Grecia, partono gli aiuti. Ma a salvarsi è solo la troika

Fonte: http://www.ilcambiamento.it/crisi/accordo_aiuti_grecia_troika.html

L’accordo è stato raggiunto nella notte, la comunicazione ufficiale è arrivata attorno alle 5. 130 miliardi di euro nuovi nuovi, cui se ne aggiungono altri 107 di riduzione sugli interessi dei prestiti precedentemente concessi. Un mix di aiuti pubblico-privato, che a detta dell’eurogruppo riunitosi nella notte trascorsa dovrebbe dare nuova linfa all’economia Greca; e che invece, nell’opinione di molti analisti, servirà soltanto a procrastinare il default, consentendo alle banche creditrici di correre ai ripari – e consegnando, nel frattempo, una buona fetta di sovranità ellenica nelle mani di organismi finanziari.

Sono servite ben 14 ore per giungere ad un accordo. Alla riunione era presente la creme della finanza internazionale: i ministri delle finanze dei 17 paesi della zona euro, il Presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Junker, i vertici della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale (Mario Draghi e Christine Lagarde). La troika al completo, insomma.

L’accordo prevede una tranche di aiuti da 130 miliardi di euro, con l’obiettivo di raggiungere un rapporto debito/Pil del 120,5 per cento entro il 2020 (attualmente si aggira attorno al 160 per cento). A questi aiuti comunitari si aggiungerà l’apporto dei privati detentori del debito greco (perlopiù banche), che hanno accettato di vedere ridotti di parecchio – il 53,5 per cento del valore nominale, corrispondente ad oltre il 70 per cento di quello effettivo – i profitti sul debito precedentemente contratto. L’apporto dei privati è quantificabile sui 107 miliardi; il valore totale del pacchetto approvato stanotte è dunque di circa 237 miliardi di euro.

Come contropartita, la troika ha preteso l’espropriazione di un’altra fetta di quella poca sovranità rimasta nelle mani dei greci. Il commissario Ue agli affari economici Olli Rehn ha detto chiaramente che Ue, Bce ed Fmi rafforzeranno e renderanno permanente la propria presenza ad Atene per sorvegliare l’applicazione del programma di risanamento delle casse pubbliche e la riduzione progressiva del debito.

Altre clausole inserite nell’accordo: la creazione di un conto bloccato dove i greci verseranno d’ora in avanti gli interessi sul loro debito; l’inserimento nella Costituzione greca di una norma che dà assoluta priorità al pagamento del debito su ogni altro tipo di spesa pubblica (sanità, scuole, pensioni).

Tutte le parti si sono dichiarate soddisfatte dell’accordo raggiunto. Il presidente della Bce Mario Draghi lo ha definito “un accordo molto buono”; Junker ha parlato di un accordo che “garantisce la tenuta della Grecia nell’Euro e le dà il tempo di tornare su un percorso di crescita sostenibile”, mentre il premier italiano Monti, presente alla riunione nelle vesti di ministro dell’economia, lo ha definito “un bel risultato”, aggiungendo che la decisione della notte scorsa ha dimostrato che “l’Europa è anche in grado di funzionare”.

Ma da cosa deriva tutto questo entusiasmo? Non certo dall’aver salvato la Grecia. Come hanno spiegato ampiamente molti analisti la misura adottata serve soltanto a rimandare di qualche tempo il default. Con l’obbligo del pareggio di bilancio sancito dal nuovo fiscal compact europeo, le politiche di austerità imposte dalla troika (presente ad Atene a controllare che il proprio volere sia eseguito alla lettera), le politiche monetarie rigorose della Bce, una ripresa economica è per la Grecia praticamente impossibile, e la recessione attuale è un pallido preludio di quella di domani.

No, l’entusiasmo dei vertici finanziari è probabilmente dovuto al fatto di aver salvato se stessi, e alle migliori condizioni. Hanno evitato il default immediato di uno stato e le conseguenti ripercussioni sull’economia mondiale; hanno fatto sì che il debito venga ripagato, seppur con interessi minori, scongiurando grosse perdite da parte di banche ed investitori privati; hanno imposto politiche economiche ultraliberiste, che consentiranno a banche e multinazionali di appropriarsi dell’immenso patrimonio greco (culturale, energetico, paesaggistico); hanno ridotto il popolo ad una condizione di estrema povertà e semi-schiavitù, creando al contempo manodopera a basso costo.

Allungare l’agonia della Grecia – e farlo minimizzando l’entità del prestito e massimizzando i profitti – era il massimo che la troika potesse sperare. Significa avere più tempo sia per depredare la terra ellenica (un default implica l’annullamento o il rinegozia mento dei debiti contratti e dunque la riappropriazione della propria sovranità) che per minimizzare o annullare le perdite dei creditori in vista dell’inevitabile fallimento.

In Svezia sarà costruita una serra urbana di 18 piani

Fonte: http://www.soloecologia.it/15022012/in-svezia-sara-costruita-una-serra-urbana-di-18-piani/

Mentre in Italia si fa sempre più acceso il dibattito sulla cementificazione del territorio, all’estero c’è chi costruisce, sì, ma ottimizzando lo spazio e ai fini della produzione agricola. Il disegno che vedete qui accanto è il progetto dell’azienda svedese Plantagon International che costruirà una serra verticale di 18 piani nella città di Linköping.

L’obiettivo della Plantagon è rendere realistica la possibilità di un’agricoltura sostenibile e su larga scala anche nell’ambiente urbano. E questa serra sarà un primo modello per i loro progetti futuri. I lavori sono iniziati la scorsa settimana e l’edificio potrebbe essere completato in 12-16 mesi.

Si tratterà di un Centro di eccellenza per l’agricoltura urbana, un paradigma per tutta la Svezia, paese già molto propenso a utilizzare energia e tecnologia pulite. Il potenziale di edifici di questo tipo è straordinario, e l’estetica estremamente gradevole, anche per migliorare il fascino dello skyline cittadino.

Il progetto della serra è stato sviluppato in collaborazione con vari partner e prevede l’impiego di soluzioni integrate per risolvere i problemi di approvvigionamento energetico e idrico, surriscaldamento, smaltimento dei rifiuti e produzione di CO2. Sarà una sorta di progetto pilota per il mondo intero, che consentirà di raccogliere esperienze utilissime per la promozione dell’agricoltura urbana.

Le “buone bugie” degli ottimisti

Scritto da:  Sebastiano Todero
Fonte: http://www.buonenotizie.it/lunedi/2012/02/20/le-buone-bugie-degli-ottimisti/#more-15408

Tutti noi siamo abituati ad associare qualcosa di sbagliato e cattivo alle bugie! In sostanza veniamo educati, almeno formalmente, al fatto che non si dicono le bugie e che bisogna dire la verità! Ti confermo che è così. Ci mancherebbe altro, ma oggi parliamo delle “buone bugie” degli ottimisti che sono tutta un’altra cosa rispetto alle bugie normali!

Ok, penso che non serva specificare cos’è una bugia: è una affermazione falsa che nega un fatto esistito o afferma un fatto non reale. Ci possono essere bugie dette per tanti motivi, più o meno gravi, più o meno fantasiose, ma la bugia in sostanza è una alterazione della verità.

Non voglio fare un trattato filosofico ma solo farti riflettere sul fatto che finché parliamo di fatti accaduti, è relativamente facile dire cos’è una bugia e cos’è la verità. Poi ci può essere le buona fede o la malafede, ma di fatto è semplice capire chi mente e chi dice la verità.

Una cosa diversa invece è se parliamo di fatti che devono ancora avvenire, di prospettive e di pronostici!

In psicologia si usa addirittura il termine “profezia” ma comunque ci siamo capiti: se dico che secondo me domani succederà X o Y… se prevedo che un certo evento andrà a finire nel modo X o Y… cosa sto dicendo? Verità o bugia? Non è possibile dirlo a priori, perchè nessuno lo sa prima!

Allora, amico mio, quando parliamo del futuro, quando facciamo previsioni su come andranno le cose, sforziamoci di dire delle “buone bugie” perché alle volte le persone hanno bisogno di avere una prospettiva lieta.

Non sto dicendo che dovremmo inventarci cose impossibili e nemmeno esagerate. Eppure le persone spesso pensano alle ipotesi peggiori e “tecnicamente” anche loro stanno dicendo delle bugie, solo che si tratta di “cattive bugie” sul futuro.

Quando parliamo del futuro, solo il tempo ci darà ragione o torto ma come diciamo sempre nel Club:

“E’ meglio essere ottimisti e avere torto che essere pessimisti e avere ragione!”

Allora, senza esagerare e con le migliori intenzioni, quando parli con le persone a cui vuoi bene, cerca di essere ottimista e impara a raccontare delle “buone bugie”.

Petrolio: ce n’è ancora o sta davvero finendo?

Scritto da : Pamela Pelatelli
Fonte: http://greenme.it/approfondire/speciali/6951-petrolio-ce-ne-ancora-o-sta-davvero-finendo

A meno di dieci giorni di distanza l’una dall’altra, due notizie contrastanti si sono succedute in merito alla quantità di petrolio di cui potremo ancora usufruire.

Il 26 gennaio 2012, Nature, l’autorevole rivista scientifica americana pubblica un articolo dal titolo “Climate Policy: oil’s tipping point has passed” il quale, tradotto, significa che il punto di non ritorno per il petrolio è ormai superato, (riproposto in Italia dalla rivista Le Scienze e Internazionale) scritto da James Murray, fondatore del Program on Climate Change dell’Università dello stato di Washington e Sir David King, chief scientific adviser per il governo britannico tra il 2000 e il 2007. In sostanza. si dichiara che “la produzione di combustibili fossili di cui possiamo disporre è minore di quanto molti credano”.

Il 6 febbraio 2012, Bloomberg, il sito di informazione più accreditato dal mondo della finanza e degli affari pubblica i risultati di una ricerca effettuata dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS) riportata anche dal nostro Corriere della Sera nella quale si dice che le riserve di petrolio sono sufficienti per garantirci i prossimi 70 anni ai ritmi di consumo attuali.

A cosa è dovuta questa discrepanza di informazioni? Quali sono le argomentazioni che giustificano la prima e la seconda affermazione? Innanzitutto, è necessario premettere che l’allarme in merito alla presenza di “un picco del petrolio” è in giro da anni. Nel 1956, il geologo della Shell King Hubbert aveva calcolato che negli USA il picco di produzione petrolifera sarebbe stato raggiunto negli anni Settanta, per poi iniziare lentamente a declinare. Il dibattito degli ultimi quarant’anni è oscillato tra coloro che hanno continuato a discutere sulla veridicità del dato e coloro che invece hanno cominciato a posticipare la profezia apportando continui aggiornamenti sulle stime in merito alla presenza di riserve globali mai prese in considerazione prima.

Una dialettica di questo genere è  quella che sta alla base della divergenza tra i due articoli pubblicati recentemente. La coppia Murray&King dice che “il reale volume delle riserve accertate è oscurato dal segreto: le previsioni delle aziende petrolifere di stato non sono verificate e sembrano essere esagerate. Inoltre, e soprattutto, le riserve richiedono spesso dai 6 ai 10 anni di perforazioni e sviluppo per entrare a far parte dell’offerta, e nel frattempo avrà cominciato a esaurirsi qualche altro campo petrolifero più vecchio.”

