Stand-by: come ridurre la propria bolletta elettrica fino al 25% a costo zero

Scritto da: Alessandro Furiato
Fonte: http://www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=601

Stand-by e consumi fantasma. La questione è molto semplice: è possibile ridurre significativamente la propria bolletta elettrica senza costosi investimenti soltanto grazie a virtuosi accorgimenti? Certo e la cosa che più è incredibile è QUANTA energia possiamo risparmiare.

Innanzitutto cerchiamo di capire il concetto di stand-by. Lo stand-by è uno stato di dormiveglia degli elettrodomestici, pensato dai progettisti per rendere sempre pronto l’elettrodomestico a comandi di accensione e utilizzo. Lo stand-by rappresenta quindi uno stato di inattività in cui comunque una certa quantità di energia elettrica è consumata nonostante il dispositivo sia apparentemente spento o inattivo. E questo vale per lo stereo, la televisione, un forno a microonde, una stampante, un computer portatile o fisso, uno schermo da pc, un hard-disk esterno, uno scanner, un alimentatore per laptop, un carica batteria dei cellulari etc. Tutti questi dispositivi, quanto sono collegati alla rete elettriche e NON stanno funzionando, consumano una quantità di energia elettrica che va da pochi Watt fino a qualche decina.

Allora uno può chiedersi: “e allora? Che differenza possono fare pochi Watt sulla bolletta?” La risposta è: una differenza enorme! Facciamo due calcoli prendendo ad esempio alcuni elettrodomestici che ho in casa di uso comune e valutiamone il consumo in stand-by:

Televisione LCD 40 pollici: 25 Watt
Lettore DVD: 12 Watt
Alimentatore per pc portatile: 2 Watt
Computer portatile collegato alla rete: 4 Watt
Stereo/lettore cd: 25 Watt
Microonde: 7 Watt
Stampante a getto inchiostro: 9 Watt
Tosta pane: 8 Watt

Totale: 92 Watt

Quindi ipotizzando una media di 16 ore di stand-by al giorno (8 di utilizzo) fanno 92 W x 16h = 1472 Wattora al giorno pari a circa 30 centesimi di euro al giorno (valore in aumento). Moltiplicando per 365 giorni si ottiene un valore di quasi 110 Euro/anno. Ma, se consideriamo che nella realtà molti elettrodomestici non vengono utilizzati molto spesso.. la cifra raggiunge il raddoppio o va anche tranquillamente oltre.

La soluzione: acquistare delle ciabatte con interruttore ed abituarsi di spegnerle ogni qual volta necessario. Ad esempio: una ciabatta per il soggiorno (TV, stereo, lettore dvd etc), una ciabatta per lo studio (pc, stampanti, scanner etc), una ciabatta per la cucina (microonde, tosta pane, frullatori etc) e così via.

Aspetto ambientale: per alimentare i nostri elettrodomestici SPENTI nello stato di stand-by solo in Italia è necessaria una centrale elettrica a carbone. Risparmiare sulla propria bolletta significa quindi ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica e inquinanti in atmosfera.

I NURAGHE, OPERA DI ATLANTIDE?

