altro corpo qui a destra… per piacere vieni di qua… stavo pestando inavvertitamente i bossoli… ecco il corpo di un altro, probabilmente uno dei componenti la scorta o forse un passante, non sappiamo ancora, le notizie evidentemente potranno essere raccolte solo in un secondo momento. Il sangue… il sangue per terra, una pistola automatica, ecco… quattro corpi, quattro corpi… qui, alle dieci del mattino a via Fani. Quattro… per terra.Ecco il documento di questa mattinata.Non sappiamo se ci sono testimoni oculari…Proviamo a cercare.”
All’agguato hanno partecipato almeno 11 persone, più i due sulla Honda. Le cui posizioni non saranno mai chiarite completamente,ma che saranno considerate a tutti gli effetti partecipanti all’agguato. Ci sono Mario Moretti, Franco Bonisoli, Valerio Morucci, Barbara Balzerani, Raimondo Etro, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri, Rita Al granati. Quest’ultima all’epoca dei fatti era la moglie di Casimirri, l’unico scampato all’arresto.
I due sulla moto Honda non sono mai stati individuati,anche perché per anni la loro posizione non è mai stata molto chiara.Oggi sappiamo che i loro nomi di battaglia erano Peppe e Peppa.
La Digos è sulle loro tracce.
La battaglia è terminata.Come già detto prima,restano cinque corpi senza vita,dell’onorevole Moro si perdono le tracce. E un mucchio di bossoli. Sparati da molte armi,una delle quali spara 49 colpi,con un contributo evidentemente determinante. Uno specialista. Che contraddice fortemente la versione dei brigatisti, tesa a sminuire la capacità militare del gruppo brigatista. Nelle varie fasi processuali si ipotizzerà più volte la presenza di un killer professionista,colui che poi,in definitiva,avrebbe sparato il più alto numero di colpi. Personaggio emblematico,il cui ruolo varia a seconda delle prospettive in cui ci si pone: un uomo della mafia, forse? Ma mancherà sempre un riscontro di assoluta certezza.
Le armi usate sono disparate: una Smith & Wesson calibro 9 parabellum (8 colpi), una Beretta 52 calibro 7,65 (4 colpi), una pistola mitragliatrice calibro 9 parabellum, una Tz 45 (5 colpi),una Beretta M12 (3 colpi), un Fna o uno Stern (49 colpi). Sono ben 45 i colpi che investono gli uomini della scorta; Ricci, Rivera e Iozzino hanno ricevuto il colpo di grazia. Perché quel giorno,in via Fani, non doveva esserci scampo: era prevista solo l’eliminazione fisica, senza pietà.
Anni dopo Sergio Zavoli, nella sua splendida ricostruzione degli anni di piombo,interrogò diverse persone legate agli avvenimenti di Via Fani,ricostruendone dinamiche e personalità, che appaiono drammaticamente in simbiosi con i giorni che lui chiamò con un’immagine efficace e tagliente “La notte della repubblica”
Ecco qualche passo.
Sergio Zavoli:
“Ha mai pensato di potersi trovare di fronte, e magari per sua stessa scelta, al familiare di una vittima? ”
Franco Bonisoli:
“Sì, ho pensato.. ecco, questo è ancora un mio grosso problema e penso
che mi rimarrà… Non è solo per quella persona, è un po’ per tutte che,
direttamente o indirettamente, mi sento responsabile. Perché, bene o male, è stata una esperienza così forte, così totalizzante, che anche quando magari non c’ero, non mi sento meno responsabile della persona che c’era… Questo è un grosso problema, che rimane, e che ovviamente ognuno riesce ad affrontare con sé, con gli altri, in modo molto personale… ed è sicura- mente, per me, più difficile. Credo che qui non servano le frasi fatte, le dichiarazioni. .. non so, di principio. .. Si può sospendere un attimo, per favore. . . ”
Sergio Zavoli:
“Ma lei che cosa accetterebbe di farsi dire da Eleonora Moro in un ipotetico incontro?
Mario Moretti:
“Tutto, tutto ciò che lei avesse eventualmente da dire. .. Per me può essere anche importante, mi va bene che venga ucciso il personaggio Moretti. È un personaggio dei media, al quale io non tengo minimamente perché la persona Moretti, chi mi conosce, sa che è diversa. Siccome non ho mire personalistiche né politiche, al momento, credo di essere come molti Compagni in una posizione di riflessione, di ascolto e di osservazione attenta della realtà, più che nella posizione di chi ha qualcosa da dire sull’andamento del mondo. Quindi, con animo molto sereno, potrei parlare anche a chiunque abbia sofferto un dolore così forte come la perdita di una persona con cui ha vissuto per tanti anni con emozioni intense. . .
Queste due testimonianze stridono in maniera rilevante con il quadro d’insieme dell’accaduto.
Bonisoli che si emoziona, Moretti che sembra quasi propenso al dialogo.
Due persone scollate dalla realtà. Quella realtà che precipitò un paese in 55 giorni di profondo travaglio, di laceranti divisioni. Giorni che sarebbero culminati con l’ultima fase: quella che portò al sacrificio dell’Onorevole Moro.I giorni più bui del dopoguerra,in cui l’Italia tremò. Ma non caddero le sue istituzioni,la democrazia. Il paese seppe riemergere, il terrorismo si avviluppò su se stesso.
Di via Fani restò solo il ricordo dei caduti, immolati ad una logica oggi completamente incomprensibile, agli occhi di chi non ha vissuto quelli che con un’immagine molto forte, furono definiti i giorni dell’ira.

