Hutu contro Tutsi: le radici del conflitto in Ruanda

Scritto da: Angelo Milanese
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/hutu-contro-tutsi-le-radici-del-conflitto-in-ruanda/60258

In occasione del ventennale del genocidio in Ruanda, che ha provocato più di 500 mila morti tra aprile e luglio 1994, pubblichiamo un estratto di un articolo tratto da Limes 3/97 “Africa!

[Dettaglio dalla carta Le indipendenze africane, carta di Laura Canali da Limes 3/2010]

La profonda crisi che ha funestato negli ultimi quattro anni l’area africana dei Grandi Laghi ha aggiunto al lessico giornalistico alcuni vocaboli fino a poco tempo fa quasi sconosciuti.

 

È questo il caso di due parole, «hutu» e «tutsi», con le quali normalmente si indicano i due gruppi etnici che costituiscono la quasi totalità della popolazione del Ruanda e del Burundi. 

 

Gli hutu rappresentano circa l’85% della popolazione, i tutsi solo il 14% (1). Questi dati, se letti superficialmente, sembrano sufficienti a riassumere la radice di un conflitto i cui tragici risultati sono passati sugli schermi televisivi di tutto il mondo in occasione del terribile genocidio ruandese. In verità più ci si addentra nell’intricato quadro etnico e politico della regione dei Grandi Laghi, più qualsiasi semplificazione appare inadeguata e strumentale. 

 

Come è stato giustamente osservato «i conflitti in Africa sono spesso presentati come guerre tra una tribù che domina il governo e un’altra che se ne sente esclusa. In realtà, in Africa come altrove, i conflitti sono complessi e possono risultare anche incomprensibili per i non-iniziati» (2).  Per mettere a fuoco la situazione dei due paesi che sono al centro del problema etnico hutu-tutsi, cioè Ruanda e Burundi, è necessario scorrere velocemente le loro vicende, poiché l’attuale conflitto non può essere capito se non mettendo in luce le tensioni e i problemi irrisolti che hanno accompagnato la storia di questi due paesi africani. 

 

Uno dei paradossi della crisi interna di Ruanda e Burundi è che essi, come pochi altri paesi in Africa, esistono come agglomerati etnico-politici da almeno tre- quattro secoli. Hutu e tutsi non si sono trovati a vivere insieme casualmente, ingabbiati dalle frontiere artificiali decise alla Conferenza di Berlino del 1885: vivevano già insieme in società feudali dalla struttura sofisticata osservate con una certa sorpresa dai primi visitatori europei giunti nella regione.

 

 

Chi scrive la storia?

 

La storia del Ruanda e del Burundi (o Urundi, come veniva chiamato fino al 1962) prima dell’arrivo delle spedizioni europee è quella di due regni feudali dalla struttura simile ma con importanti differenze, consolidatisi con un lungo processo.
In Ruanda, a partire dal XVI secolo, si era costituito un regno dalla struttura molto centralizzata, basato su una rigida divisione di ruoli tra gli allevatori-guerrieri tutsi e i coltivatori hutu. Una terza etnia, i pigmei twa, estremamente minoritaria, era relegata in una posizione di grande marginalità. Il sovrano era un tutsi ed esercitava un potere effettivo su una classe di capi, anche loro della stessa etnia. 

 

Lingua, religione, tradizioni erano le stesse per gli hutu come per i tutsi. Senza grandi centri abitati, il Ruanda era un paese di agricoltori e allevatori, in cui l’unità amministrativa era la collina, non il villaggio. Il Nord era particolare: governato dagli hutu, per lungo tempo non volle sottomettersi alla struttura feudale del resto del paese, e ha sempre conservato un senso forte della propria diversità. Il Burundi, pur essendo simile al Ruanda per composizione della popolazione e divisione dei ruoli tra hutu e tutsi, presenta però alcune anomalie. Innanzi tutto la sua struttura feudale si caratterizzava per l’esistenza di una classe nobile ritenuta «neutra», cioè né hutu né tutsi, i cosiddetti ganwa, che si mostravano assai riluttanti a concedere un ruolo preponderante al sovrano. Il regno dell’Urundi, formatosi a partire dal XVII secolo, non ha mai raggiunto il livello di centralizzazione ruandese, ed è rimasto fino alla fine un insieme di principati locali restii ad accettare l’intromissione del sovrano nelle loro vicende e orgogliosi della propria autonomia. La divisione dei ruoli sociali in Burundi è sempre stata abbastanza aperta al cambiamento, con la possibilità, per un hutu di rilievo, di essere ammesso a far parte dell’aristocrazia ricoprendo posti di responsabilità. Frequenti erano anche i matrimoni misti.