Scritto da: Giorgio Pastore
Fonte: http://www.croponline.org/

I Nuràghe sono uno dei più grandi misteri dell’archeologia. Secondo gli archeologi, risalirebbero al II millennio a.C. e sono da attribuire alle popolazioni sarde che occupavano l’isola in quel periodo. Ma molti sono scettici a proposito. Come avrebbero fatto, infatti, popolazioni primitive ad erigere opere così complesse e megalitiche. Una recente teoria vede i Nuràghe essere opera dell perduta civiltà di Atlantide. E, secondo alcuni, proprio la Sardegna non sarebbe altro che l’isola di cui Platone racconta nei suoi Crizia e Timeo. Infatti, nell’antichità, le famose colonne d’Ercole non erano situate dove noi le collochiamo oggi, cioè presso lo stretto di Gibilterra, ma altrove e più precisamente, tra la Sicilia e la Tunisia, in quanto il mondo di allora, del II millennio a.C., arrivava proprio lì. Fu Alessandro Magno il macedone ad estendere i confini del mondo conosciuto verso ow, così che gli uomini del suo tempo si videro costretti a spostare le colonne, ponendole tra l’Africa e la Penisola Iberica. Così, quando Platone dice: “oltre le colonne d’Ercole…”, dobbiamo intendere, oltre il canale di Sicilia. La Sardegna potrebbe essere stata al tempo, l’isola di Atlantide. Ma potrebbe anche esserci stata un’altra isola, ora scomparsa, tra questa e l’Africa. I sostenitori della teoria che vede la Sardegna essere stata Atlantide, pone l’accento sul fatto che il lato ow dell’isola sia stato devastato in tempi remoti da una gigantesca inondazione, probabilmente provocata dalla caduta di un meteorite nel Mediterraneo, più o meno tra la Spagna e la Sardegna. Inoltre, osservando le costruzioni etrusche in Toscana, non può passare inosservato il fatto che assomiglino molto, se viste dall’alto, ai circolari Nuraghe. Un caso? Non potrebbe invece essere che i superstiti di Atlantide emigrarono in Italia, dando vita così alla civiltà degli Etruschi? Ma sono solo ipotesi.

In nord Europa, specialmente in Inghilterra, esistono molte antiche opere in pietra, monumenti megalitici (dal greco mégas = grande, lìthos = pietra) risalenti all’età preistorica (precisamente al periodo neolitico, 8.000/3.000 a.C.). Più precisamente, si distinguono in:

– dolmen (dal bretone doul = tavola, men = pietra), costituiti da due grosse pietre verticali e da un architrave appoggiata sopra su di esse e destinati a servire da camere funerarie;

– trulli (dal greco trùllos = cupola), a forma cilindrica e dal tetto a cono, usati come abitazioni; 

– menhir (dal bretone men = pietra, hir = lungo), blocchi monolitici isolati l’un l’altro, alti alcuni metri. Ne conosciamo un esempio importante in Bretagna, a Carnac, circa 120 km a nor-ow di Nantes, dove i molti menhir allineati per lunghe file (alignements) devono essere serviti come monumento/osservatorio.

Più recenti, dell’età del bronzo (3.000/1.200 a.C.), sono i nuràghe, torri cilindriche dal diametro di circa 10 mt, dotate di uno o due piani comunicanti tra loro mediante una scala a spirale interna. Si pensa potessero servire come punti di difesa e come abitazioni dei capi locali. Uno tra i più conservati è quello di Torralba (Sassari). La Sardegna è la terra dei nuràghe. sull’isola ve ne sono stati eretti circa 7.000, tutti risalenti all’età del bronzo.

L’astronomia, per gli antichi, è stata una scienza fondamentale. Essi seguivano i movimenti degli astri nel cielo così come noi oggi sfogliamo il nostro calendario. avere tali punti di riferimento stagionali era molto utile per sapere quando seminare, quando raccogliere, mietere e celebrare certi riti. L’agricoltura era fondamentale nell’antichità, così come lo sarà ancora fino all’età moderna ed ancor oggi, riveste una certa importanza. Così come, era fondamentale rispettare i propri dei, svolgendo rituali legati al movimento degli astri, in particolar modo del Sole e della Luna. Non solo in Inghilterra, anche in Mesopotamia si adorava la dea della Luna (Sin) e, così come in Egitto, il disco solare (Aton). Ma il nome di queste divinità cambiava da tempo a tempo e da luogo a luogo. anche Stonehenge si pensa fosse legato in qualche modo al movimento degli astri ed al cambio delle stagioni e dopotutto, come abbiamo visto, tale cosa non può che sembrarci normale.