Il servizio geologico degli Stati Uniti dichiara invece la presenza di 2 mila miliardi di barili di greggio nel sottosuolo, non ancora sfruttato. L’ottimismo deriva dal fatto che proprio negli ultimi cinque anni sono stati trovati nuovi giacimenti non conteggiabili fino a un decennio fa perché collocati troppo in profondità o in zone impervie come quelli nel nord dell’ Alberta (Canada) situati tra le sabbie bituminose, nelle valli andine della Patagonia, in Artico o nella Rift Valley in Africa orientale.

Se da un lato è soprattutto la fiducia nella tecnologia e la presenza di strumentazioni che consentono di monitorare meglio la superficie della terra, trivellare fino a 8 chilometri di profondità o in mezzo a montagne saline che giustifica un futuro ancora attaccato al cordone ombelicale del petrolio, dall’altro è proprio lo scetticismo in merito alla qualità e all’efficienza dell’estrazione il motivo dell’allarme.

Murray&King non negano la presenza di nuove riserve, ma pongono l’accento sul fatto che, nonostante ciò, la produzione effettiva negli ultimi anni ha cominciato a declinare a tassi compresi tra il 4,5% e il 6,7% all’ anno. In sostanza “non stiamo restando senza petrolio: ma stiamo finendo il petrolio prodotto con facilità e a basso prezzo”. Se si mettono a confronti gli aumenti vertiginosi della domanda a partire dal 2005, anno in cui si è vissuto un vero e proprio cambio di passo in corrispondenza dell’entrata a pieno ritmo dei BRIC (Brasile, Russia, Cina, India) con questi dati, si capisce il motivo per cui negli ultimi anni il costo del petrolio ha visto sollecitazioni e notevoli rialzi.

Dal punto di vista di Bloomberg, invece, è stato proprio l’allarme preannunciato e continuamente riproposto da accademici e istituti di ricerca sul picco del petrolio a giustificare il fenomeno dei “150 dollari a barile” generando allarme e ogni volta puntando il dito su qualche previsione più o meno apocalittica. L’attuale costo del petrolio al barile, parzialmente stabile attorno ai 80-90 dollari (al netto delle minacce guerrafondaie dell’Iran), rappresenta lo specchietto sul quale tutti vogliono vedere una crescita economica ancora prospera e duratura.

Fanno notare però Murray&King che i costi dell’energia non sono affatto diminuiti per gli Stati sovrani né tantomeno per le famiglie () . Il caso dell’Italia è riportato come esemplificativo. “Malgrado un calo delle importazioni pari a 388.000 barili al giorno rispetto al 1999, l’Italia spende oggi 55 miliardi di dollari all’anno per importare petrolio, rispetto ai 12 miliardi del 1999. La differenza è prossima al corrente deficit della bilancia commerciale. Il prezzo del petrolio ha probabilmente dato un forte contributo alla crisi dell’euro nell’Europa meridionale, i cui paesi dipendono completamente dal petrolio estero.”

L’unica verità riconoscibile in entrambe le notizie è solo che il petrolio è una risorsa finita. Che sia tra dieci anni o tra settanta, andrà inesorabilmente scomparendo. Se il Fondo Monetario Internazionale fa orecchie da mercante e continua a prevedere una crescita mondiale del PIL al 4% annuo, alcune Nazioni tra le più illuminate come la Gran Bretagna o la stessa Comunità Europea iniziano a prepararsi a un mondo senza petrolio, mentre molte comunità dal basso hanno già deciso di cominciare a cambiare il loro ritmo di vita.

Proposto allevamento di pollame in stile Matrix

Fonte: Food project proposes Matrix-style vertical chicken farms
Tradotto da: http://www.ditadifulmine.com/2012/02/proposto-allevamento-di-pollame-in.html

L’allevamento di pollame in batteria prevede che i pennuti vengano posizionati all’interno di gabbie metalliche alte circa 45 centimetri in gruppi composti da diversi individui, raggiungendo una densità pari a 22 uccelli per metro quadrato. Inutile dire quanto possa soffrire un animale in queste condizioni: poco spazio per muoversi, stile di vita alienante anche per un cervello grosso come un’arachide, per non parlare di alcune pratiche, ora bandite, come la mutilazione del becco, volte ad evitare che gli animali si scannassero tra loro per via del poco spazio a disposizione.Rispetto a pochi anni fa, oggi le condizioni del pollame sono leggermente migliorate, ma l’allevamento in batteria non potrà mai rimpiazzare quello a terra o quello biologico in termini di condizioni di vita degli animali. Ma la produzione in batteria è ciò che sostanzialmente alimenta il mercato di massa, e rinunciarvi richiede lo sviluppo di alternative valide dal punto di vista commerciale.Ogni anno, ad esempio, il Regno Unito alleva e uccide 800 milioni di polli. Sono polli cresciuti al chiuso, lontano dalla luce naturale, e selezionati per crescere e morire in fretta tramite un meccanismo “a scadenza” indotto proprio dal loro stesso metabolismo: cuore e polmoni non riescono a reggere il carico di sviluppo dell’organismo, e dopo circa 8 settimane portano alla morte dell’animale.

Dal punto di vista commerciale, la fine di questi volatili è un fendente di scure sul collo per i grossi allevatori. Chi non avrebbe qualche remora a mangiare un pollo in umido dopo aver visto le condizioni di vita del pennuto all’interno di un allevamento in batteria?
Per risolvere questo problema di immagine, Paul Thompson, filosofo della Purdue University, suggerì qualche tempo fa una soluzione chiamata “The Blind Chicken Solution” (La soluzione del pollo cieco): Thompson sostenne l’esistenza di un pollo, sviluppato in laboratorio in modo accidentale, completamente cieco e impossibilitato a sperimentare stress in condizioni di sovrappopolazione delle gabbie.
Thompson, quindi, propose di utilizzare polli ciechi per l’allevamento, risolvendo il problema di collocare più di cinque polli in un metro quadrato di spazio e dando un tocco di “umanità” all’intera questione.
Uno studente di architettura, André Ford, si è spinto ben oltre l’idea di Thompson proponendo la “Soluzione del pollo senza testa”. La ricetta è relativamente semplice: rimuovere la corteccia cerebrale di un pollo per inibire il suo sistema sensoriale, e stivare decine di polli in uno spazio attualmente riservato a qualche unità. 

Solo il tronco cerebrale dei polli verrebbe mantenuto intatto, per consentire loro di continuare a crescere fino a raggiungere le dimensioni e il peso necessari per la commercializzazione.
Ford ha proposto la creazione di enormi allevamenti urbani che si sviluppano in verticale, e contenenti ciascuno circa 1.000 pennuti connessi a macchine che li alimentano, li desensibilizzano, e li portano a maturazione in modo veloce e (teoricamente) indolore.
Se la proposta di Ford sembra una versione di “The Matrix” per galline, aspettate di sentire il resto. “Le somiglianze [con il film] sono evidenti” spiega Ford, “anche se in ‘The Matrix’ la specie dominante era così gentile da fornire alla specie sottomessa una realtà alternativa, molto migliore del loro mondo post-apocalittico”.
I piedi dei polli verrebbero rimossi per poter creare gruppi super-densi di pennuti all’interno delle gabbie.
Cibo e acqua sarebbero somministrati tramite una rete di condotti connessi direttamente con l’apparato digestivo degli animali, e un altro tubo si occuperebbe di liberarsi degli escrementi.
In questo modo sarebbe possibile raggiungere densità di 11,7 polli per metro cubo, invece che gli attuali 3,2 negli allevamenti in batteria.
Sorge tuttavia una domanda fondamentale: ciò che mangiamo del pollo è la muscolatura, e un pollo senza zampe in una gabbia che gli impedisce di muoversi non svilupperà mai una muscolatura sana.
Per Ford, questo è l’unico problema reale, ma del tutto risolvibile: ha proposto di utilizzare l’elettrostimolazione della muscolatura già sperimentata in altre ricerche sulla carne sintetica.
Disgustati? Sotto shock? Inorriditi? Secondo Ford, il suo metodo di allevamento non sarebbe peggiore di quelli attualmente in uso in tutto il mondo. “La realtà degli attuali sistemi di produzione è ugualmente spaventosa, ma sono nascosti dietro alla maschera di sentimentalismo delle scene di allevamento tradizionale, ciò che noi consumatori ricordiamo e vediamo sulle confezioni”.
“Ci sono numerose differenze tra il sistema corrente di produzione e quello che propongo io, ma la differenza fondamentale è la rimozione della sofferenza. Se la mia proposta possa essere il modo adatto per ottenere la rimozione della sofferenza è una questione aperta all’interpretazione. In realtà, questa decisione dovrebbe essere presa dal singolo consumatore”.
Secondo Ford, la “soluzione del pollo senza testa” è identica nei suoi intenti agli esperimenti di creazione di carne in laboratorio. “Le intenzioni sono le stesse, la sintesi di proteine animali senza causare sofferenza”.