Le riforme a Cuba seguono la via cinese

Scritto da: Maurizio Stefanini
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/le-riforme-a-cuba-seguono-la-via-cinese/29582

Con Raúl Castro L’Avana ha puntato su un cambiamento molto graduale della propria economia, sulla scia del modello cinese. La Repubblica Popolare è oggi il partner più importante di Cuba; la malattia di Chávez rende incerto l’appoggio del Venezuela.

Sui media internazionali arrivano notizie sulle nuove riforme che stanno venendo alla luce nella Cuba di Raúl Castro. Il 24 novembre, ad esempio, il giornale ufficiale Granma ha annunciato che dal prossimo 20 dicembre saranno aperte nuove linee di credito e altri servizi bancari per venire incontro alle esigenze dei produttori agricoli indipendenti, dei lavoratori in proprio e della costruzione di nuove abitazioni. 

I 150 mila coltivatori diretti cui sono state date in usufrutto terre negli ultimi due anni e i 340 mila altri cittadini che hanno ricevuto licenze per esercitare lavoro autonomo dall’ottobre del 2010 rappresentano l’avanguardia di un settore privato che nelle intenzioni del regime dovrebbe salire dal 15% della forza lavoro registrato nel 2010 al 33% previsto per il 2015. Il 22 novembre un decreto ha parzialmente rimosso le restrizioni che dal 1997 limitavano drasticamente la possibilità di stabilirsi all’Avana per i cubani provenienti da altre province, subordinata alla sola concessione di un permesso speciale. Adesso il permesso non sarà più richiesto per coniugi, figli, nonni e nipoti dei proprietari di abitazioni nella capitale, nè per i portatori di handicap. Lo stesso giorno il settimanale economico Opciones ha reso noto che la società statale delle poste sarà chiusa per essere sostituita da una nuova struttura più snella ed efficiente.