BREVE STORIA DEI MEGALITI

– Tardo V millennio a.C.: è l’era delle tombe a corridoio. Di solito, queste tombe, ricoperte da un tumulo, erano progettate in modo che durante il solstizio d’estate la luce del sole penetrasse all’interno, per oltre venti metri di galleria, fino ad illuminare la camera più interna. Ciò è la prova che già in epoca preistorica le popolazioni primitive possedevano alcune nozioni astronomiche.

– 3.500 a.C.: tempio di Gigantija, a Malta.

– 3.000 a.C.: tempio di New Grange (Irlanda). Tombe a Los Millares (Spagna).

– 2.500 a.C.: templi di Tarxien a Malta e megaliti nell’Europa centrale.

Inizio dei lavori a Stonehenge. Viene scavata la prima trincea circolare di 108 metri di diametro.

– II millennio a.C.: costruzione dei nuràghe in Sardegna. Ne verranno costruiti fino all’età romana (III secolo a.C.).

– 1.800 a.C.: Continua la costruzione di Stonehenge. Interessante notare che durante questa fase vengono erette una doppia serie di “pietre blu”, provenienti dai monti Prescelly, nel Galles, distanti via terra più di 300 km dal sito.

– 1.600 a.C.: Stonehenge viene completata mediante l’erezione dei triliti di arenaria, sia il circolo che il ferro di cavallo più interno.

– 1.000 a.C.: Teste colossali a La Venta, Messico.

– 1.000 d.C.: Vengono eretti i colossali “testoni” dell’isola di Pasqua, nel Pacifico meridionale.

Le 6 tecnologie che forniranno acqua al mondo intero

Scritto da: Giovanni Graziani
Fonte: http://www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=594

Acqua potabile, siccità, aumento della popolazione mondiale. Come fare per coniugare la disponibilità dela risorsa più importante nel mondo con l’inesorabile aumento della popolazione, la fame nel mondo, i bisogni dell’agricoltura e la necessità di adattarsi al cambiamento climatico? La risposta è riposta in sei tecnologie che vorrei descrivere brevemente:

1) Contatori d’acqua intelligenti

E’ un contatore intelligente in grado di monitorare in modo molto accurato il consumo d’acqua (permettendo all’utente una valutazione dei propri consumi) e che permetta ai fornitori di individuare consumi anomali, picchi di consumo, perdite e furti (vedi foto sotto). In ambienti agricoli, l’uso di contatori intelligenti permette di determinare quando l’irrigazione è necessaria razionalizzando l’uso d’acqua (vedi www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=579)

2) Desalinizzazione più efficiente

La maggior parte delle attuali tecnologie di desalinizzazione usano moltissima energia e l’output di alcuni impianti può devastare l’ambiente locale a causa degli elevati livelli di sale. Ecco perchè la tendenza futura è quella di installare impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili vicini ai siti di desalinizzazione in modo da utilizzare direttamente l’energia green prodotta in loco.

3) Acqua di scarico

Si stima che circa il 90% di acque reflue non venga recuperata. Le innovazioni tecnologiche nel campo del trattamento delle acque reflue e il loro riutilizzo permette il recupero delle sostanze chimiche e minerali presenti con la possibilità di riutilizzarle successivamente. Un altro possibile uso delle acque reflue è legato alla crescita di alghe per biocarburanti che potrebbe aiutare a risolvere un altro problema (molto diverso): ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili per la mobilità.

4) Raccolta dell’acqua piovana

Essere in grado di raccogliere e conservare l’acqua piovana per i propri usi (vedi questo interessantissimo reportage relativo all’autocostruzione di una vasca di raccolta www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=573) e l’utilizzo durante il periodo di scarse precipitazioni permette di ridurre drasticamente la richiesta di acqua di falda. Alcune tecnologie promettenti stanno lavorando anche su sistemi portatili di raccolta, filtrazione e utilizzo che possono essere utilizzati come sistema standalone o integrato in sistemi di raccolta sul tetto.