Le belle armi per Atene

Fonte: http://vocidallestero.blogspot.com/2012/02/le-belle-armi-per-atene.html#more
Die Zeit – Fregate, sottomarini e carri armati: per l’esercito greco non ci sono misure di risparmio. E la Germania ne trae vantaggio.
Il nostro interlocutore  ha in testa chiara la lista dei desideri del Ministero della  Difesa greco: fino a 60 aerei da combattimento del tipo Eurofighter per circa 3.9 miliardi di Euro. Fregate francesei per circa 4 miliardi, motovedette per 400 milioni di euro. Questa sarebbe la somma prevista per la modernizzazione della flotta greca. Mancherebbero ancora le munizioni per i Panzer Leopard, e si dovrebbero sostituire 2 elicotteri di fabbricazione americana Apache. E poi bisognerebbe comprare dei sottomarini tedeschi, prezzo complessivo: 2 miliardi di Euro.
Quello che ci racconta l’uomo che esce ed entra dal Ministero della Difesa greco suona alquanto assurdo. Uno stato che è vicino al fallimento e che viene sostenuto con i miliardi dell’Unione Europea, vuole acquistare grandi quantità di armi. L’uomo che incontriamo in un caffé di Atene lo si vede spesso nelle foto vicino al ministro o ai generali dell’esercito greco, telefona spesso a queste persone, e sa come muoversi. Sa quanto sensibile sia il tema, e vorrebbe perciò non far comparire il suo nome sul giornale. Non considera l’acquisto di armi un tema da rendere pubblico. “Se la Grecia in marzo riceverà come previsto la prossima tranche di aiuti finanziari da 80 miliardi, c’è una possibilità molto concreta, di chiudere dei nuovi contratti per la fornitura di armi”.
Se dovesse rimanere disponibile anche un miliardo, ci rivela il nostro interlocutore, potremmo ordinare il primo Eurofighter oppure fare un ordine vincolante per le fregate.
Veramente incredibile: in questi giorni si decide se la Grecia deve rimanere nella moneta unica o tornare alla Dracma. Negli stessi giorni i medici trattano negli ospedali di Atene solo i casi piu’ urgenti, scioperano i conducenti dei bus, mancano i libri nelle scuole e migliaia di dipendenti pubblici dimostrano contro il loro prossimo licenziamento. Il Governo approva un piano di tagli che non risparmierà nessun cittadino.
Nelle forze armate e nell’industria della difesa ogni pacchetto di risparmio governativo è passato senza lasciare tracce.
La Grecia dopo il Portogallo è il piu’ grande acquirente di armi tedesche.
Nel 2010 il bilancio della difesa greco era di quasi 7 miliardi di Euro. Questo rappresenta circa il 3% del PIL del paese, una cifra che nella NATO raggiunge solo gli USA. E nel 2011 il ministero della difesa greco ha ridotto di 500 milioni di Euro gli acquisti di armi. Per quanto riguarda il numero dei 130.000 mila soldati per ora non cambia nulla.
Fra i partner europei della Grecia ce ne sono pochi che si pronunciano pubblicamente per un il blocco delle spese militari greche. Uno di questi è Daniel Cohn-Bendit, capo dei verdi all’Europarlamento: “Dall’esterno i paesi europei intervengono praticamente in tutti gli ambiti di azione del governo greco. Agli infermieri sarà ridotto lo stipendio, e tutto il possibile sarà privatizzato. Solo il bilancio della difesa, si sostiene, sarebbe un diritto sovrano degli stati. Questo è surreale”
Cohn-Bendit ritiene che dietro l’esitazione dell’Europa si nascondano degli interessi economici molto forti. E il maggior approfittatore della politica di armamento greca in Europa è la Germania, campione europeo del risparmio. Secondo il resoconto sull’expport di armi del 2010 appena pubblicato, la Grecia dopo il Portogallo – un altro stato vicino al fallimento – è il più grande acquirente di armi tedesche. I giornali spagnoli e tedeschi, hanno diffuso il rumor, secondo il quale Angela Merkel e Nicolas Sarkozy durante un meeting in ottobre con il presidente Papandreu, gli avrebbero ricordato di completare gli ordini di armi aperti e esortato a farne di nuovi. Negli ambienti di Papandreu questo non è stato confermato, anche il governo federale avrebbe smentito: “le notizie secondo le quali la cancelliera  Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy avrebbero proposto alla Grecia nuovi contratti per l’acquisto di armamenti, sono prive di fondamento” ha comunicato per e mail un portavoce del governo federale di Berlino.
L’acquisto di armamenti ha portato all’esplosione del debito pubblico greco.
Ma chi ascolta a Berlino, Brussel e Atene ha qualche dubbio sulla descrizione del ruolo della Germania dato dal governo di Berlino. L’industria degli armamenti ha una forte influenza nella capitale – quanto, ce lo racconta Hilmar Linnenkamp. E’ stato per anni vice direttore per il Dipartimento degli Affari Internazionali al Ministero della Difesa, e oggi è consigliere presso la fondazione “Wissenschaft und Politik”. “L’industria degli armamenti ha tradizionalmente degli ottimi rapporti con i vertici govenativi” ci dice.
Questo emergeva chiaramente durante le visite di stato in Grecia: i membri del governo tedesco dichiaravano i loro desideri di export, ed i greci ribadivano le loro esigenze di import. Tutti sapevano che “la Grecia stava investendo troppo nel suo esercito”, ci dice Linnenkamp. Così i greci nel corso degli anni hanno ammassato enormi montagne di debiti.
Di uno di questi affari miliardari ce ne parla anche il nostro uomo, nel caffé del centro di Atene. Il governo greco già nel 1999 voleva ordinare 90 Eurofighter e perciò aveva parlato con il produttore EADS e con il ministro degli esteri di allora Joschka Fischer (Verdi). I lobbisti dell’industria delle armi di allora non riuscivano a contenere la loro gioia: “avevamo bisogno di un ministro degli esteri Fischer che parlasse con il presidente greco di allora Simitis. Un ministro dei Verdi che trattava con un presidente socialdemocratico per l’acquisto di aerei da guerra” ci dice il nostro interlocutore. Peccato che l’affare si sia fermato ad una lettera di intenti – con molto dispiacere del governo federale e del consorzio militare EADS.
Tra il 2005 e il 2007, così raccontano persone vicine al precedente governo greco, la cancelliera Merkel ha cercato di convincere ancora i greci a mantere le loro promesse. Il capo di governo di allora Kostas Karamanlis voleva però giocare con il tempo. I contenuti delle riunioni di governo sono riservati: ma in questi incontri “non sarebbe usuale per la cancelliera Merkel fare pressione per l’acquisto di Eurofighter” ci dice oggi una portavoce del governo di Berlino.
Ancora nella primavera del 2010 il Ministro degli Esteri Westerwelle (FDP) aveva ricordato al governo greco dell’acquisto promesso degli Eurofighter, poche settimane prima che il fallimento di Atene fosse reso pubblico. “Westerwelle aveva richiesto un impegno per gli Eurofighter”, ci dice qualcuno che ha assistito ai colloqui molto da vicino. Il ministro degli esteri aveva di nuovo assicurato sul quotidiano greco Kathimerini : “Non facciamo pressione sul governo greco per l’acquisto. Ma se ad un certo punto una decisione per l’acquisto di aerei da combattimento dovesse essere presa, i paesi del consorzio Eurofighter, che qui attraverso la Germania sono rappresentati, dovrebbero essere presi in considerazione nella decisione. All’interno dell’Unione Europea questo sarebbe pienamente normale”. Poche settimane dopo aveva richiesto Westerwelle sul giornale Börsen Zeitung più disciplina dai paesi del Sud Europa: “ci aspettiamo, prima che ci siano discussioni sugli aiuti, che la Grecia esegua pienamente i propri compiti a casa per il consolidamento di bilancio”.
Come si spiega questo comportamento? Ci dice l’esperto di armamenti Linnenkamp: “è stato completamente da irresponsabili, nel pieno della crisi economica greca, proporre il tema degli Eurofighter”.
Ma non riguarda solamente gli Eurofighter: l’ultimo report sull’export di armamenti ci mostra  che la Grecia nel 2010 ha importato dalla Germania esattamente 223 Panzer del tipo M109 provenienti dai depositi della Bundeswehr e perfino un sottomarino della classe 214. Valore totale degli affari: 403 milioni di Euro. Negli anni precedenti anche la Krauss-Maffei Wegmann aveva guadagnato abbondamente nel sud Europa. L’azienda di Monaco aveva consegnato 170 Panzer Leopard-2 ad Atene, per un valore di 1.7 miliardi di Euro. Quando i greci sono rimasti indietro con i pagamenti, i funzionari pubblici nel governo di Berlino hanno discusso di nuovo il tema: “la linea era quella di cercare di incassare gli arretrati verso l’industria degli armamenti” dichiara un lobbista tedesco.
Anche i sottomarini della Thyssen Krupp, gli elicotteri della Eurocopter e i missili della Diehl BGT Defence sono l’orgoglio dei militari greci. La spesa militare ha contribuito molto all’esplosione del debito pubblico greco. La Grecia non è solamente al vertice della classifica europea della percentuale di spesa in armamenti in rapporto al PIL. Secondo l’istituto di ricerca svedese sulla pace SIPRI fra il 2005 e il 2009 solo Cina, India, gli Emirati Arabi e la Corea del Sud hanno registrato piu’ import di armi di quanto non abbia fatto la Cina.
Dimitris Droutsas è uno dei pochi greci che su questi numeri si esprime volentieri. Fino al 2001 è stato Ministro degli Esteri greci. “Non abbiamo speso così tanto per la difesa solo perchè questo ci faceva piacere” ci dice. I confini greci dovevano essere difesi contro i flussi migratori dal Nord Africa e dall’Asia e ogni giorno abbiamo conflitti con la Turchia. “Come ministro degli esteri ho sempre ricevuto, quasi ogni giorno, notizie sulla violazione del nostro spazio aereo da parte di aerei turchi”. “Inoltre la Grecia ha guardato con preoccupazione alla crescente attività della marina turca nel mar Egeo e solo 35 anni fa abbiamo vissuto l’invasione turca di Cipro”. Da allora  i greci vivevano in uno stato di paura. Che ci sia stata una corsa agli armamenti con la Turchia, anche se entrambi fanno parte della NATO, Droutsas lo considera legittimo: “Che noi vogliamo o no, la Grecia è obbligata ad avere a disposizione una larga forza militare”.
E’ mancata fino ad ora la pressione dall’esterno a bloccare il riarmo.
Gli uomini come Droutsas non devono temere la rabbia del proprio popolo. Il settore militare  garantisce infatti sicurezza e posti di lavoro. In un paese senza industrie significative questo vuol dire molto. Le industrie militari tedesche l’hanno capito presto e si sono legate strettamente con le industrie greche. Qualcuno che ha trattatto a lungo sull’argomento racconta: “in Grecia gli affari legati agli armamenti erano un dare e un avere. Che cosa ricevo in in cambio se compro da voi un panzer? Si trattava sempre di ricompense. Ogni politico che sottoscriveva un contratto con le aziende tedesche, sperava che una parte del denaro versato potesse tornare indietro”.
Quando nel 2003 è stato siglato un contratto per l’acquisto di Panzer Leopard con l’azienda di Monaco Krauss-Maffei Wegmann (KMW), questo non ha garantito solo posti di lavoro tedeschi, ma anche centinaia di lavori per l’azienda Hellenic Defence Veichle Systems nella città portuale tedesca Volos. Questa azienda, controllata dal gruppo KMV, fu fondata proprio per ottenere la Grecia come cliente: e successivamente le è stato assegnato il montaggio di 100 Panzer. Oggi i suoi dipendenti si sono specializzati nella manutenzione dei Panzer e dei loro accessori. Gli stessi lobbisti si meravigliano che la Grecia, secondo il registro delle armi delle Nazioni Unite abbia 1614 carri armati nell’inventario. “In questa regione così impervia, con i panzer, i greci non potrebbero fare nulla” ci dice un esperto del settore. Nonostante questo sono stati acquistati.
Lo stato sociale si restringe, il bilancio della difesa si allarga.
Anche il cantiere di Kiel HDW (Howaldtswerke-Deutsche Werft) hanno fatto buoni affari con la Grecia. Affinché la vendita degli U-boot (sottomarini) del valore di 2.85 miliardi potesse concludersi, i tedeschi hanno dovuto acquistare la barcollante Hellenich-Shipyards-Werft ad Atene. Questo ha garantito 1.000 posti di lavoro ai greci.
Che in Grecia non si levassero critiche per i contratti miliardari con la Germania, non suscita meraviglia. Dietro le quinte i militari e i lobbisti erano daccordo “perchè nel settore si sapeva con esattezza quello che la Turchia stava ricevendo, e corrispondentemente si faceva pressione affinché noi greci potessimo disporre dello stesso” dichiara un politico greco.
Anche la pressione dall’esterno ad arrestare il riarmo, ancora ad oggi non c’è stata. Le conseguenze: secondo le indicazioni della Troika (EU, FMI, BCE) il budget della difesa non sarà toccato. Secondo il programma di stabilità e crescita, già nel 2010 il budget per gli armamenti doveva essere ridotto dello 0.2 %, pari a 457 milioni di Euro. Questo sembra molto, ma nello stesso documento si propone di tagliare la spesa sociale di 1.8 miliardi di Euro. Anche nel 2011 si dovevano ricercare ulteriori tagli alla spesa per la difesa. Concretamente questo non è stato ancora fatto.
Il Parlamento greco ha utilizzato questa libertà prontamente. Nel bilancio 2012 si prevede che lo stato sociale debba diminuire di un ulteriore 9 %, circa 2 miliardi di Euro. I contributi alla NATO dovrebbero aumentare del 50 % fino a raggiungere i 60 milioni di Euro, le spese per il Ministero della difesa dovrebbero crescere di 200 milioni di Euro e raggiungere 1.3 miliardi di Euro: una crescita del 18.2 %.
E il governo tedesco? Così ci dice un portavoce del governo di Berlino: “il governo sostiene il programma di consolidamento del primo ministro Papademos. E’ accettato che il governo greco prenda misure di risparmio anche in ambito militare”. Allo stesso tempo il portavoce riferisce che che ci sono dei casi di mancato pagamento in merito alla fornitura di armi. “Ci sono stati con i precedenti governi delle conversazioni su casi particolari di ritardo nei pagamenti. Il governo federale tuttavia si aspetta che tali contratti vengano onorati”