 

I regni del Ruanda e dell’Urundi caddero, dopo la Conferenza di Berlino, sotto la sfera di influenza tedesca, con conseguenti spedizioni e tentativi di penetrazione. I risultati furono estremamente diversi per i due regni. In Ruanda il sovrano scelse, alla fine, di collaborare ufficialmente con i colonizzatori, anche se si sviluppava una sotterranea resistenza passiva mascherata dietro un’apparente sottomissione. In Burundi vi fu, invece, una lunga serie di scontri e violenze a cui gli occupanti tedeschi risposero con campagne militari estremamente dure. Caduti in mano belga durante la prima guerra mondiale, Ruanda e Urundi saranno poi affidati al Belgio stesso con un mandato della Società delle Nazioni. 

 

La stagione del colonialismo belga è quella che più ha influenzato i successivi sviluppi politici del Ruanda e del Burundi. Inizialmente i belgi non sembrarono molto interessati allo sviluppo di questi due piccoli regni, assorbiti come erano dall’amministrazione e dallo sfruttamento dell’enorme territorio congolese. Gli amministratori ritennero comunque utile mantenere la struttura politica esistente nei due paesi, in una versione tutta particolare dell’indirect rule britannico. I belgi infatti non delegarono mai fino in fondo una parte del governo locale ai capi tradizionali: ogni provvedimento di questi ultimi doveva essere ratificato dall’amministrazione coloniale. L’aristocrazia locale tutsi poté comunque godere di un appoggio notevole per accrescere il proprio peso economico e politico, essendo stata scelta come perfetta alleata della struttura coloniale. I belgi iniziarono a studiare le due etnie da un punto di vista etnico-razziale, sulla scia delle concezioni scientifiche dell’epoca. Questi studi e teorie avranno, in seguito, un’enorme influenza sulle categorie mentali e politiche degli hutu e dei tutsi. 

 

Si fece largo l’idea che i tutsi fossero una popolazione con una distinta origine razziale dagli hutu: questi ultimi vennero definiti di gruppo bantu, mentre i tutsi, agli occhi degli studiosi del tempo, erano di origine ben diversa. Si elaborò la teoria, da alcuni definita mitica (3), dell’origine hamitica dei tutsi, secondo la quale questi sarebbero giunti in Ruanda e Burundi discendendo con le loro mandrie il corso del Nilo, probabilmente dall’Etiopia, e sottomettendo al loro arrivo le popolazioni hutu di agricoltori. L’impossibilità di stabilire caratteristiche somatiche chiaramente distinte tra hutu e tutsi fu attribuita alla difficoltà di trovare elementi tutsi «non mescolati». Queste ipotesi, quantomeno arbitrarie, vennero avallate da numerosi studiosi, che si affannarono a provare la «diversità» dei tutsi, sia razziale che culturale e comportamentale. I tutsi sono sempre più visti come «falsi negri» (4). I tutsi sono quindi descritti dai colonizzatori come i capi naturali, con un grande talento politico, abili nel nascondere il proprio pensiero, alteri, con un’educazione tesa all’acquisizione di un grande autocontrollo dei sentimenti. Viceversa gli hutu vengono dipinti come una popolazione naturalmente destinata a restare subordinata, agricoltori senza grandi ambizioni, sinceri e spontanei in modo infantile e facili al riso e alle esplosioni incontrollate. I pigmei twa, piccola minoranza, sono i più disprezzati (5).