5) Condensazione e raccolta della nebbia

Anche in zone prive di precipitazioni notevoli, in certi momenti della giornata l’aria contiene abbastanza umidità da poter essere catturata e immagazzinata. Nuove tecnologie si affacciano e permettono la cattura delle nebbie e di condensarla in apposi raccoglitori d’irrigazione. Questa tecnologia (vedi foto sotto) che sta prendendo sempre più piede è l’ideale soprattutto nelle zone più aride dove l’irrigazione è la problematica maggiore.

6) Filtrazione sostenibile

Talvolta, il problema non è la mancanza di acqua, è la mancanza di acqua pulita e la capacità di purificarla. In aree con accesso ad acqua che possono essere contaminati, sistemi sostenibili di filtrazione dell’acqua possono fare la differenza tra la vita e la morte. Esistono sempre più soluzioni “low-tech” (vedi foto sotto) che includono l’utilizzo di materiali come il fico d’india, semi di albero, cenere, o letame di vacca.

Il problema dell’acqua riguarda tutti, perchè non iniziamo con una razionalizzazione domestica? Come ridurre il consumo d’acqua in doccia www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=372 e www.howtobegreen.eu/greenreport.asp?title=375

Gli orfani del Titanic: due fratelli imbarcati sull’ultima scialuppa di salvataggio dal padre che morì nel disastro (e furono ricongiunti alla madre solo dopo che lei aveva visto un appello sul giornale)

Scritto da : Kerry Mcqueeney
Fonte: http://www.dailymail.co.uk/
Taduzione per la patatina fritta: Anna Nicoletti e Francesco Fontatna

Michel ed Edmond Navratil devono aver tirato un sospiro di sollievo quando riuscirono a salire a bordo dell’ultima scialuppa lanciata dal Titanic che stava affondando.

Nonostante la loro tenera età, i fratelli – di soli due e quattro anni – si devono essere resi conto del terrore e dell’isteria che avevano travolto coloro ancora intrappolati sulla nave in avaria. Furono messi sulla scialuppa dal padre – ma quella fu l’ultima volta che lo videro.

Poichè si sta avvicinando il centenario della sciagura, l’incredibile vicenda della sopravvivenza di Michel ed Edmond è stata ricostruita attraverso una serie di fotografie che documentano coloro che sopravvissero. I due bambini vennero ribattezzati “Louis e Lola” – gli unici bambini ad essere salvati dal Titanic in assenza di un genitore o di un tutore. Dopo averli imbarcati sulla scialuppa, il loro padre morì durante l’affondamento. Furono tra i 700 passeggeri raccolti dal Carpathia. Secondo il sito internet Retronaut che ha presentato fotografie dei sopravvissuti, Michel riferì in seguito di ricordare suo padre che gli disse: “Bambino mio, quando tua mamma ti verrà a cercare, come sicuramente farà, dille che l’ho amata con tutto il cuore e che ancora la amo”.

“Dille che avrei atteso che lei ci seguisse, per vivere felicemente nella pace e nella libertà del Nuovo Mondo”.

I giovanotti, che erano Francesi, non parlavano inglese e non furono in grado di identificarsi ai soccorritori.

Di conseguenza, una passeggera che parlava francese, di nome Margaret Hays, si prese cura dei fratelli finché la madre non fu rintracciata. Una serie di articoli sui due bambini – che pubblicavano le loro foto – permisero alla fine di rintracciare la madre, Marcelle. Marcelle si imbarcò per New York e si ricongiunse finalmente ai suoi figli il 16 maggio 1912, un mese ed un giorno dopo essere scampati alla sciagura. Si possono solo immaginare le emozioni che la madre provò quando rivide i figli, anche perchè il padre si era imbarcato segretamente sul Titanic  con i figli, cosicché loro tre potessero cominciare una nuova vita in America – senza Marcelle.