La battaglia di Stalingrado

Fonte: http://www.aworldtowin.org/italy/27_stalingrad.htm

La Battaglia di Stalingrado, uno scontro titanico durante la II Guerra Mondiale tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica socialista, è stata tema di innumerevoli studi, libri, film e memorie. Senza dubbio, tra le opere recenti, – il libro di Anthony Beevor, importante scrittore britannico in questioni militari, e il film del regista francese Jean-Jacques Annaud – hanno contribuito a ché la nuova generazione conosca ciò che è stata la più grande battaglia della storia. Non si è trattato soltanto di uno scontro militare su larga scala, che mise contro milioni di soldati, bensì il punto chiave di un dramma nel quale si affrontarono due sistemi sociali – il sistema capitalista-imperialista rappresentato dai nazisti tedeschi e quello socialista che nacque dalla Rivoluzione d’Ottobre e che si sviluppò durante due decenni con la direzione di Lenin e Stalin – in un combattimento per la vita o la morte. Fu il punto di svolta della II Guerra Mondiale e il principio della fine della Germania di Hitler, che fin dall’invasione dell’URSS, aveva occupato facilmente tutto l’est e l’ovest dell’Europa.

In rapporto alla grandezza del tema, il libro di Beevor e il film di Annaud sono troppo brevi. Il valore del popolo nella difesa dell’URSS e l’eroismo dell’Esercito Rosso, capace di resistere, e infine vincere, un nemico molto meglio attrezzato, è un evento storico tanto grande che non si può trascurarlo tanto facilmente. Per quanto possa sembrare ingiusto equiparare l’erudizione di Beevor con la stupida fiction holliwodiana di Annaud, entrambe le opere, sebbene in differenti sfere e con differenti pubblici, cercano di spiegare l’eroismo del proletariato dal punto di vista della borghesia. Sebbene entrambe le opere siano fedeli ai “fatti” (è possibile imparare molto da esse dal punto di vista del proletariato rivoluzionario), si portano appresso una grande menzogna: che la più grande vittoria militare di tutti i tempi sia avvenuta senza che abbia avuto importanza, o addirittura sia stata in contrasto, l’esistenza del sistema socialista e della dittatura del proletariato. In fondo, la loro è una missione senza speranza. Senza tener conto di quanto talento contengano o come siano state finanziate le opere (il film di Annaud ha avuto il maggior budget mai visto per un film europeo), il risultato può avere l’effetto contrario; spingere la nuova generazione a scoprire da se stessa il vero significato della parola “Stalingrado”.

ANTEFATTI DELLA BATTAGLIA

Come risposta alla sua sconfitta nella I Guerra Mondiale e l’imposizione del terribile Trattato di Versailles, la classe dominate imperialista tedesca si era dedicata a sviluppare un nuovo settore imperialista nel mondo. L’altro obbiettivo che accompagnò questo sforzo era il desiderio di eliminare l’Unione Sovietica, il primo stato socialista del mondo. Lo strumento che utilizzò per i propri fini è stato il partito Nazionalsocialista (nazista) diretto da Hitler.

Tutto il mondo imperialista condivideva l’obbiettivo della distruzione dell’URSS. Inghilterra, Francia e Stati Uniti non avevano meno odio verso la dittatura del proletariato. Uno degli “obbiettivi di guerra” principali dell’Inghilterra e Stati Uniti nella II Guerra Mondiale è stato quello di far sì che la Germania dirigesse la sua macchina da guerra contro l’est, perché distruggesse l’URSS, e si indebolisse in questo processo. Mao Tsetung chiamò questa politica “stare seduti sulla montagna come spettatori e guardare combattere le tigri”.

Per sviare questa strategia, l’Unione Sovietica cercò un accordo con gli imperialisti anglo francesi, per una difesa congiunta contro la Germania. Questo tentativo fallì, e nel 1939, l’URSS firmò un patto di non aggressione con la Germania. Nei due anni seguenti, l’apparato militare tedesco conseguì una vittoria dopo l’altra: Polonia, Danimarca, Olanda e Belgio. Invase la Francia, che capitolò subito (la grande maggioranza della classe dominante francese si alleò con la Germania durante la guerra). L’esercito britannico in Europa retrocesse rapidamente dall’altro lato dello stretto di Dover.

I britannici rimasero a braccia conserte, mentre Hitler consolidava il suo potere nel continente e preparava una poderosa offensiva contro l’URSS. Il 22 giugno del 1941, i tedeschi cominciarono l’attacco con una massiccia forza d’invasione di 5.500.000 soldati (compreso le forze degli stati satelliti della Romania, Bulgaria, ecc.), 3.350 carri armati e 2.000 aerei e, grazie all’occupazione, contando sulle riserve dell’Europa occupata. Attaccò su tre fronti: dal nord verso Leningrado, al centro verso Mosca e al sud verso Kiev e, più in là, Stalingrado e la regione del Caucaso. L’Esercito Rosso dovette difendere il fronte occidentale lungo 4.500 chilometri, con 1.100 chilometri di costa. Inoltre, sebbene l’URSS si stesse preparando per l’inevitabile conflitto militare, non aveva terminato il consolidamento delle sue difese. Uno degli aspetti importanti è che il momento, la misura e la direzione dell’attacco tedesco colsero di sorpresa l’URSS. Nelle zone del suo attacco principale la Germania riuscì a concentrare forze superiori in ragione di 4 o 5 a 1, e contava sulla superiorità nel combattimento aereo e capi più sperimentati, in particolare con i carri armati. Imponeva il Blitzkrieg, un attacco fulmine che aveva funzionato molto bene contro i suoi nemici fino ad ora.

I primi giorni e le prime settimane della guerra costituirono quasi un disastro per l’URSS. Su ogni fronte, l’Esercito Rosso subì sconfitte e retrocesse, e le sue unità disorganizzate e senza comunicazioni uscirono sconfitte per mano dei tedeschi. Nelle prime tre settimane di combattimento, secondo Beevor, l’Esercito Rosso perse 2.000.000  soldati, 3.500 carri armati, 6.000 aeroplani e una grande percentuale di ufficiali. A settembre, i tedeschi erano già alla periferia di Leningrado. Al sud, Kiev, la capitale dell’Ucraina, la seconda repubblica dell’URSS stava sul punto di essere rasa al suolo dai tedeschi. Stalin e i capi sovietici, che in questo hanno fatto, si pensa a volte, il più grande errore militare della guerra, chiamarono l’Esercito Rosso a difendere Kiev ad ogni costo. L’Esercito Rosso oppose una irriducibile ed eroica difesa, ma contro tale forza d’oppressione, la sconfitta fu inevitabile, e quasi 500.000 soldati dell’Esercito Rosso furono catturati.

Secondo il segno che i tedeschi avevano lasciato e tendevano a lasciare in tutto il continente, il collasso dell’URSS doveva essere imminente. Alla fine di settembre, un fiducioso e arrogante Hitler diede ordine di radere al suolo Leningrado e poi fare scomparire Mosca sostituendola con un grande lago artificiale. Anche le potenze alleate attendevano piene di speranza, l’imminente caduta di Leningrado e Mosca. Il segretario della guerra yankee, Henry Stimson, sintetizzò il punto di vista quasi unanime della sua direzione militare, scrivendo che la vittoria tedesca avrebbe richiesto “al massimo tre mesi”.

Il partito comunista dell’Unione Sovietica rispose organizzando e dirigendo una mobilitazione militare senza precedenti in tutto il paese, e scatenò quella che oggi chiamiamo guerra popolare. Con la classe operaia e le masse di Leningrado fu possibile impedire l’entrata in città delle forze militari superiori della Germania, con la mobilitazione di 250.000 persone, principalmente donne, intente a scavare chilometriche trincee anticarro. Gli abitanti della città difesero con eroismo un posto che avrebbe resistito 900 giorni, nel quale morirono fino ad un milione di persone, nella maggioranza donne. A Mosca, il governo considerava seriamente la possibilità di abbandonare la città; il corpo di Lenin fu trasferito in un luogo sicuro. Invece di partire, Stalin decise, contrariamente al parere di altri, di organizzare una sfilata militare di sfida nell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Da qui, l’esercito rosso marciò direttamente a combattere al fronte contro gli invasori tedeschi.

Il popolo si mobilitava ovunque, moltissimi comunisti andarono al fronte per elevare la capacità di combattimento e lo spirito delle truppe. I comunisti organizzarono unità di partigiani dietro tutti punti delle linee nemiche, al fine di scatenare una guerra di guerriglia contro gli invasori. I partigiani sopravvissero in difficili condizioni, alla macchia, con l’appoggio delle masse che fu vitale, nonostante la politica di genocidio tedesca di massacrare i civili per ogni atto di resistenza. Nella retroguardia il popolo lavorava giorno e notte per trasportare fabbriche intere in luoghi lontani dagli invasori, e incrementarono incredibilmente la produzione davanti alla necessità materiale della guerra.

Nel dicembre 1941, all’inizio del terribile inverno (con temperature di meno 20 gradi), l’esercito tedesco era arrivato alle porte di Leningrado e Mosca e al largo della linea nord-sud del mar di Crimea. Ciononostante, l’offensiva si era un po’ fermata e alcuni contrattacchi cominciarono a causare perdite ai tedeschi.

I tedeschi avevano molto sottovalutato la capacità di resistenza dell’esercito e del popolo sovietico. Con l’arroganza dovuta al punto di vista di classe, pensavano di poter attaccare in tre punti diversi con più o meno intensità allo stesso tempo. All’arrivo della primavera i generali tedeschi avevano già cominciato a preparare i piani. Decisero di lanciare il grosso delle forze in un massiccio assalto verso sud-est, verso la città che portava il nome del capo sovietico.

Stalingrado (oggi Volgograd) si trova sulla sponda del fiume Volga, uno dei principali fiumi della Russia e un’importante via di trasporto tra l’Europa e l’Asia. Rappresenta la via d’ingresso al Caucaso, dove molte nazionalità non russe vivevano nelle diverse repubbliche socialiste unite nell’URSS. L’alto comando tedesco sperava di fare uso delle contraddizioni tra i popoli dell’Unione Sovietica per indebolire la sua capacità di combattimento. Per esempio, i tedeschi concentrarono tra il fiume Don e il Volga molti cosacchi, che erano stati ingannati, in epoca precedente, dallo zar e usati come forze di contrasto della rivoluzione.

