Alle elezioni in Turchia vince l’Akp, ma festeggia solo Erdoğan

Scritto da: Filippo Cicciù
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/alle-elezioni-in-turchia-vince-lakp-ma-festeggia-solo-erdogan/60025
Nel voto amministrativo del 30 marzo, il partito di governo, pur indebolito, ha vinto. Tutto merito del suo leader, che a luglio potrebbe diventare il primo presidente eletto della Repubblica.

Erdoğan batte gli scandali e vince le amministrative


[Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan saluta i suoi sostenitori. Foto tratta da euronews.com]

L’Akp non ha trionfato alle elezioni locali che si sono svolte in Turchia il 30 marzo.

 

L’unico vincitore di questa agitata tornata elettorale è Recep Tayyip Erdoğan. Sebbene ci siano molti voti contestati e schede elettorali da ricontare – e, a causa di ciò, disordini ad Ankara e in altre aree del paese –  l’Akp di Erdoğan, al governo in Turchia dal 2002, ha incassato il 45.6% dei consensi su scala nazionale alle ultime amministrative. Il partito che alle elezioni locali del 2009 aveva sfiorato il 39% e alle politiche del 2011 si è imposto con quasi il 50% dei consensi non è più quello che aveva piacevolmente impressionato l’Occidente.

 


[I risultati delle amministrative turche, raggruppati per provincia. Carta tratta da seçim.haberler.com]

L’Akp oggi non è più la formazione che, per anni, è riuscita ad unire conservatori musulmani e liberali realizzando una notevole crescita economica e riforme rivoluzionarie: l’avvicinamento all’Unione Europea, il tentativo di limitare l’ingombrante controllo dell’apparato militare sullo Stato, il riconoscimento pubblico dell’esistenza di una questione curda e il tentativo di risolverla.

Negli ultimi anni, Erdoğan è diventato un leader sempre più autoritario e il suo partito ha gradualmente perso la componente liberale e moderata che lo aveva caratterizzato fin dagli inizi. Il primo ministro turco ha reagito alle difficoltà incontrate negli anni cercando di mantenere la base elettorale più conservatrice e religiosa a discapito dei voti provenienti dai liberali di centro o da elettori di sinistra stanchi dei rigidi schemi propri del kemalismo ormai antiquato del maggiore partito di opposizione, il Chp.

La reazione di Erdoğan durante la crisi di Gezi park nel maggio del 2013 palesa questa posizione. Negli ormai 12 anni di governo, l’Akp ha creato i presupposti dell’evoluzione in senso presidenziale della politica turca, creando i classici effetti di questo fenomeno: un aumento delle risorse nella mani del leader del partito, una maggiore autonomia del leader dal governo, ma anche dal suo stesso partito, e una personalizzazione per cui tutta la campagna elettorale è stata modellata sulla personalità del candidato primo ministro.

Sono tendenze che si avvertono anche nel mondo occidentale, ma nel caso turco questa situazione si è lentamente tramutata in un asservimento di ciò che resta dell’Akp verso il suo fondatore.

Sulle note di una canzone che ripete ossessivamente il suo nome, la sera del 30 marzo Erdoğan si è presentato sul balcone della sede centrale dell’Akp ad Ankara tenendo 4 dita della mano alzate: è il segno della rabia, un gesto di solidarietà verso la popolazione egiziana colpita dal golpe militare che nel luglio scorso ha rovesciato i Fratelli musulmani. Il primo ministro turco utilizza questo gesto in ogni occasione pubblica e i suoi seguaci lo salutano allo stesso modo.

Dopo aver ringraziato i suoi elettori,  Erdoğan ha parlato della rivincita che il risultato elettorale gli permette di avere sulla cemaat (confraternita) del predicatore islamico Fethullah Gülen. L’ex imam turco, residente in Pennsylvania da 15 anni e fondatore della comunità Hizmet, è infatti accusato dal primo ministro di essere a capo di uno Stato parallelo che starebbe destabilizzando la Turchia. Un tempo forti alleati, Erdoğan e Gülen sono oggi nemici giurati e la campagna elettorale delle elezioni amministrative è stata caratterizzata da uno aspro scontro a distanza tra i due.

Con la vittoria del 30 marzo, Erdoğan ha dimostrato che può governare anche senza il supporto di Gülen e della sua comunità. Non si tratta di un dettaglio da sottovalutare: la marginalizzazione della comunità del predicatore islamico – un processo già iniziato e che porterà alla chiusura delle scuole private associate al gruppo di Gülen – potrebbe creare ulteriori divisioni nella società turca, già fortemente polarizzata, nella quale gli affiliati a Hizmet sono anche rappresentanti di importanti gruppi di interesse, uomini e donne che lavorano a vari livelli all’interno dello Stato, firme di importanti quotidiani e intellettuali di spicco.

Dal Kurdistan turco viene un altro dato molto importante sulle elezioni. Esattamente un anno fa il governo dell’Akp ha coraggiosamente intrapreso un percorso di dialogo con il leader del Pkk, Abdullah Öcalan, per cercare di arrivare a una risoluzione del decennale conflitto tra il suo partito e l’esercito turco. Con la primavera del 2013 è iniziato il processo di pace che ha portato a un cessate il fuoco (ancora in vigore) tra i guerriglieri curdi e i soldati turchi. All’epoca delle ultime elezioni locali, nel 2009, la situazione era molto diversa e il conflitto mieteva vittime su entrambi i fronti. Perciò il voto in queste ultime elezioni può essere letto anche come un giudizio su quanto fatto dal governo nell’ultimo anno per la popolazione curda.