I genitori dei bambini si erano separati all’inizio del 1912 e Marcelle aveva ottenuto la completa custodia dei figli. Tuttavia aveva permesso loro di stare con il padre durante il fine settimana della Pasqua, mentre invece egli aveva deciso di emigrare negli Stati Uniti. Padre e figli  viaggiarono verso l’Inghilterra dopo aver fatto una breve sosta a Monte Carlo, prima di imbarcarsi sulla nave maledetta.

Più tardi nella vita Michel avrebbe ricordato il Titanic come “ una magnifica nave”

Disse: ‘Mi ricordo di aver guardato per tutta la lunghezza dello scafo – la nave sembrava splendida. Mio fratello ed io giocavamo sul ponte di prua ed eravamo entusiasti di essere lì.

‘Una mattina, mio padre, mio fratello ed io stavamo mangiando uova nella sala da pranzo della seconda classe. Il mare era splendido. La mia sensazione era di totale benessere. Non ricordo di aver avuto paura, mi ricordo il piacere, davvero, di stare sulla nave che faceva il suo “plop” contro le onde del mare. Ci siamo alla fine ritrovati accanto alla figlia di un banchiere americano che era riuscito a salvare il suo cane –nessuno aveva obiettato.

‘Vi erano enormi differenze di ricchezza tra le persone sulla nave, ed alla fine ho capito che se non fossimo stati in seconda classe, saremmo morti. Le persone che ne uscivano vive spesso imbrogliavano ed erano offensive ,gli onesti non avevano alcuna possibilità. ‘
Resa immortale dal film e portato in vita con mostre in tutto il mondo con oggetti provenienti dalle cabine che ora giacevano 12.415 piedi sotto il livello del mare, la nave è senza dubbio una delle più famose della storia.
La vicenda del disastro è ben nota: la nave  lasciò Southampton, in Inghilterra, per il suo viaggio inaugurale con destinazione New York.
Con l’intento di fornire ai ricchi un viaggio lussuosissimo, si tenevano cene in cravatta nera nella formale sala da pranzo , passeggiate sul  lungomare, e trattamenti sanitari negli stravaganti bagni turchi.

Nonostante il bottino che i creatori delle navi spesero per la decorazione all’interno, la tecnologia non era abbastanza efficace al tempo per evitare un iceberg.
Anche se una delle vedette avvistò l’iceberg e allertò l’ufficiale di turno, la nave era troppo grande per girare e completamente evitare l’impatto L’iceberg urtò a tribordo, danneggiando ripetutamente la nave e provocando faglie fatali nella stessa al di sotto del livello dell’acqua.  Gli esperti ritengono che la nave non sarebbe affondata se l’impatto fosse stato frontale.

Tuttavia, per la diffusione del danno e la sua elevata estensione a tribordo, c’era poco da fare per evitare l’affondamento. Non appena si eresse in verticale, la nave si spezzò in due parti. La prua affondò drammaticamente nell’oceano, inabissandosi con un tale tonfo da causare cambiamenti visibili nel fondale stesso.

Dopo essere ricaduta in acqua la poppa si riempì d’acqua, ma anzichè seguire il destino della prua ruotò su se stessa e l’acciaio si lacerò, facendo essenzialmente muovere a spirale la nave mentre precipitava sul fondo.

Foto del relitto, ora nella sua ultima dimora a due miglia sotto il livello del mare, mostrano il deterioramento della nave, una volta magnifica. Mentre si contano alla rovescia i giorni che separano dal 100 ° anniversario della partenza della nave, il 10 aprile, e l’affondamento, il 15 aprile, molti dei dettagli del mito che circonda la storica nave saranno rivissuti da coloro nati generazioni a seguire.

«IO, SOPRAVVISSUTO A UN NAUFRAGIO»

Scritto da: Luca Valente
Fonte: Mensile “Schio” di febbraio 2012

 

Dopo la tragedia della “Costa Concordia”, ecco i ricordi di Bruno Dalla Croce, che a 94 anni ricorda ancora bene il siluramento e l’affondamento, nel ’41, della nave sulla quale era imbarcato. «Mi salvai per miracolo».