I campi petroliferi di Baku, dell’Azerbaigian sovietico, vicino alla frontiera con l’Iran, furono un obbiettivo molto importante per la macchina da guerra tedesca. Con la sua cattura, potevano privare i sovietici del petrolio. Inoltre, l’esercito tedesco pensò che catturando Stalingrado e attraversando il Volga, poteva poi ritornare al nord e accerchiare Mosca che era ancora assediata da ovest. In una parola, tutti i piani dei tedeschi dipendevano adesso dalla conquista di Stalingrado.

Sebbene i comunisti, gli operai con coscienza di classe e i settori più avanzati del popolo sovietico fossero decisi a non cedere davanti a nessun sacrificio nel combattere gli aggressori tedeschi, esisteva un piccolo settore di controrivoluzionari che ricevevano a braccia aperte i tedeschi con la speranza di essere salvati dai bolscevichi. Ci furono anche un certo numero di persone che spaventate dagli avanzamenti iniziali dell’esercito tedesco non credevano nella possibilità della vittoria. (Poi, i sovietici fecero un bilancio: il disfattismo era stato alimentato in particolare dall’eccessiva semplificazione della propaganda anteguerra che tendeva a disprezzare la potenza del nemico, generando sorpresa e incredulità quando il nemico risultò essere un avversario formidabile. Mao sintetizzò l’orientamento corretto, scrivendo che tutti gli imperialisti e i reazionari sono tigri di carta, ma con vere zanne, e che il popolo deve disprezzarli strategicamente, ma prenderli molto sul serio tatticamente). Nell’esercito e nel partito sovietico, perfino ai più alti livelli, ci furono manifestazioni di disfattismo e fuggi fuggi generale.

Nei primi mesi della campagna al sud, il riorganizzato esercito tedesco, tornò ad infliggere dure sconfitte all’esercito rosso. Stalin e i capi sovietici compresero correttamente i pericoli della campagna che si avvicinava. Il 27 luglio del 1942, Stalin, in quanto capo dell’esercito, emise il decreto 227 che diceva tra l’altro:

“I combattimenti si sviluppano nella regione di Voronez, Don, nel sud della Russia, alle porte del nord del Caucaso. Gli invasori tedeschi si dirigono verso Stalingrado, verso il Volga e vogliono catturare a qualsiasi prezzo Kuban e il Caucaso del nord, con le ricchezze del petrolio e del grano. Il nemico ha già catturato Voroscilov, Starobelsk, Rossosh, Kupiansk, Valuiki, Nonokerkassk, Rostov e nel Don e la metà di Voronez. Alcune unità del fronte sud, seguendo coloro che si sono fatti prendere dal panico hanno abbandonato Rostov e Novokerkassk senza resistenza effettiva e senza ordini da Mosca, coprendo così le bandiere di vergogna. Il popolo del nostro paese che tratta l’Esercito Rosso con amore e rispetto, sta cominciando a perdere la fiducia in esso, e molte persone lo maledicono per la sua fuga a est, per aver lascito la popolazione sotto il giogo tedesco. Alcuni ingenui al fronte danno credito agli argomenti che sia possibile continuare a ritirarci a est poiché abbiamo vasti territori, abbondanti terre e una grande popolazione, e abbiamo sempre abbondanza di pane. Con questi argomenti cercano di giustificare la propria condotta vergognosa al fronte. Tutti questi argomenti sono completamente falsi e equivoci e servono ai nostri nemici. Ogni comandante, soldato e commissario politico deve comprendere che le nostre riserve non sono infinite. Il territorio dell’Unione Sovietica non è un deserto, esso è bensì popolato da operai, contadini, intellettuali, i nostri padri e le nostre madri, le nostre spose, fratelli e figli. Il territorio dell’URSS, che è stato conquistato dal nemico e nel quale il nemico lotta con impazienza per conquistare il resto, rappresenta il pane e altre riserve per l’esercito e i civili, ferro e petrolio per le industrie, fabbriche, treni e impianti che forniscono alle forze armate armi e munizioni. Esso contiene anche le nostre vie ferroviarie. Con la perdita dell’Ucraina, Bielorussia, le repubbliche baltiche, la valle di Donetsk e altre regioni abbiamo perso vasti territori. Ciò vuol dire che abbiamo perso moltissimo in materie prime e persone, pane, metalli, fabbriche e impianti. Non abbiamo grande superiorità rispetto al nemico in quanto a risorse umane e pane. Continuare la ritirata significa distruggerci da soli e distruggere la nostra patria. Ogni pezzo di territorio che lasciamo al nemico lo rafforza e indebolisce noi, le nostre difese e la nostra patria. Per questo, dobbiamo smettere di dire che possiamo retrocedere indefinitamente con la scusa che abbiamo un vasto territorio, che il nostro paese è grande e ricco, che abbiamo una grande popolazione e che avremo sempre pane a sufficienza. Parlare così è falso e nocivo. Indebolisce noi e rafforza il nemico. Se non fermiamo la ritirata rimarremo senza pane, senza gasolio, senza metalli, senza materie prime, senza fabbriche né impianti, senza ferrovie. In conclusione: è ora di fermare la ritirata, non un passo indietro! Questa deve essere d’ora in poi la nostra parola d’ordine. Dobbiamo proteggere ogni punto forte, ogni metro di terra sovietica, irriducibilmente, fino all’ultima goccia di sangue. Dobbiamo aggrapparci ad ogni centimetro della nostra patria e difenderlo in qualsiasi modo. La nostra patria vive tempi difficili. Dobbiamo fermare, affrontare e distruggere il nemico, a qualsiasi costo. I tedeschi non sono così forti come dicono coloro che si son fatti prendere dal panico. Le sue forze si sono tese fino al limite. Fermare i suoi colpi adesso significa assicuraci la vittoria in futuro”.1

Questa combinazione di volontà d’acciaio e una penetrante valutazione della situazione generale riflette la tempra di capo che Stalin mise al servizio del popolo durante la guerra. Per esso, si conquistò l’amore e il rispetto delle masse, non solo della terra del socialismo, ma anche delle masse di tutto il mondo, che, come disse Mao, osservavano con emozione il dramma che si rappresentava. La parola d’ordine “non un passo indietro!” si trasformò nel grido di battaglia dell’Esercito Rosso, e in principio guida della battaglia di Stalingrado.

Mao scrisse: “la guerra rivoluzionaria è guerra delle masse, e si può realizzare solo mobilitando le masse e appoggiandosi ad esse”. Questo è vero, non solo per i soldati al fronte, ma anche per ogni aspetto della guerra. Tutta la popolazione sovietica si mobilitò e tutto si subordinò alle necessità di combattimento dell’Esercito Rosso. Nel 1941, furono fabbricati 6.000 carri armati e nel 1942, 25.000, nonostante le immense perdite di territorio e capacità produttive.

La difesa dell’Unione Sovietica fu indubbiamente una guerra popolare, sebbene diversa dalla maggior parte delle tappe della guerra popolare in Cina o delle guerre popolari che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Non si trattava, in linea generale, di una guerra di guerriglia. È stata una guerra di movimento e di posizione, con una enorme quantità di truppe e munizioni, che richiese l’azione coordinata di tutti i rami delle forze armate (fanteria, carri armati, aviazione, artiglieria, esercito, ecc.); questo tipo di guerra ha le sue proprie particolarità, le sue proprie leggi, le quali devono essere conosciute dai capi politici e militari.

Mao sottolinea “l’attività cosciente dell’uomo” nella guerra. È più facile comprendere questo fatto nel contesto della guerra di guerriglia, nella quale tutto dipende dal coraggio, dall’iniziativa, volontà di sacrificio e tenacia di unità relativamente piccole di soldati, ma ugualmente nei combattimenti massicci altamente coordinati che ebbero luogo in Unione Sovietica. E se mancassero prove di questo principio, ciò è stato dimostrato dalla battaglia di Stalingrado.

Dal principio della guerra l’esercito tedesco si sorprese dello spirito di combattimento dei soldati sovietici. Il generale tedesco Halder scrisse: “in ogni parte i russi hanno lottato fino all’ultimo uomo. Si arrendono solo raramente.” Beevor commenta: “il maggior errore dei capi tedeschi fu di aver sottovalutato ‘Ivan’, il soldato semplice dell’Esercito Rosso”. È ovvio che i sovietici combatterono come nessun lo aveva mai fatto contro la macchina da guerra tedesca. Come dimostra il primo anno della guerra, il valore e il morale non furono sufficienti. Per scatenare “l’attività cosciente dell’uomo” è necessario applicare, anche, strategia e tattica corretta.

STALINGRADO

La Battaglia di Stalingrado cominciò il 21 agosto del 1942, quando l’esercito tedesco attraversò il fiume Don che in questa parte del sud della Russia si trova ad una decina di chilometri dal Volga. Due giorni dopo, intensi bombardamenti aerei provocarono una distruzione barbara nella città. Divisioni di panzer irruppero nella città e arrivarono sulle rive del Volga. Secondo Beevor, su una popolazione di 600.000 persone, ne morirono 40.000, uomini donne e bambini, nella prima settimana di bombardamenti. Il 25 agosto del 1942, erano stati evacuati la maggior parte dei non combattenti sulle barche, mentre l’aviazione tedesca realizzava cruenti bombardamenti.

Coloro che rimasero nei quartieri e nelle fabbriche si integrarono completamente nel lavoro di difesa. Nel nord della città c’era una zona industriale con una grande quantità di fabbriche che si erano convertite alla produzione militare. La fabbrica di trattori Dzerzinsky, la fabbrica Barricata e Ottobre Rosso adesso producevano carri armati che andavano dalla linea di montaggio direttamente al fronte, che al 30 settembre era a un solo minuto distanza della zona. Il principale comando sovietico si trasferì sul lato asiatico del Volga, fino all’est, che ancora era fermamente in mani sovietiche. Il LXII corpo d’armata sovietico stabilì posizioni in una stretta frangia del centro della città; solo alcuni centinaia di metri separavano il Volga e il fronte del VI corpo d’armata tedesco. I tedeschi si stabilirono tra il LXII e il LXIV corpo d’armata, i quali avevano preso posizione nella parte sud della città. Il precedente comandante del LXII non era stato all’altezza del compito e aveva cominciato una ritirata verso l’altro lato del Volga. Per questo il generale Vassili Chiukov prese il comando e ordinò di proteggere Stalingrado ad ogni costo. In questo momento il LXII si era ridotto a solo 20.000 effettivi che combattevano il grosso del VI corpo d’armata tedesco che dietro ordine di Hitler doveva prendere Stalingrado a qualunque costo.

A settembre Stalin e il generale Zukov, secondo comandante in capo delle forze sovietiche, elaborarono un grande piano per far impantanare il VI corpo d’armata tedesco a Stalingrado, mentre le forze sovietiche preparavano una gigantesca controffensiva per cercare di intrappolare tutto il VI. L’operazione, con il nome in codice Urano, si fece in segreto; Stalin e Zukov non parlavano per radio o telefono né per mezzo di codici.