 

 

La “rivoluzione sociale ruandese”: l’indipendenza parte male

 

La crescita dei movimenti africani indipendentisti rimette in discussione gli equilibri e le alleanze nella regione. La classe dirigente tutsi che, seppure con dei limiti, aveva avuto accesso all’istruzione, partecipa al fermento politico delle élite africane del tempo, e inizia a rivendicare il diritto all’autodeterminazione. Le dinamiche che si mettono in atto sono alla radice di gran parte dei drammi attuali dei due paesi. Un elemento chiave della situazione del Ruanda-Urundi è intanto mutato. Dopo la seconda guerra mondiale molti missionari cattolici giungono nei due paesi per promuovere un’opera di educazione rivolta a quella grande maggioranza della popolazione che fino ad ora ne è rimasta ai margini. Il primo slancio di evangelizzazione, infatti, aveva toccato prevalentemente i capi tradizionali tutsi, che compresero molto in fretta il valore e l’importanza dell’istruzione che potevano ricevere. Ora i missionari cattolici sono sempre più a contatto con i contadini hutu, e si sentono partecipi della loro situazione di esclusi e discriminati – anche dall’amministrazione coloniale – all’interno del loro paese. È possibile che a ciò si sia aggiunto anche qualche meccanismo di identificazione da parte del clero belga, davanti a una situazione che poteva ricordare le secolari contrapposizioni di casa propria, tra fiamminghi e valloni (6). Anche qui però ogni paese segue un suo itinerario: in Ruanda l’impegno politico della Chiesa cattolica è molto più marcato che in Burundi, tanto che alcuni centri diocesani diventano veri e propri cenacoli del nascente fermento politico degli hutu, favorendo contatti con gli ambienti democristiani belgi.

 

Dal 1959 fino all’indipendenza, il Ruanda vive uno dei periodi più travagliati della sua storia, la cosiddetta «rivoluzione sociale», durante la quale gran parte dei tutsi è costretta all’esilio o uccisa negli scontri etnici che insanguinano il paese. La rivolta degli hutu assume inizialmente i caratteri di una vera e propria jacquerie contadina: si attaccano alcuni dei più odiati feudatari tutsi, ma lo si fa in nome del «re buono» tutsi, senza rimettere in discussione la struttura monarchica della società (7). In un secondo tempo la situazione si complica: gruppi di tutsi organizzano azioni armate di disturbo, nel tentativo di reagire e conquistare uno spazio contro l’aperta ostilità dell’amministrazione belga. Al quadro si deve aggiungere la grande perplessità degli osservatori delle Nazioni Unite davanti alla fretta sospetta con la quale i belgi organizzano le prime elezioni democratiche e il referendum sulla forma istituzionale dello Stato, in un clima certo non adatto a serene campagne elettorali. Il risultato finale è la schiacciante vittoria del Parmehutu, la decadenza della monarchia con l’esilio del re e crescenti incursioni di gruppi armati di tutsi partire dal Burundi e dalla Tanzania. Nasce la cosiddetta diaspora tutsi, in Uganda, Tanzania, Zaire (dove alcuni si uniranno all’allora giovane Kabila – attuale presidente della Repubblica democratica del Congo – e al suo movimento di guerriglia anti-imperialista) (8). Per molti anni incursioni armate tutsi, a partire dai paesi vicini, provocano le violente reazioni degli hutu sui tutsi rimasti ancora in Ruanda, con decine di migliaia di vittime. Durante uno dei tanti raid hutu, un bambino tutsi di quattro anni è costretto a scappare con la sua famiglia: il nome di quel bambino è Paul Kagame, oggi vicepresidente e uomo forte del Ruanda, tornato nel suo paese dopo 33 anni (9). 

 

La «rivoluzione sociale» ruandese ha un’influenza estremamente negativa in Burundi. Fino alla soglia dell’indipendenza, infatti, il quadro politico burundese è meglio impostato. Sotto la guida di un illuminato principe tutsi, Louis Rwagasore, nasce il partito Uprona (Unione per il progresso nazionale), che raccoglie esponenti politici di tutte le etnie, in nome di un patriottismo anticolonialista. Nascono importanti legami con il partito Tanu di Mwalimu Nyerere, in Tanzania, che sostiene i primi passi del neonato movimento politico burundese. L’amministrazione belga anche qui si mostra preoccupata di trovare delle formule politiche che possano garantire una continuità nei rapporti economici e politici con l’ex potenza coloniale, e di conseguenza non nasconde il suo fastidio per il messaggio indipendentista dell’Uprona. I tentativi belgi di fare sentire la propria influenza contribuiscono a fare crescere nel partito Uprona un clima di sospetto tra hutu e tutsi. L’appoggio belga agli hutu ruandesi durante la rivoluzione sociale suscita nei tutsi burundesi il dubbio di una loro esclusione con il pieno appoggio hutu. A fare precipitare le cose è l’assassinio di Ruagasore, il 13 ottobre 1961; si crea un vuoto che scatena contrasti fortissimi tra gli hutu e i tutsi membri dell’Uprona. Pochi mesi dopo Ruanda e Burundi raggiungono l’indipendenza, il 1° luglio 1962.

