IL BAMBINO CHE FECE TROVARE LE ARMI DEI PARTIGIANI

Scritto da: Luca Valente
Fonte: http://www.lucavalente.it/modules.php?name=News&file=article&sid=333

Lino Pozzan ricorda quando, da ragazzo, portò alla scoperta di alcune casse di armi nascoste dai partigiani durante la guerra

Quella vicenda delle armi dei partigiani fatte ritrovare è una vita che a Poleo gliela sentono raccontare. E visto che va per le ottanta primavere, Lino Pozzan deve averla narrata ai suoi compaesani un bel po’ di volte. Si era nel dopoguerra, poco prima delle elezioni politiche dell’aprile ’48 che videro fronteggiarsi democristiani da una parte e comunisti e socialisti dall’altra, e Lino, allora sedicenne, fu protagonista di una particolare avventura.
La storia, però, inizia qualche anno prima, nell’inverno a cavallo tra il 1944 e il 1945. Nei prati tra Poleo, il torrente Gogna, i boschi di Lesegno e la curva del Cristo di Torrebelvicino (provincia di Vicenza) le truppe d’occupazione svolgevano frequenti esercitazioni. Racconta Pozzan: «I tedeschi avevano costruito tre particolari postazioni, scavate nel terreno ad angolo retto, a forma di “elle”, profonde circa un metro e mezzo, sulle quali piazzavano mitragliatrici e mortai. Andavo spesso a osservarli, perché i nostri campi arrivavano fino a lì».
In effetti l’intera area era stata trasformata in poligono d’addestramento dalla “Schule für den Kampf der verbundenen Waffen” (Scuola per armi congiunte) del “1. Fallschirm-Korps” (1° Corpo paracadutisti), agli ordini del maggiore Otto Laun, con sede principale alle scuole Marconi di Schio e vari reparti a Magrè, Giavenale, S. Vito di Leguzzano e Pievebelvicino. Vi erano assegnati ufficiali e sottufficiali per imparare appunto l’uso coordinato di mitragliatrici e mortai sul campo di battaglia.
Quello che i tedeschi non sapevano è che sotto i loro piedi si nascondevano i partigiani, i quali rischiarono di essere scoperti durante lo scavo di ulteriori trincee. La circostanza è rammentata anche da Lino: «Nei pressi sorgeva una fattoria che era un covo di partigiani. Un tunnel sotterraneo collegava l’abitazione a due bunker, uno dei quali sbucava sotto le radici di un castagno».
Terminato il conflitto, il luogo divenne meta della compagnia del ragazzo. «Ci andavo con gli amici Guido Cerisara, Francesco Sessegolo, Nadir Zocca, Albano Bellotto e Silvano Galvanin: si giocava ancora alla guerra, tutti i giorni. La mattina del 7 luglio 1945, ovvero poche ore dopo che si era consumato l’eccidio nelle carceri di Schio, trovammo una sorpresa: le tre postazioni ad angolo erano state riempite di terra. Gli amici pensarono fosse stato mio padre, che non vedeva di buon occhio il nostro passatempo, ma lui negò e mi mandò anzi a quel paese. Passarono i mesi, ma io non mi davo per vinto: un giorno infilai nella terra un palo di ferro, che si bloccò quando incontrò un ostacolo. Ne ero certo: lì sotto c’era nascosto qualcosa, delle armi, forse; ma a casa ricevetti la solita ramanzina».
Quando arrivano le elezioni del 1948 il clima, anche a Schio, è a dir poco teso. «Ricordo i cortei dei comunisti di passaggio, le bandiere, gli slogan e i canti. Mia madre era preoccupatissima, temeva finissi nei guai perché insistevo con la storia delle armi, e obbligò mio padre a portarmi dai carabinieri per risolverla una volta per tutte. E così fu».
Genitore e figlio si recano dunque alla stazione di via Pasini, all’epoca comandata dal maresciallo Antonio Matino (padre di Umberto, lo scrittore, che la resse fino a metà anni Cinquanta, quando gli subentrò il maresciallo Vito Simini, padre di Ezio Maria, storico della Resistenza). «Mio padre minimizzava, ma il maresciallo si arrabbiò di brutto perché non eravamo andati prima. Disse testuale: “I fatti più importanti della mia carriera li ho appresi da bocche innocenti”. Poi mi caricò su una moto Bsa con un appuntato e tutti e tre ci recammo sul posto. A nulla servirono le mie proteste, mi ero anche buttato sul pavimento urlando “i me copa, i me copa!”».
Giunti sul posto il ragazzo viene spedito a casa, ma poi, spinto dalla curiosità, torna a spiare la scena dal limitare del bosco. «Era arrivato un camioncino carico di carabinieri, e scavando avevano tirato fuori dalle tre postazioni sei casse di legno, rivestite internamente di acciaio inossidabile e colme di armi spalmate di grasso. Ci fecero tre mucchi: mitra, fucili, bombe a mano, pistole, munizioni. Io non resistetti e in un momento di disattenzione dei militari, nonostante due donne tentassero di fare la spia, sgraffignai un Mauser tedesco e un bel po’ di pallottole, con il quale per un pezzo mi divertii a sparare nei campi, ridestando ovviamente le preoccupazioni dei miei genitori. Pertanto incontrai di nuovo il maresciallo, che fu mandato a chiamare e si presentò in corte, minacciandomi di arresto. Mi spaventai a morte e corsi a prendere il fucile, nascosto in un tino in mezzo a delle fascine. E così finì la mia avventura con le armi. Almeno per il momento».
Già, perché l’anno dopo Lino fu coinvolto in una vicenda analoga: tre bidoni di latta, pieni ancora di armi da fuoco ed esplosivi, saltarono fuori da un muro di pietra che costeggiava un ruscello, nella stessa zona. Quella volta, però, rimase a bocca asciutta: i carabinieri sequestrarono tutto. Forse per questo preferì dedicarsi ad altro, fondando tre anni dopo l’azienda di trasporto su corriera che porta il suo nome.

Nelle foto: Lino Pozzan oggi e un’immagine curiosa di un paracadutista della “Scuola per armi congiunte” scattata sul retro delle scuole Marconi di Schio. Probabilmente si tratta di uno scherzo dei militari, che hanno bardato l’animale a mo’ di “somaro corazzato”, dotandolo di un’arma controcarro Panzerfaust 60 (con scudo di protezione di un Panzerschreck 54), di due mitra MP40, mine, radio e antenna.

 

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