I sovietici scatenarono un accanito combattimento. Si dice che nessun edificio rimase in piedi dopo il bombardamento, ma i sovietici trasformarono le macerie in un campo di morte per i tedeschi. Chuikov formò piccole unità, da 6 a 9 effettivi, per condurre combattimenti di strada. La stazione ferroviaria cambiò di mano fino a 5 volte durante la battaglia. Ad un certo momento, un negozio di granaglie diventò un punto importante del fronte, nel quale i tedeschi difendevano un piano mentre i sovietici difendevano i piani immediatamente superiori e inferiori. Chuikov ordinò alla truppa di rimanere a non più di 50 metri, o alla distanza di un tiro di bomba a mano, dal fronte nemico, in ogni momento.

In questo tipo di tenace combattimento corpo a corpo le forze sovietiche usarono tattiche che diedero loro la piena capacità, coraggio, audacia e autosacrificio, e sminuirono i vantaggi dei tedeschi, in particolare la loro superiorità in armi ed effettivi. Dato che l’esercito rosso teneva le linee così vicine e strettamente mescolate al nemico era difficile ai tedeschi bombardare dall’aria o usare artiglieria senza mettere in pericolo i propri soldati. Chuikov scrisse che i soldati tedeschi odiavano combattere corpo a corpo: “Il loro morale non lo sopportava. Non erano sufficientemente valorosi per guardare il soldato sovietico faccia a faccia. Si poteva identificare un soldato nemico da lontano, specialmente durante la notte, perché costantemente ogni 5 o dieci minuti sparava con la sua mitraglietta per rafforzare il proprio morale. Così, i nostri soldati trovavano questi “guerrieri”, si avvicinavano di nascosto e li annientavano con una pallottola o colpo di baionetta” (citato da Obrero, 22 aprile 2001). Il metodo della guerra imperialista di bombardare tutto, cose reali o immaginarie, contribuì a che i tedeschi lanciassero milioni di munizioni solo a settembre, ciò che aggravò i loro problemi di approvvigionamento. (Non c’è da sorprendersi se dopo che l’Unione Sovietica si trasformò in paese imperialista, le sue forze armate reazionarie invadessero e occupassero l’Afghanistan con un massiccio bombardamento, esattamente come avevano fatto prima gli Stati Uniti in Vietnam. Questo è il carattere di classe da bestia reazionaria che li fa combattere in questa forma).

Il movimento dei franchi tiratori dell’esercito rosso che rese popolare Xeitov (“la lepre”) tra altri franchi tiratori, che presenta il film Il nemico alle porte, diede colpi durissimi alla macchina da combattimento tedesca. I franchi tiratori che si nascosero tra i pantani e le macerie uccisero un gran numero di soldati tedeschi. (Zeitov uccise circa 200 tedeschi secondo i registri dell’epoca.), ebbero l’effetto, secondo Chuikov, di costringere i tedeschi a strisciare e non a camminare”

Sebbene alla battaglia partecipassero in totale 2.000.000 di soldati, una grande parte dei combattimenti fu risolta da scaramucce, lotte tra piccole unità e anche individuali. Per esempio, durante l’accerchiamento, alcune centinaia di soldati difesero le colline che dominavano Stalingrado, chiamate Mamaev Kurgan. Questi soldati compresero l’importanza di difendere la posizione per la vittoria finale, e questo infuse una determinazione d’acciaio per difendere le colline ad ogni costo, nonostante una situazione che molte volte sembrava insostenibile.

Una delle imprese più celebrate a Stalingrado è la difesa della casa Pavlov, dal nome del sergente Iakov Pavlov, che diresse un pugno di soldati nella difesa di un edificio ubicato in una posizione strategica all’angolo di una via principale. Per 50 giorni e notti, instancabilmente, i soldati tedeschi l’attaccarono, invano, con artiglieria, carri armati, bombardamenti aerei. È da notare che è stata difesa da un mosaico di nazionalità differenti del popolo sovietico: russi, ucraini, uzbeki, tartari, tagiki, kazaki e altri. Sebbene Beevor disconosca con arroganza il ruolo di questi “incolti” combattenti asiatici, le nazionalità di minoranze non russe giocarono un ruolo vitale nella difesa e resistenza della città e i successivi contrattacchi.

I difensori della città diventarono esperti nella distruzione o danneggiamento dei carri armati tedeschi, che furono molto importanti per i trionfi tedeschi, nella prima fase della II Guerra Mondiale. Le tattiche erano: aggirare e attaccare i carri armati a una distanza di solo pochi metri. E questo tipo di eroismo costava enormi sacrifici: fonti ufficiali sovietiche dicono che l’84% di tutti gli uomini e donne mobilitati a Stalingrado morirono, furono feriti o catturati.

Un altro elemento della difesa fu la granitica unità tra gli ufficiali e i soldati semplici, un fatto che esaspera ancor più il modo in cui il film Il nemico alle porte presenta i comandi sovietici. Chuikov descrive la sua decisione di non spostare il proprio posto di comando in un luogo relativamente più sicuro su una vicina isola del fiume Volga: “Ciò aveva avuto un effetto immediato sul morale dei capi delle unità, il suo personale e tutti i combattenti. Noi capiamo… l’importanza di non restare sempre nei nostri quartieri generali e andare frequentemente sui posti di osservazione delle divisioni e dei reggimenti e perfino nelle trincee, perché i combattenti potessero vedere con i propri occhi che i loro generali, membri del consiglio militare, erano sempre con loro”.

In una delle scene più reazionarie, Il nemico alle porte mostra i comandi sovietici che sparano ai propri soldati che si ritirano. Come la maggior parte delle notizie false, anche questa ha un briciolo di verità, l’esagerato uso della coercizione, per diffondere una grande bugia. È legge di guerra che nessun esercito, di nessuna classe, può tollerare la diserzione mentre si combatte. Mai si possono permettere gli atti di viltà egoista, perché mettono in pericolo la vita degli altri soldati e lo sviluppo della battaglia. La guerra è la massima “coercizione”, e l’interesse dell’individuo è subordinato e deve essere subordinato al tutto. È vero che l’esercito rosso, come gli eserciti in generale, aveva l’ordine di sparare a chiunque disertasse. Dall’altro lato, concludere da questo che le grandi imprese dell’esercito rosso potessero avverarsi senza che in alcun modo ci fossero casi di paura o terrore è assolutamente ridicolo. Senza dubbio, l’analisi di Stalin sul problema dei disertori e la codardia ebbe debolezze che riflettevano alcuni errori che Mao più tardi criticò.

Nel testo del decreto citato sopra “Non un passo indietro!”, Stalin mette un’enfasi sproporzionata sulla necessità di fare applicare la disciplina con mezzi militari. Elogia apertamente il sistema tedesco nella formazione di battaglioni penali, nei quali a tutti quelli che avevano disertato si diede una opportunità per “redimersi” combattendo nelle condizioni più difficili del fronte, e fa appello a formare un sistema simile nell’esercito rosso. Stalin sottolineò in maniera esagerata la similitudine tra i due eserciti e la necessità dell’obbedienza alla disciplina, e cancella il carattere fondamentalmente differente dell’esercito rosso. Sebbene ogni esercito necessiti di una ferrea disciplina militare, come ottenerla e garantirla dipende da quale classe governa e quale sistema sociale si riflette in questo esercito. Questo è parte del significato di ciò che disse Mao nella sua sintesi della strategia militare: “Loro combattono alla loro maniera e noi alla nostra”:

Per assicurare la disciplina l’esercito diretto dal proletariato può applicare, ed effettivamente applica, un metodo diverso da quello dell’esercito reazionario. Lo stato socialista può e deve usare differenti forme di “pressione” (per esempio, il reclutamento), ma nella sostanza deve partire dalla giustezza della sua causa, dalla coscienza dei soldati e la solidarietà tra gli ufficiali e i soldati come fonte di disciplina. Mao sottolineò: “Il lavoro politico è l’arteria principale dell’esercito”. In sostanza, e principalmente, questo è ciò che fece Stalin, risvegliando le masse e assicurando la sua unità e disciplina. Con la pratica di inviare i comunisti più decisi di ogni livello ad assumere i compiti più importanti e pericolosi al fronte, il partito diede un poderoso esempio che ebbe un effetto ancor più grande del timore di una corte marziale.

Di più, lo stesso esercito è composto da elementi avanzati, intermedi e arretrati. Anche se l’ideologia proletaria è un poderoso motivo per gli avanzati, sarebbe ingenuo pensare che con appelli ad un livello più alto di coscienza sia possibile superare l’arretratezza di altri settori delle truppe con il timore di perdere la vita. Chiaramente la pressione o la forza hanno un compito in ogni organizzazione militare e ancor più in battaglia, ma anche così, le forme di pressione e le politiche che si adottano variano enormemente secondo quale classe detiene il potere. È interessante studiare la politica sulla diserzione portata avanti dalle forze armate rivoluzionarie vietnamite durante la guerra contro l’imperialismo yankee. I disertori, perfino recidivi, furono reintegrati nelle unità originarie dopo essere stati oggetto di acuta critica dalle masse di casa propria. La politica sovietica di favorire l’esecuzione dei disertori e codardi sembra appoggiare l’aspetto equivoco (e dichiarare che le famiglie dei disertori saranno castigate è totalmente errato). Inoltre, il suggerimento di Stalin di formare battaglioni penali a partire dal modello dell’esercito tedesco è assurdo: concentrare gli arretrati con la direzione di ufficiali ancora più arretrati non può generare in assoluto condizioni favorevoli per la vera rieducazione necessaria.

LA “GRANDE GUERRA PATRIOTTICA”

Sia il libro di Beevor che il film di Annaud hanno la stessa spiegazione di fondo del grande eroismo dei combattenti sovietici che risalta con vigore nonostante le calunnie e la distorsione. E questa spiegazione è il patriottismo. In altre parole, i soldati fecero quello che nessun altro esercito d’Europa riuscì a fare, semplicemente per l’odio verso l’aggressore straniero e per l’istintivo amor di patria. Ogni stato europeo mobilitò le proprie truppe a partire dal patriottismo. Non c’era nessun esercito più “patriota” o più sciovinista dell’imperialismo francese. Anche così i soldati e l’esercito francese caddero in molte disgrazie durante la II Guerra Mondiale.

O si vuole dire che c’era qualcosa di particolare nel patriottismo russo, che c’era una qualità magica che li rese più potenti di quelli di altri paesi? Basta rifare il corso della I Guerra Mondiale, quando le truppe imperialiste tedesche invasero la Russia, per dimostrare quanto sia vuoto questo argomento. È risaputo che lo zar e la borghesia russa tentarono di mobilitare le masse, in special modo i contadini, con appelli alla “difesa della patria”. Ma l’esercito russo subì sconfitte dietro sconfitte al fronte e si diffuse la demoralizzazione al suo interno. L’appello di Lenin a opporsi alla difesa della “patria” allora imperialista, e a trasformare la guerra imperialista in una guerra civile rivoluzionaria ebbe un ruolo decisivo nella mobilitazione dei soldati accanto ai bolscevichi. Chiamò alla fine immediata della partecipazione della Russia alla I Guerra Mondiale, come parte della famosa parola d’ordine “terra, pane e pace” della Rivoluzione d’Ottobre.