 

Molte nuvole sono all’orizzonte. In Burundi, nel 1965, dopo crescenti contrasti interni, un gruppo di leader hutu tenta un colpo di Stato: è la fine del confronto politico e l’inizio dello scontro armato. Vengono arrestati e condannati alla pena capitale tutti i dirigenti hutu più popolari, tra cui molti membri fondatori dell’Uprona. Il Burundi scivola così verso lo scontro etnico. In Ruanda è già in corso una vera e propria guerra civile, che provoca la scomparsa quasi totale dei leader tutsi in contrasto con gli elementi più estremisti della loro etnia e contrari alla lotta armata. Esposti alle rappresaglie degli hutu, molti intellettuali e dirigenti del partito Unar vengono uccisi. Presidente del Ruanda diviene Grégoire Kaybanda, ideologo storico del Parmehutu. Il Ruanda, appoggiato dal Belgio, cerca di dimenticare l’esistenza di circa 150 mila propri cittadini costretti a vivere da profughi nelle nazioni vicine. L’illusione che l’espulsione di una parte dei tutsi abbia risolto tutti i problemi del paese è però estremamente fragile, se non altro perché resta la paura di un loro ritorno. Kaybanda viene riconfermato presidente fino al 1973. Durante il suo mandato fiorisce la cooperazione con il Belgio e si manifesta un certo sviluppo delle aree rurali del paese […].

 

 

Il Ruanda dalla guerra civile al genocidio del 1994

 

In Ruanda gli anni Novanta iniziano con la comparsa di un nuovo attore sulla scena: il Fronte patriottico ruandese (Fpr), un’organizzazione armata prevalentemente formata da tutsi esuli, la cui ossatura è costituita da ex combattenti del National Resistence Army di Yoweri Kaguta Museveni, l’attuale presidente dell’Uganda. Durante la guerra di liberazione molti ruandesi si erano infatti uniti al movimento armato di Museveni: alcuni di loro ne diventano membri influenti, come l’attuale vicepresidente ruandese, Paul Kagame. È a partire proprio dall’Uganda, nell’ottobre del 1993, che iniziano le incursioni dell’Fpr, che in una prima fase trova grandi difficoltà a penetrare nel paese (10). Nel giugno 1990, durante il summit dei paesi francofoni svoltosi a la Baule, il presidente Mitterrand aveva dichiarato la sua intenzione di condizionare gli aiuti economici francesi all’accettazione del pluralismo democratico da parte dei paesi partner. Il presidente ruandese Habyarimana, che considera economicamente fondamentale l’aiuto francese, permette la creazione di altri partiti, richiedendo contemporaneamente però il sostegno militare francese e zairese per fronteggiare l’Fpr. Il partito di Habyarimana, lo Mrnd (Mouvement révolutionnaire national pour le développement), non più difeso dalla censura, vive molte difficoltà per le accuse di regionalismo e di favoritismo avanzate dai membri dei nuovi partiti politici ruandesi; dopo diciassette anni il regime sembra traballare. È qui che i quadri dirigenti dello Mrnd, Habyarimana in testa, scelgono di utilizzare ogni mezzo per riguadagnare popolarità e galvanizzare le masse contro il nemico comune, lo Fpr tutsi. Si organizza un movimento giovanile, l’Interhamwe, con lo scopo di mobilitare e coinvolgere le masse hutu a sostegno dello Mrnd e alla lotta contro i nemici esterni ed interni. Le Interhamwe sono provviste dei mezzi dello Stato, organizzano meeting ed eventi culturali, come danze e concerti, indossano una divisa tradizionale e puntano soprattutto al coinvolgimento dei giovani hutu.