La recente tragedia della Costa Concordia, la nave da crociera incagliatasi davanti all’isola del Giglio, ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Solo chi ha vissuto un’esperienza simile, però, sa cosa significhi trovarsi sul ponte di un gigante galleggiante in procinto di affondare. Un’esperienza che può ben raccontare lo scledense Bruno Dalla Croce, anche se risale al lontano 1941.

L’affondamento della nave che lo trasportava in Africa è rimasto impresso in modo indelebile nei suoi ricordi, drammaticamente risvegliatisi nel vedere in televisione le immagini della Concordia sbandata su un fianco, il terrore dei passeggeri, l’assalto alle scialuppe di salvataggio: «So cosa si prova, sono stato un naufrago anch’io. Viaggiavo a bordo della motonave Oceania, i sottomarini inglesi ci hanno silurato prima che raggiungessimo la Libia. Rimasi in balia delle onde, da solo, per molte ore. Solo per un miracolo riuscii a salvarmi».
Dalla Croce, 94 anni, abita a Magrè (Vicenza). Sulla parete del salotto due Croci al merito di guerra e una foto di quando era prigioniero negli Stati Uniti, nel cassetto decine di altre immagini della sua vita da militare, iniziata nella Guardia alla frontiera all’epoca dell’attacco alla Francia, nel giugno 1940. Poi vennero il trasferimento al 5° Parco automobilistico di Verona e l’imbarco per il Nordafrica, il 13 settembre 1941, con destinazione Tripoli.
Quella notte da Taranto salparono le grandi motonavi Oceania e Neptunia da 19.500 tonnellate ciascuna e Vulcania da 24.500, scortate dai cacciatorpediniere Da Recco, Pessagno, Da Noli, Usodimare e Gioberti. Avvistato dalla ricognizione nemica, il convoglio cadde in un agguato tesogli nella notte tra il 16 e il 17 settembre da quattro sottomarini britannici partiti da Malta: l’Unbeaten, l’Upright, l’Ursula e l’Upholder. Quest’ultimo lanciò una salva di siluri che fece colare a picco il Neptunia e danneggiò l’Oceania. L’Upholder, unità leggendaria (il suo comandante, David Wanklyn, fu il primo ufficiale inglese sommergibilista ad essere decorato con la Victoria Cross durante la seconda Guerra mondiale), mise a segno però altri due siluri al centro della nave, decretandone la fine: l’Oceania affondò verticalmente di poppa. Sulle due navi erano imbarcati 5818 militari: le vittime furono 384.
«Eravamo in attesa da quattro mesi ad Afragola – racconta Dalla Croce -, quando finalmente giunse l’ordine di imbarcarci. Al largo di Malta i nostri aerei abbandonarono la copertura, lasciandoci al nostro destino. Girava voce che gli inglesi ci aspettassero e io, quella sera, non me la sentii di scendere sottocoperta, mentre un mio compaesano, Lucio Fioretto, preferì il caldo della cuccetta alla scomodità del ponte e del giubbotto di salvataggio: non lo rividi più. Verso le quattro del mattino la nave fu squassata da un’esplosione e cominciò a sbandare, ma dicevano che c’era tutto il tempo di mettersi in salvo. Vidi scene surreali: soldati che scattavano fotografie ricordo, il furiere che distribuiva le paghe».Settant’anni dopo situazioni simili le abbiamo riscontrate sulla Concordia: molti membri dell’equipaggio si sono lamentati che diversi passeggeri pensavano più a scattare foto e a fare riprese con il telefonino invece che a mettersi in salvo. Ma torniamo al racconto di Dalla Croce: «Ci fu un’altra esplosione, ci avevano colpito ancora. Il mare era in burrasca: presi una fune per calarmi dalla fiancata e nel farlo mi scorticai completamente le mani. In acqua le onde mi sbattevano continuamente contro lo scafo: non riuscivo ad allontanarmi e non so come sfuggii al risucchio quando la nave s’inabissò. Riuscii ad issarmi su una piccola zattera, mentre si faceva giorno e le onde mi portavano a chilometri di distanza. Persi i sensi e mi svegliai in ospedale, a Tripoli, il 18 settembre: mi raccontarono che un idrovolante mi aveva scorto tra i flutti, al tramonto, ed era ammarato per raccogliermi».