Così, qual è stata la differenza tra la Russia zarista durante la I Guerra Mondiale e l’Unione Sovietica durante la II Guerra Mondiale? Un mondo di differenza. Nel secondo caso, c’era una dittatura del proletariato, uno stato nel quale la classe operaia in alleanza con i contadini e altri lavoratori, governava la società. I vecchi sfruttatori erano stato sconfitti e sottomessi con la forza ed erano stati fatti passi da gigante nella costruzione di una nuova economia socialista, non fondata sullo sfruttamento. Liberato dalla schiavitù salariata capitalista, il potere produttivo delle masse lavoratrici fu scatenato come non mai e faceva miracoli che non finivano mai di sorprendere gli osservatori di altri paesi dell’epoca. (Nota: fu molto dopo, dopo il tradimento revisionista in Unione Sovietica dopo la morte di Giuseppe Stalin nel 1953, che la borghesia osò vomitare le proprie menzogne su una società terrorizzata dal governo comunista. Durante la costruzione socialista, prima della II Guerra Mondiale, l’effervescenza della società, l’entusiasmo rivoluzionario del popolo e l’enorme appoggio che l’URSS riceveva dagli oppressi di tutto il mondo furono talmente evidenti e tanto forti che non permettevano una tale propaganda. Abbiamo visto una simile “ventata di calunnie” degli imperialisti verso la Cina socialista: solo dopo la confitta del socialismo lì, poterono dirne di tutti i colori sul socialismo e cambiare parere.)

Quando Hitler attaccò l’Unione Sovietica nel 1941, le masse di questo paese come nessun altro in Europa, avevano qualcosa di maggior valore da difendere: lo stato socialista che avevano strappato alla borghesia con la Rivoluzione d’Ottobre, e nella quale avevano versato le proprie energie e speranze per una generazione. La sua difesa era lontana dalla stretta propaganda nazionalista delle altre cosiddette Grandi Potenze che si opponevano alla Germania imperialista, ma solo per proteggersi (come nel caso dell’impero britannico) o per espandere (come nel caso del nuovo arrivato imperialismo yankee) il proprio sfruttamento e oppressione dei popoli del mondo.

Allo stesso tempo, un gran numero di misure prese da Stalin e dai capi sovietici fecero quanto più possibile per nascondere il carattere di classe della guerra popolare sostenuta dall’Unione Sovietica favorendo i nemici del socialismo. Fin dalle prime ore del conflitto i sovietici la chiamarono “grande guerra patriottica”. Fu una reminiscenza di quella che si conosce nella storia della Russia come la “Guerra patriottica”, quando nel 1812 Napoleone invase la Russia zarista a capo dell’esercito francese, e che alla fine fu respinto alle porte di Mosca. L’Internazionale fu rimpiazzata da un nuovo inno negli atti ufficiali. Fu realizzata una grande campagna per propagandare e risollevare il sentimento patriottico russo. Il cineasta sovietico Ejzenstejn, conosciuto in tutto il mondo, fece un film poderoso che glorifica Aleksandr Nevskij, una figura della storia medievale russa che unì la nazione contro gli invasori teutonici. Un altro interessante esempio è il decreto n.4, firmato dal generale Yeremenko, il capo militare del fronte sud-occidentale e Nikita Krusciov, che in seguito fu il principale commissario dell’esercito sud-occidentale. Il decreto applica la direttiva di Stalin, “Non un passo indietro!”, riferendosi al “partito bolscevico, alla nostra nazione e al nostro grande paese.” In altre parole, Krusciov e Yeremenko, evocarono la nazione, cioè, la Russia, così come il paese (URSS). Ciò è particolarmente ironico data l’ubicazione strategica di Stalingrado, che unisce la Russia con la maggior parte delle repubbliche non russe e dato il gran numero di soldati e civili non russi che parteciparono direttamente ai combattimenti.

In generale, nella linea politica sovietica di questo momento, si combinarono la necessità della difesa dello stato socialista e gli appelli al nazionalismo russo. Non c’è dubbio che i capi sovietici avevano una grande necessità di unificare i più ampi settori possibili della popolazione. È difficile considerare un errore la politica di fare uso di certi sentimenti patriottici perfino nei settori della popolazione la cui attitudine verso il socialismo variava dalla tiepidezza fina alla grande ostilità. Alcuni personaggi del Il nemico alle porte rappresentano queste forze arretrate che prendono parte ad una specie di fonte unico con il regime sovietico contro gli invasori fascisti.

Ciononostante, non c’è dubbio che il cuore e l’anima dei combattenti sovietici furono i comunisti e il proletariato cosciente di classe. Fecero saltare ogni breccia e con il loro esempio diressero altri. Beevor dice, per esempio, che durante la Battaglia di Stalingrado una fabbrica localizzata ad est degli Urali, in salvo, produceva i famosi carri armati T-34. Si decise di fare appello tra i lavoratori a trovare volontari che portassero i carri armati al fronte a far parte dell’esercito rosso. Sebbene tutti conoscessero i pericoli estremi, in meno di 36 ore si presentarono 4.363 persone delle quali 1253 erano donne

Durante la guerra diversi cambiamenti operati nell’esercito tendevano a rafforzare i metodi e le forze borghesi, per esempio, la restaurazione dei ranghi e del titolo di “ufficiali” dell’epoca prerivoluzionaria, per i comandanti dell’Esercito Rosso, fino a quel momento trattati da “compagni”; l’abolizione del sistema di comando duale tra comandanti militari e commissari politici (all’apparenza, per soddisfare gli ufficiali della vecchia scuola risentiti per gli “intromessi” commissari comunisti). Beevor scrive testualmente: “I generali dell’esercito rosso furono premiati in maniera aperta. La recente sospensione del comando duale dei commissari fu coronata con il ristabilimento formale del rango e la definizione di ufficiale… le giarrettiere (simboli di privilegio che alcuni gruppi bolscevichi nel 1917 le avevano piantate nei corpi degli zaristi che le ostentavano) furono ristabilite… un soldato nella divisione di guardia sentì la notizia sulle giarrettiere da un vecchio lustrascarpe alla stazione e disse, con indignata incredulità: “esattamente come l’esercito bianco”. I suoi compagni rimasero anch’essi stupefatti quando diedero la notizia ritornando al treno. “Perché nell’esercito rosso?”, chiesero”.

Non è compito di questa rassegna analizzare quali concessioni fatte da Stalin alla borghesia e quali metodi erano necessari a causa della realtà della guerra. Senza dubbio, alcuni aggiustamenti della politica precedente furono necessari e possibili. D’altro lato, è importante notare che questi aggiustamenti, alcuni probabilmente corretti e altri apparentemente dubbi, ebbero conseguenze effettivamente concreti e molto negativi. Gli avanzati si confusero e disorientarono, e le tendenze arretrate ebbero maggiore spazio d’azione. È molto difficile, per esempio, comprendere come gli appelli al nazionalismo russo potessero rafforzare la solidarietà delle differenti nazionali dell’URSS, le quali erano state un pilastro di cotanta forza della guerra.

Inoltre, alcune idee scorrette di Stalin sulla natura contraddittoria del socialismo fecero sì che commettesse facilmente alcuni errori. I metodi borghesi introdotti dai capi rafforzarono moltissimo la borghesia all’interno del partito e minarono la forza del proletariato in un momento nel quale questo conquistava grandi vittorie militari. Una buona percentuale di coloro che poi presero il potere e restaurarono il capitalismo, parteciparono ai combattimenti come lo stesso Krusciov. Come ministro della difesa, a metà del 1950, il maresciallo Zukov appoggiò in misura importante il colpo di stato di Krusciov. La borghesia all’interno del partito difendeva la Russia e non le conquiste del socialismo, che desiderava con forza di gettare nel fango. Più tardi, per legittimare il proprio governo i revisionisti si dedicarono ad usurpare il lascito della grande guerra patriottica.

LE DONNE

Una caratteristica comune delle guerre popolari è la partecipazione delle masse delle donne. Questa è stata una verità commovente della Battaglia di Stalingrado. Il nemico alle porte presenta un’eroina dell’Esercito Rosso, una giovane ebrea la cui famiglia era stata vittima dello sterminio nazista. Il film la presenta come un elemento intermedio e non una combattente comunista avanzata. La verità è che il ruolo storico di centinaia di donne con coscienza di classe al fronte caratterizzò l’esercito rosso sovietico.

È vero che perfino le potenze alleate imperialiste come l’Inghilterra e gli Stati Uniti dovettero mobilitare per necessità di guerra le donne nelle diverse attività in relazione alla guerra, esattamente come l’esercito yankee fa oggi. Ciononostante un esercito reazionario riflette una società borghese e patriarcale che mai può scatenare il potenziale delle donne. D’altra parte un esercito popolare come fu quello dell’esercito rosso non può esistere senza liberare l’energia rivoluzionaria della metà femminile della popolazione. Una guerra popolare sconfigge il nemico mobilitando le masse e appoggiandosi ad esse, mettendo da parte gli ostacoli di oppressione, tradizione e costume che impediscono che il popolo domini la società. Sebbene i capi sovietici facessero concessioni ai valori tradizionali russi, le donne dell’URSS si mobilitarono secondo lo spirito della Comune di Parigi e non di Caterina Seconda la Grande2 . Alla fine della guerra, c’erano più di 246.000 combattenti al fronte, come il reggimento 467 delle Guardie Femminili di Bombardamento Leggero Notturno, di sole donne, con compiti che andavano da pilota ad armiere a meccaniche.

Le donne di Stalingrado annientarono molti soldati fascisti nei combattimenti al fronte e la loro presenza fu molto sconcertante per i tedeschi. Beevor cita una lettera di un capo tedesco al proprio padre: “Voi mi dicevate sempre: ‘Sii leale alla nostra bandiera, e trionferai’. Mai dimenticherò queste parole, perché è tempo che ogni uomo sensato in Germania maledica la pazzia di questa guerra. È impossibile descrivere quello che sta succedendo qui. Ogni persona, a Stalingrado, che ha ancora la testa e le mani, uomo o donna, continua a lottare”.

La ferma difesa di Stalingrado diede i suoi frutti. L’esercito tedesco subì moltissime perdite e con l’arrivo dell’inverno cominciò ad avere gravi problemi di approvvigionamento. Si diffuse la demoralizzazione tra le truppe che avevano sperato in una facile vittoria.

Il 10 novembre del 1942, in seguito ad attenti e urgenti preparativi, fu lanciato il contrattacco Urano. Tutto il VI corpo d’armata tedesco fu accerchiato. Secondo Beevor, molti soldati sovietici ricordano l’inizio del contrattacco come il giorno più grande della guerra. L’esercito rosso assestava poderosi colpi alle forze tedesche e ai suoi alleati. I tedeschi erano in trappola. Per più di dodici mesi con l’arrivo di rinforzi paracadutati, il VI corpo d’armata tedesco resistette. Il suo comandante Von Paulus, rifiutò l’ultimatum del governo sovietico alla resa per la sua impossibile posizione. Alla fine i tedeschi si arresero il 31 gennaio 1943, quando Von Paulus, da poco promosso maresciallo sul campo da Hitler, e i suoi principali ufficiali furono catturati. I sovietici fecero circa 80.000 prigionieri vivi. In tutto il mondo i popoli si rallegravano. Sebbene la macchina da guerra tedesca continuò ad essere un forte avversario ancora per qualche anno, la corrente era cambiata. Come scrisse Mao, Stalingrado fu “il punto di svolta della II Guerra Mondiale”.3

Stalingrado continua ad essere una delle più grandi esperienze della guerra rivoluzionaria. Il proletariato di tutto il mondo, a ragione, è orgoglioso del fatto che i nostri antenati fecero quello che fecero sulle rive del Volga. Mai dobbiamo permettere ai nostri nemici di denigrare o distorcere l’impresa di questi fatidici mesi, quando si stava decidendo il corso della storia mondiale. E mai dimenticheremo le lezioni delle battaglie precedenti, in modo da poter combattere con maggiore risolutezza ed efficacia nelle battaglie che verranno.