 

Cresce intanto, come un fenomeno trasversale tra i partiti burundesi, la forza dei cosiddetti estremisti hutu. Il loro messaggio è semplice: il nemico tutsi è alle porte, e tutti quelli che non sostengono la necessaria unità hutu sono venduti ai tutsi. La causa hutu è giusta perché rappresenta la volontà della maggioranza del popolo. Giornali e gruppi legati a questa tendenza – chiamata hutu-power – si moltiplicano dando l’impressione che lo stesso presidente Habyarimana stia perdendo lentamente il controllo della situazione. Il conflitto ruandese è molto complesso. L’Fpr, sotto il comando di Kagame, evita attacchi frontali e inizia una guerra di logoramento. L’aiuto militare francese ha scongiurato il pericolo iniziale ma non può sconfiggere una guerriglia che conta basi sicure in territorio ugandese; l’aiuto zairese – Mobutu invia la famosa Divisione speciale presidenziale – è catastrofico. Ad Habyarimana non rimane dunque che negoziare con l’Fpr i cosiddetti Accordi di Arusha. A partire dall’aprile 1993 si inizia così un processo che ha come obiettivi la formazione di un governo di unità nazionale che comprenda l’Fpr, e la firma di un trattato di pace. Molti leader hutu democratici sostengono coraggiosamente il processo di pace, tra le accuse degli estremisti. Il resto è cronaca. Il presidente Habyarimana viene ucciso mentre è in volo sopra l’aeroporto di Kigali il 4 aprile 1994 (11). 

 

Immediatamente dopo iniziano, in un terribile crescendo, le uccisioni indiscriminate. Fin dall’inizio è chiaro che gran parte degli amministratori locali, delle forze armate ruandesi, e delle Interhamwe, agiscono con un piano ben determinato per l’eliminazione fisica non solo di tutti i tutsi – senza distinzione – ma anche di molti hutu moderati o non originari del Nord. Una delle prime vittime è il primo ministro Agathe Uwilingiyimana, dell’opposizione democratica hutu. Anche le chiese, in passato rispettate durante le violenze contro i tutsi, diventano luoghi di massacri (12). Le vittime sono centinaia di migliaia in poche settimane, ma l’emergenza internazionale scatta molto tardi, quando, spinti dalle forze armate ruandesi e dalle milizie, quasi un milione e mezzo di ruandesi si spostano davanti all’avanzata dell’Fpr, e si dirigono verso lo Zaire. È allora che scatta l’operazione francese Turquoise, nel Sud-Ovest del Ruanda, volta ufficialmente ad evitare un ennesimo e finale bagno di sangue. La latitanza dell’Onu è totale e sconcertante, basti pensare cheproprio all’inizio dei massacri viene fortemente ridotto il contingente militare già presente in Ruanda. L’Fpr occupa un paese quasi vuoto. L’intero esercito ruandese è oltre confine, tutti i beni dello Stato sono stati saccheggiati compresa la Banca nazionale, il numero dei morti è incalcolabile. Il consolidamento al potere dell’Fpr è possibile solo risolvendo il problema della presenza dei profughi in Zaire: le forze armate ruandesi e le milizie non sono state distrutte, usano come scudo quella parte della popolazione che li ha seguiti, e preparano la controffensiva. 

 

Gli organismi internazionali, e soprattutto l’Alto commissariato per i rifugiati, sono in piena crisi. Non si vuole riconoscere che i profughi sono diventati l’oggetto di una vera contesa strategica, e che le ex forze armate ruandesi e le milizie li tengono sotto la loro infuenza. Mobutu non fa mancare il suo appoggio ai miliziani hutu, permettendo che le incursioni in territorio ruandese delle ex forze armate ruandesi partano dallo Zaire. A questo quadro già complesso si aggiunge l’imprevedibile catena di eventi che porterà alla caduta di Mobutu. Una etnia di origine tutsi presente nel Sud-Kivu, i cosiddetti «banyamulenge», reagisce alle violenze e alle discriminazioni perpetrate contro di essa dai funzionari di Mobutu. Riemerge improvvisamente una figura dimenticata, quella di Kabila, ora neopresidente di una formazione eterogenea (Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo-Zaire) che vuole abbattere Mobutu. 