Il 21 novembre è stato annunciato che dal primo dicembre i contadini potranno vendere i loro prodotti direttamente ai turisti. I 2,7 milioni di turisti che si recano ogni anno nel paese sono ormai la principale risorsa economica, ma il turnover è altissimo: una delle ragioni per cui molti visitatori spiegano che non torneranno più è proprio la scarsa qualità e varietà dei generi alimentari disponibili. Il 19 novembre è stata annunciata la soppressione del ministero dello Zucchero, di cui comunque ormai Cuba è divenuta importatrice, e la riforma dovrebbe permettere di ridurre gli uffici che si occupano del prodotto da 178 a 26. Dal 10 novembre è stata autorizzata la compravendita tra privati di case dopo cinquant’anni di divieto che aveva portato a un deficit che secondo cifre ufficiali arriverebbe ad almeno 600 mila abitazioni. Il 31 ottobre Granma ha reso noto un bilancio positivo dell’operazione con cui dal 2008 1,3 milioni di ettari sono stati dati in usufrutto a 146 mila produttori privati: da un -2,5% della produzione agricola nel 2010 a un +10,1% nel 2011. Il primo ottobre è stata legalizzata anche la compravendita tra privati di automobili, prima permessa solo per modelli antecedenti al 1959. E pur se l’acquisto di un’auto nuova è concesso solamente una volta ogni cinque anni, non è più richiesto dare indietro l’auto vecchia.


Una rivoluzione in corso? In realtà la massa di divieti che strangolava la società cubana era tale che togliendone uno al giorno si potrebbe veramente andare avanti per anni, prima di arrivare al salto di qualità vero. Mutatis mutandis, il paragone che viene è quello con il Sudafrica dell’ultimo decennio dell’apartheid, dove si andò avanti molto a lungo, comunicando prima che gente di razze diverse poteva sposarsi, poi che poteva anche vivere assieme perché l’obbligo delle zone residenziali separate era distinto dal divieto di relazioni sessuali interrazziali, e dopo ancora che avrebbe potuto fare il bagno nella stessa spiaggia.  La rivoluzione vera ci fu solo quando de Klerk liberò Mandela e si sedette davanti a un tavolo con lui per decidere le modalità con le quali arrivare al principio “un uomo, un voto”.

 

Inoltre a Cuba tutte queste riforme annunciate a getto continuo erano state già approvate: è il pacchetto di 313 riforme cui diede il via libera il congresso del Partito comunista dello scorso aprile. Ora le stanno solo implementando, con gradualità estrema. È comunque evidente che il modello cui Raúl Castro non è un’apertura politica come quella che ci fu appunto in Sudafrica o nell’Europa Orientale, ma una ristrutturazione economica secondo il comunismo di mercato della Repubblica Popolare Cinese. L’appoggio del Venezuela è importante ma incerto, dati i problemi di salute di un Hugo Chávez cui addirittura la rivista brasiliana Veja non dà più di un anno di vita.

Il Venezuela bolivariano è tuttora in effetti l’alleato che ha preso il posto dell’Unione Sovietica come principale partner dell’isola, ma l’interscambio commerciale con la Cina è salito da 440 milioni di dollari del 2001 a 1,83 miliardi del 2010; a giugno è venuto nell’isola il vicepresidente cinese Xi Jinping a firmare vari accordi bilaterali, e un Istituto Confucio all’Avana appena aperto si è subito trovato con oltre 500 alunni di mandarino.

Per ora, i risultati complessivi delle riforme di Raúl non solo entusiasmanti: l’1,9% di crescita del pil registrato nel primo semestre del 2011 fa dell’isola il fanalino di coda di un’America Latina in vorticoso decollo. Però va anche riconosciuto che dal punto di vista meramente economico questa gradualità ha anche evitato le pericolose deflagrazioni sociali che avrebbe potuto far temere il piano di Raúl per mettere in mobilità un milione di lavoratori statali.

Una vecchia analisi è che il regime cubano stia sempre sperando nell’ammortizzatore sociale rappresentato dalla Chiesa, prima di premere il freno in modo più deciso. In questa chiave, proprio la visita all’isola che Benedetto XVI ha preannunciato per la prossima primavera potrebbe avere un rilievo non solo teologico e pastorale.


 

La vera storia di Zorro…tra inquisizione e massoneria.