NOTE

1 L’ordine di Stalin fu letto da tutti gli ufficiali e commissari politici dell’Armata Rossa. Non fu divulgato fino al 1980.

2 Caterina Seconda la Grande fu la zarina di Russia che espanse la Russia e incoraggiò una specie di “rinascimento”.

3 Gli imperialisti yankee e britannici occultarono il risultato dell’URSS nella sconfitta della Germania. Quando l’invasione yankee-britannica in Europa continentale nel maggio 1944,la sorte del governo nazista era già segnata sul fronte orientale. In questo momento, gli yankee e i britannici si affrettarono a portare le proprie truppe a Berlino prima che arrivasse l’esercito rosso, per avere una posizione migliore nel dopoguerra.

NOTA: nel numero precedente, 2000/26, apparve una rassegna di una racconto di Barbara Kingsolver. Da allora, è stata pubblicata una versione spagnola: La bibbia avvelenata (C.E.C./Ediociones del Bronce. Barcelona, Spagna).

Lo sporco e crudele business delle pellicce di animali

Scritto da : Elena Tavella
Fonte: http://www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=572

Pellicce, crudeltà contro gli animali, la necessità di essere green dentro e fuori. E’ inverno, è freddo.. cammino fra la gente e vendo moltissime persone che indossano pellicce (presumibilmente la maggior parte sono vere). Allora penso: vivo in Alaska in qualche sperduto paese dove la foca da millenni rappresenta l’unica forma di sostentamento e di cui viene utilizzato tutto? No. Quindi perché le persone indossano le pellicce? La risposta è una sola: per vanità e moda.

Quali le conseguenze per il regno animale?

– ogni anno vengono uccisi 15 milioni di mammiferi selvaggi e 29 d’allevamento (solo in Italia ci sono più di 60 allevamenti)
– gli animali selvatici vengono catturati con tagliole che lacerano o spezzano l’arto (l’animale o si auto mutila per sfuggire e morire dissanguato oppure rimane fermo in attesa che i cacciatori lo finiscano)

Quali sono gli animali trucidati per la loro pelliccia?

– L’ermellino (catturato con lastre di ferro ricoperte di grasso che una volta leccato incolla la lingua dell’animale)
– Il leopardo (una volta in gabbia viene ucciso barbaramente inserendo una lunga sbarra di ferro arroventata che viene spinta fino ai polmoni)
– Cuccioli di foca (bastonate e scuoiate VIVE, per motivi di morbidezza della pelliccia, di fronte agli occhi delle loro madri)
– Visoni (vengono uccisi fracassando il cranio)
– Volpi (uccisi utilizzando degli elettrodi, uno nell’ano e l’altro nella bocca in modo che l’irrigidimento dell’animale renda il pelo più morbido e voluminoso)
– Conigli e agnelli (appesi con un gancio per i tendini e scuoiati vivi)
– Cincillà (rotto l’osso del collo per mezzo della rotazione della testa di mezzo giro)
– Agnellini persiani (estratti dal ventre materno uccidendo la madre e scuoiati vivi)

Chi sono i colpevoli?

Gli stilisti che propongono capi in pelliccia ed in particolare quelli che oltrettutto negli ultimi anni hanno iniziato ad estendere l’utilizzo delle pellicce anche al pubblico maschile. I consumatori, che fregandosene di dove e come quella pelliccia sia stata portata in quel negozio.. sfogiano le carte di credito e con una semplice transizione di denaro finanziano la sofferenza inimmaginabile di milioni di creature terrestri.

Altri colpevoli?

Il business della pelliccia è un’industria miliardaria che incassa i suoi massimi profitti nelle ricche boutique dei centri cittadini. Non solo, indirettamente, ci sono altre attività che traggono diretto vantaggio dall’uccisione degli animali da pelliccia: i trasporti specializzati. Seguendo il sito www.cargoOfCruely.com si possono scoprire quali sono le aziende di trasporto di pelli di pelliccia.

Crescita economica…

Scritto da: Giovanni Graziani
Fonte: http://www.howtobegreen.eu/greendaily.asp?nk=Giovanni&idgd=360&oy=964

Un’immagine straziante.. Il capo della tribù Kayapò viene a sapere che Dilma, il nuovo presidente del Brasile, ha deciso di costruire una gigantesca centrale idroelettrica che devasterà il territorio naturale e quindi l’essenza stessa della tribù. E chi finanzia questo progetto? La più grande banca EUROPEA: la Santander.

La morte dell’uomo per il Dio Denaro.

Marines USA in Afghanistan con le bandiere delle SS

Fonte: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/
Foto tratta da: http://www.liberoquotidiano.it

Dieci marines in posa, sorridenti, in tenuta d’assalto con tanto di fucile-mitragliatore al braccio. Tutti tiratori scelti, cecchini di un reparto speciale inviato nell’inferno afgano. Al centro, in alto, la bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti d’America. Sotto, più grande, una bandiera blu con in mezzo le SS stilizzate della famigerata Schutzstaffel, la polizia segreta militare nazista. La foto è apparsa nei giorni scorsi sul sito internet della Knight’s Armament, azienda produttrice di armi di Titusville, Florida. Per mostrare i sistemi bellici e i servizi offerti, spiegano i general manager.

La foto con i nazi-marines è stata scattata nel settembre 2010 nel distretto di Sangin, provincia di Helmand, una delle aree più pericolose dell’Afghanistan. Gli uomini sono in forza alla compagnia “Charlie” del 1st Reconnaissance Battalion di Camp Pendleton, San Diego (California). Scout snipers li chiamano. Scrutano, spiano, intercettano, sparano, uccidono. Un solo colpo. Preventivo. Contro il nemico onnipresente, invisibile. Lo spirito di corpo è sempre quello di Full metal jacket. Ma con in più le icone della Germania hitleriana.
“Alcuni scout snipers hanno utilizzato sfortunatamente il vecchio simbolo delle SS per la loro organizzazione d’élite, ma non avevano intenti di connotazioni o discriminazioni razziste”, ha ammesso candidamente il colonnello John Guthrie del Corpo dei marines Usa. “L’ufficio del nostro ispettorato generale è venuto a conoscenza della foto lo scorso mese di novembre e abbiamo avuto conferma da un comando in Afghanistan che il personale ritratto faceva parte della compagnia “Charlie”. Usare il simbolo nazista è inaccettabile ma possiamo assicurare che si è trattato solo di un’ingenuità”.
Problema di assai poca rilevanza pure secondo il portavoce del battaglione di stanza a Camp Pendleton, maggiore Gabrielle Chapin. “La bandiera con le SS non ha niente a che fare con noi marines e con la nostra storia”, ha dichiarato. “Io non credo tuttavia che gli uomini coinvolti nella vicenda abbiano mai voluto utilizzare alcun tipo di simbolo legato all’organizzazione militare criminale della Germania nazista che ha commesso tante atrocità durante la Seconda Guerra mondiale. Non sappiamo da dove sia spuntata la bandiera anche se pensiamo che era di proprietà di uno dei marines della foto. Nessuno sarà comunque punito perché quello dei ragazzi è stato un gesto di ignoranza e di stupidità, piuttosto che una proclamazione volontaria e cosciente”. Per il maggiore è inutile eseguire ulteriori indagini per individuare e punire i responsabili anche perché “nessuno è più in servizio con l’unità”. “Non è escluso che qualcuno possa essere comunque rimasto nel Corpo dei marines”, ha tuttavia ammesso Chapin.
L’atteggiamento ambiguo ed omissivo dei vertici del battaglione d’élite è stato duramente stigmatizzato dalle organizzazioni antirazziste e dai rappresentanti delle più note associazioni ebraiche statunitensi. Per il rabbino Marvin Hier, fondatore del Centro “Simon Wiesenthal” di Los Angeles, non è assolutamente credibile che “il mettersi in posa con la bandiera nazista sia stato un semplice disguido”.
“Si tratta di un crimine atroce”, ha commentato Michael Weinstein della Military Religious Freedom Foundation di Albuquerque, New Mexico. “In questi anni abbiamo visto di tutto ma questa cosa ci ha letteralmente lasciato attoniti. Questa fotografia è realmente orribile. Se l’uso dei simboli nazisti viene in ogni caso condonato o tollerato dal Corpo dei Marines, ci sono implicazioni disgustose per tutti coloro che stanno combattendo per il nostro paese o credono nei principi costituzionali”.
La fondazione ha inviato una lettera aperta al Segretario della difesa Leon Panetta e al comandante in capo dei marines, generale James Amos, chiedendo d’intervenire e punire i militari ritratti sotto la bandiera delle SS. “Non si tratta di un fatto isolato, anzi temiamo che l’utilizzo di simboli nazisti sia stato praticato per anni all’interno del Corpo”, ha dichiarato Michael Weinstein all’agenzia Associated Press. La Military Religious Freedom Foundation ha prodotto una seconda foto, scattata nel 2004 all’interno del Marine Corps Air Ground Combat Center di Twentynine Palms, California, che ritrae due marines armati di fucili di precisione 7.62mm M40 con alle spalle ancora una bandiera con le svastiche. “Pure quei due uomini erano in forza al plotone di scout snipers del 1st Battalion del 7° Marines”.
Il segretario Leon Panetta ha fatto sapere di avere già incontrato il comandante dei marines, generale Amos, per chiedere la riapertura delle indagini su quanto accaduto in Afghanistan e l’assunzione di “un’azione appropriata contro i responsabili”. Un alto ufficiale Usa ha dichiarato ad Associated Press che Panetta “avrebbe espresso apprezzamento per le azioni intraprese dal generale Amos” e che quest’ultimo “avrebbe ordinato ai suoi comandanti di fare accertamenti su tutti i simboli utilizzati dai tiratori scelti del Corpo dei marines, assicurandosi che essi siano istruiti su quelli che sono inappropriati”. Inappropriati, appunto, non immorali, illegittimi o illegali.
Con le foto dei cecchini con tanto di bandiere delle SS, il Corpo dei Marines si trova per la seconda volta in meno di un mese al centro delle polemiche dei media. In un video postato su youtube, erano stati immortalati alcuni uomini in forza ad un reparto di base a Camp Lejeune (North Caroline) che urinavano sui cadaveri di alcuni combattenti afgani dopo un conflitto a fuoco. Corpi oltraggiati, straziati, dilaniati, stuprati. Immagini emblematiche di ciò che è la guerra in Afghanistan. E dei “valori militari” che alimentano i protagonisti-killer.