Il Neptunia e l’Oceania furono solo due delle decine di navi colate a picco nel Canale di Sicilia tra il 1940 ed il 1943, durante quella che venne definita la battaglia dei convogli e che fu il compito principale della Marina italiana durante la 2ª Guerra mondiale: garantire il rifornimento dell’esercito italo-tedesco in Nordafrica. La loro perdita fu comunque uno degli episodi più tragici della guerra del traffico, al pari degli affondamenti del transatlantico Conte Rosso, del trasporto truppe Esperia, dei convogli Tarigo e Duisburg, degli incrociatori Da Barbiano e Di Giussano e Armando Diaz.
I viaggi di rifornimento alla Libia dallo scoppio della guerra alla perdita della colonia, nel gennaio 1943, furono quasi duemila: raggiunsero i porti il 92% del personale militare imbarcato e l’86% degli equipaggiamenti, a fronte della perdita di 227 navi. Quasi mezzo migliaio, invece, i convogli partiti per il fronte tunisino fino al maggio 1943: arrivarono a destinazione il 93% degli uomini e il 70% dei materiali, anche se andarono perdute 101 navi. Numeri che fanno dire a diversi storici che la Regia marina, sostanzialmente, vinse la battaglia dei convogli. Quel cimitero di navi che copre il fondo del mare assieme a migliaia di cadaveri resta però fredda testimonianza del cruento scontro con le forze aereonavali inglesi, favorite dalla tecnica (radar e sonar) e dalle decrittazioni di Ultra, che permetteva alla Mediterranean Fleet di conoscere in anticipo i movimenti dell’Asse.
Quanto a Dalla Croce, una volta ristabilitosi rientrò in servizio come capo motorista in un reparto officina, raggiungendo il grado di sergente maggiore alla fine della campagna d’Africa. «Ho combattuto a Tobruk, a Sidi Barrani, ad El Alamein. Eravamo sballottati da una parte all’altra del fronte, aggregati una volta alla Divisione Ariete, una volta alla Folgore, o nelle retrovie battute dai raid degli inglesi. Intervenivamo sul campo di battaglia per recuperare gli automezzi recuperabili, compresi quelli del nemico, che al contrario dei nostri non si insabbiavano. Una volta riparai l’autoblindo del comandante di un reparto tedesco, che nessuno riusciva a mettere in moto: mi fecero una gran festa e mi regalarono una montagna di viveri. Ero già stato preso prigioniero una volta, sulla Sirte, ma i coloni trevisani di Barce mi avevano passato attraverso i reticolati degli abiti civili ed ero riuscito a fuggire. Si mise male dopo la ritirata in Tunisia: eravamo in 30 mila, compresi molti generali, e gli inglesi mandarono un caporale e due soldati a chiedere la resa. Una vera umiliazione».
L’odissea del sergente di Magrè, già naufrago e per la seconda volta catturato, non era ancora finita: dopo dure settimane in cattività nei fortini della Legione straniera nel Sahara, i prigionieri furono divisi tra inglesi, francesi e americani. Dalla Croce ebbe la fortuna di finire tra questi ultimi: al termine della quarantena a Casablanca fu imbarcato per Boston e in America accettò di divenire, come tanti altri italiani, collaboratore di guerra. Rientrò in Italia, sbarcando a Napoli, il 20 ottobre 1945. Oggi, come tutti quei prigionieri-lavoratori, aspetta ancora che lo Stato gli versi la sua parte dei miliardi che gli Stati Uniti consegnarono all’Italia come pagamento di quell’impegno, non secondario per l’industria bellica americana. Ma questa è un’altra storia.