In questa prospettiva, il risultato del partito di Erdoğan non è confortante: ci si sarebbe potuti aspettare che l’Akp, in quanto principale responsabile del processo di pace e della normalizzazione, venisse premiato dai curdi, rafforzando il suo sostegno in quelle zone e conquistando molte province del Kurdistan. Al contrario, l’Akp ha perso le province curde di Bitilis e di Mardin, dove il partito di Erdoğan governava nel 2009, e il partito di sinistra filo-curdo Bdp (ex Dtp), già fortissimo in quella zona, ha aumentato il suo bacino elettorale ottenendo successo in 9 province, laddove 5 anni fa ne governava 8. L’Akp ha conquistato l’area curda di Şanlıurfa ma il partito di Erdoğan ha registrato un crollo dei voti nelle province curde dove già governava nel 2009 e su cui è riuscito a mantenere il controllo. Gli sviluppi del processo di pace non hanno quindi portato l’Akp a guadagnare incisivamente nel Sud-est anatolico; i partiti di sinistra filo-curdi, o le liste di candidati indipendenti vicine alla stessa area politica, sono invece cresciuti.

Le elezioni locali non rappresentano la svolta nemmeno per il Chp (Partito repubblicano del popolo), in crisi da molto tempo. La maggiore forza di opposizione in Turchia ha guadagnato pochi voti a livello nazionale – passando dal 23,1% del 2009 all’attuale 25,6% delle preferenze – e ha anche perso alcune roccaforti come la provincia di Antalya. Il segretario del Chp, Kemal Kılıçdaroğlu, ha perso tutte le elezioni da quando ha ricevuto l’incarico nel 2010 e potrebbe fare un passo indietro per rilanciare il partito fondato dal padre della Repubblica Mustafa Kemal Atatürk. Uno dei papabili alla successione sarebbe Mustafa Sarıgül. Candidato sindaco a Istanbul per il Chp, ha perso ma si è affermato come alfiere di una visione leggermente diversa rispetto alla rigida ideologia kemalista del suo partito.

 

I segnali di difficoltà all’interno dell’Akp permangono anche dopo la vittoria elettorale: da tempo ricorrono voci sulla possibile nascita di un nuovo partito costituito da membri passati e presenti dell’Akp. Nel giorno del voto, un parlamentare del partito di Erdoğan ha rassegnato le sue dimissioni postando le motivazioni di tale gesto su Twitter. Il 21 marzo il popolare social media era stato chiuso dal governo; questa misura è stata superata nel giro di poche ore dallo stesso presidente della Repubblica e membro dell’Akp, Abdullah Gül. Prima del voto, anche YouTube è stato reso inaccessibile in Turchia.

In entrambi i casi è stata applicata una legge, recentemente approvata, che consente a un organo statale (TİB) di bloccare siti web che contengono contenuti ritenuti dannosi. Le limitazioni ai popolari social network sono scattate in seguito alla massiccia diffusione via web di intercettazioni che, se ritenute attendibili, mostrerebbero una sistematica corruzione che coinvolge personalità vicine a Erdoğan e al suo governo.

Il blocco di Twitter e YouTube ha suscitato molte critiche all’interno del paese e altrettante polemiche a livello mondiale. L’infuocato dibattito sulla censura dei social network ha però sottratto spazio ai contenuti stessi delle intercettazioni, che sono passati in secondo piano.

 

I potenziali attacchi provenienti dalla rete sono anche la motivazione ufficiale per cui nella sala stampa della sede dell’Akp di Ankara la connessione wi-fi è stata spenta durante l’intera giornata delle consultazioni elettorali. Questa situazione ha creato sconcerto tra i reporter stranieri presenti soprattutto perché i giornalisti turchi sul posto assicuravano che generalmente la rete wi-fi è disponibile nella sala stampa, soprattutto in occasione di appuntamenti elettorali. Un’allusione alla possibilità che la rete fosse stata spenta per cercare di limitare le comunicazioni. Del resto, proprio nel giorno delle elezioni, si sono verificati numerosi black out elettrici in tutta la Turchia: nella motivazione offerta a riguardo dal ministro dell’Energia, Taner Yıldız, si parla di un gatto che sarebbe entrato nel centro di distribuzione dell’energia elettrica e l’avrebbe danneggiato.

Il risultato elettorale in Turchia palesa la discrepanza tra il duro giudizio dell’opinione pubblica occidentale sul capo del governo e la scelta di gran parte della popolazione che continua a sostenerlo. Poco interessati agli scandali di corruzione o alle pesanti limitazioni della libertà di espressione sul web, gli elettori dell’Akp ripongono grandissima fiducia nel leader Erdoğan, più che nel suo partito indebolito e in crisi.

L’alto numeri di voti raccolto da Erdoğan a queste elezioni locali potrebbe anche assicurare al primo ministro il sostegno necessario per competere e vincere alle elezioni presidenziali della prossima estate quando, per la prima volta nella storia repubblicana, sarà il popolo a votare direttamente per il capo dello Stato.

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