Fonte: http://www.mexicoart.it/Ita/zorro.htm

La storia di Zorro nasce ufficialmente alla fine del XIX secolo con la prima puntata di The Curse of Capistrano apparso sulla rivista “All-Story Weekly”. Da lì film e telefilm in un’ininterrotta sequenza che non accenna a spegnersi.
Ad “inventare” il personaggio fu Johnston McCulley che si era rifatto agli scritti del generale Vincente Riva Placido, accanito lettore di Dumas. L’ufficiale nel suo libro Memorie di un impostore, del 1827, aveva recuperato, con notevoli aggiunte della propria fantasia, la storia di un certo William Lamport le cui vicende si svolsero intorno alla metà del XVII secolo.

William Lamport, alias Guillén Lombardo de Guzman, nacque in Irlanda intorno al 1615: uomo dotato di grande cultura, ma esuberante e spregiudicato, dopo aver trascorso molti anni sui campi di battaglia, ma anche seducendo le dame della nobiltà europea, si stabilì in Messico. Nel Nuovo Mondo le sue sorti non furono molto positive: infatti, nel 1642, fu arrestato per ordine dell’Inquisizione in quanto dichiarato colpevole di aver organizzato, con l’ausilio della magia nera e della stregoneria, una sorta di colpo di stato per divenire re del Messico.

La realtà era leggermente diversa. Infatti, con una banda piuttosto numerosa, Lombardo aveva dato del filo da torcere alle autorità, mettendo in piedi una “crociata” alla buona per liberare gli indios e gli schiavi negri. In prigione si dedicò probabilmente all’astrologia e alla magia riuscendo anche a fuggire, qualcuno dice con l’aiuto del diavolo, altri, più realisticamente, grazie all’intervento dei suoi compagni di avventure.

Appena libero però non cercò riparo in terre lontane, ma rimase in Messico dove si impegnò a fondo in una campagna tesa a screditare il Tribunale dell’Inquisizione. L’affronto gli costò la condanna a morte: però, prima di salire sul patibolo, ebbe il tempo di scrivere pagine e pagine di memorie, molte delle quali giunsero in mano al fantasioso generale Riva Placido che le adattò per il suo libro. Ma in che modo McCulley venne a conoscenza della realtà storica di Lombardo, al di là delle fantasie romanzate da Riva Placido? Troncarelli non ha dubbi: attraverso la Massoneria, società di cui, in tempi diversi, i due scrittori fecero parte.

Ma c’è di più per dare consistenza a questo singolare anello di congiunzione: la mitica “Z” di Zorro. Infatti, mentre il mito racconta che Lombardo scappò di prigione “adattandosi alla finestra” che singolarmente aveva la forma dell’ultima lettera dell’alfabeto, McCulley sostiene che: “per i massoni la “Z”, abbreviazione della forma semitica Ziza (splendente) è simbolo dell’energia vitale“.

Un tragitto tortuoso dove ognuno ha aggiunto un po’ del suo: la vicenda storica di Lombardo, con tutti gli orpelli mitici raccolti negli anni, finisce al generale Vincente Riva Placido che l’adatta alle sue necessità letterarie; con la complicità dei segreti di loggia giunge a Johnston McCulley che, non indenne dall’eco della rivoluzione messicana, la condisce con tutta una serie di ulteriori aggiunte, dando vita a Zorro, un po’ Primula Rossa e un po’ Robin Hood, benestante che si batte per i poveri e che lotta contro i soprusi del potere.

Ne viene fuori un personaggio politicamente corretto, che recupera il mai stanco genere di cappa e spada, che fa sognare, che aiuta a sperare.

Il resto lo farà il cinema ponendo dietro la maschera di Zorro volti noti come Tyrone Power e altri sconosciuti destinati però, proprio per effetto di quella maschera occultante, a trasformarsi in personaggi. Nuovi guerrieri contro le ingiustizie: gente di poche parole che si affidava a una semplice “Z”, comunque complice del loro successo.

dal libro di Massimo Centini “Le streghe nel mondo” 2002 De Vecchi Editore