 

Dietro l’offensiva delle forze di Kabila c’è l’appoggio militare e politico ruandese e ugandese, così come un tacito assenso – forse anche aiuto – americano. Sembra che nella peggiore delle ipotesi Kabila e i suoi sostenitori si sarebbero accontentati della creazione di una sorta di zona tampone nel Kivu, che avrebbe comunque aperto notevoli possibilità di sfruttamento economico delle risorse della regione; ma la resistenza inesistente delle forze armate zairesi apre loro nuove possibilità (13). L’offensiva procede rapidamente, e tra gli obiettivi iniziali vi sono i campi profughi ruandesi, per spezzare ciò che resta delle milizie armate hutu e fare rientrare la popolazione. Altro obiettivo raggiunto nella prima fase dell’offensiva sono i santuari della guerriglia ugandese anti-Museveni del West Bank Nile Front. Il regime di Mobutu cade senza quasi opporre resistenza […].

 

Ruanda e Burundi sembrano essere ancora lontani dalla soluzione dei loro problemi.

 

 

Per approfondire: Africa!, Limes 3/1997

 

(1) A causa dell’altissimo numero delle vittime delle violenze e degli enormi spostamenti di profughi è praticamente impossibile avere cifre attendibili sulla popolazione dei due paesi; le percentuali indicate sono grosso modo accettate dalla maggioranza degli studiosi per indicare la situazione esistente prima degli sconvolgimenti nell’area.
(2) L. REICHLER, «Les crises et leurs fondements. La prévention des conflits violents», in FONDATION ROI BAUDOIN-MÉDECINS SANS FRONTIÈRES, Conflits en Afrique. Analyse des crises et pistes pour une prévention, Bruxelles 1997, Grip, p. 49.
(3) Vedere ad esempio A.M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa subsahariana, Roma 1995, pp. 125-140.
(4) Ancora nel 1958 veniva ristampata una guida turistica del Congo belga e del Ruanda-Urundi in cui, al capitolo «Le razze» dopo aver elencato i pigmei, i negroidi (suddivisi in bantu, sudanesi e nilotici) si dedicava agli hamiti un capitolo a parte: «In questa categoria sono da classificare i batutsi (watusi) che formano la classe dirigente delle popolazioni del Ruanda-Urundi». Congo Belge et Rwanda-Urundi. Guide du Voyageur, Bruxelles 1958, Info Congo, pp. 21-24.
(5) Un esempio è il rapporto dell’amministratore belga del Ruanda-Urundi del 1925 citato dall’ultimo governatore del Ruanda-Urundi nelle sue memorie: J.P. HARROY, Rwanda. Souvenirs d’un compagnon de la marche du Rwanda vers la démocratie et l’indépendance, Bruxelles-Paris 1984, pp. 26-28.
(6) Di questo parere è R. LEMARCHAND, Rwanda and Burundi, London 1970, p. 107.
(7) R. LEMARCHAND, op. cit., p. 114.
(8) Gran parte dei compagni di Ernesto «Che» Guevara durante la sua esperienza di guerriglia in Zaire nel 1965 erano proprio tutsi ruandesi. Cfr. P.I. TAIBO, F. ESCOBAR, F. GUERRA, (a cura di), L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte. Il diario di Ernesto «Che» Guevara in Africa, Firenze 1996.
(9) F. MISSER, Vers un nouveau Rwanda? Entretiens avec Paul Kagamé, Bruxelles 1995, p. 32.
(10) Per la storia recente del Ruanda e del Burundi mi sono basato in particolare su: F. REYNTJENS, L’afrique des Grands Lacs en crise, Rwanda Burundi:1988-1994, Paris 1994; ID. Burundi: Breaking the Cycle of Violence, London 1995; A. GUICHAOUA, (a cura di), Les crises politiques au Burundi et au Rwanda (1993-1994), Paris 1995; G. PRUNIER, Rwanda, History of a Genocide, New York 1997.
(11) Una ricostruzione in: F. REYNTJENS, «Rwanda. Trois jours qui ont fait basculer l’histoire», Cahiers Africains, n. 16/1995. L’autore riassume tutte le ipotesi fatte senza però poter arrivare a nessuna conclusione sulla paternità dell’attentato.
(12) Tra i reportage vedere: F. KEANE, Stagione di sangue. Un reportage dal Ruanda, Milano 1997; C. BRAECKMANN, Ruanda. Storia di un genocidio, Roma 1995.
(13) Kagame lo ammette chiaramente in un’intervista, poi smentita, rilasciata al Washington Post il 9/7/1997. Vedere anche INTEGRATED REGIONAL INFORMATION NETWORK (IRIN), Emergency Update No 208 on the Great Lakes, United Nations, Department of Humanitarian Affairs, 9/7/1997

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