Nelle foto: Bruno Dalla Croce oggi, nel 1940 circa, in Africa (quarto da sinistra in piedi) e collaboratore di guerra negli Usa (ultimo a destra); l’affondamento del Neptunia; naufraghi del Neptunia e dell’Oceania raccolti dal cacciatorpediniere Da Noli.

La tomba di Tullia

Scritto da: Monica Taddia
Fonte: http://italiaparallela.blogspot.it/

Nel 1613 il poeta John Donne dedicò una delle sue opere, l’Eclogue, al matrimonio tra Robert Carr, conte del Somerset e Frances Howard. Tra i versi ne leggiamo uno molto curioso:
“Now, as in Tullias tombe, one lamp burnt cleare/ Unchang’d for fifteene hundred yeare/ May these love-lamps we here enshrine/ In warmth, light, lasting, equall the divine…”

La similitudine si riferisce ad un curioso fatto realmente accaduto e tutt’ora avvolto nel mistero.

Attorno al 1450, sulla via Appia Antica, nei pressi della sesta pietra miliare, alcuni operai alla ricerca di marmo durante l’estrazione di un blocco sprofondarono in una volta a tegole profonda, come da documenti dell’epoca, all’incirca dodici piedi. Qui venne ritrovata una tomba che, una volta aperta, rivelò una curiosissima sorpresa. Al suo interno, il corpo intatto e perfettamente conservato di una ragazza, giaceva immerso in due dita di liquido trasparente, profumato e di consistenza grassa, mentre ai suoi piedi era posata quella che poteva essere una lampada funeraria votiva accesa ma che, al contatto con l’aria, si spense.

La tomba apparterrebbe a Tullia, amatissima figlia del politico e filosofo Marco Tullio Cicerone, vissuto nel I secolo a. C. Documenti originali attestano quanto fu grande l’affetto di Cicerone per Tullia, nonstante fosse nata dalla sua relazione con Terenzia. Di lei parla così al fratello Quinto: “Com’è affettuosa, com’è modesta, com’è intelli

gente”. Quando lei morì dando alla luce un figlio il padre ammise di aver perso l’unica cosa che, ancora, lo legava alla vita.Nel febbraio del 45 a.C. la giovane si ammalò e morì dando alla luce un figlio. Tale fu il suo dolore che Cicerone scrisse ad Attico: “Ho perso l’unica cosa che mi legava alla vita”.

Proprio per questo motivo il padre avrebbe deciso di dare alla figlia una sepoltura importante, che avesse potuto conservarne l’aspetto integro per molti secoli a venire.

All’epoca del ritrovamento, l’umanista Bartolomeo Fonte scrisse una lettera all’amico Francesco Sassetti in cui raccontò tutti i particolari del ritrovamento. Toccante è la descrizione che dà del corpo della giovane:
“(…)apparve un volto di così limpido pallore da far sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno. I lunghi capelli neri aderivano ancora al cranio, erano spartiti e annodati come si conviene a una giovane e raccolti in una reticella di seta e oro. Orecchie minuscole, fronte bassa, sopraccigli neri, infine occhi di forma singolare sotto le cui palpebre si scorgeva ancora la cornea. Persino le narici erano ancora intatte e sì morbide da vibrare al semplice contatto di un dito. Le labbra rosse, socchiuse, i denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta sin vicino al palato. Guance, mento, nuca e collo sembravan palpitare. Le braccia scendevano intatte dalle spalle sì che, volendo, avresti potuto muoverle. Le unghie aderivano ancora alle splendide lunghe dita delle mani distese. Petto, ventre e grembo erano invece compressi da un lato e dopo l’asportazione della crosta aromatica si decomposero. Dorso, fianchi e il deretano invece, avevano conservato i loro contorni e le forme meravigliose, così come le cosce e le gambe che in vita avevano sicuramente presentato pregi anche maggiori del viso.”

Il corpo fu portato in Campidoglio e fu oggetto di pellegrinaggi da parte di migliaia di curiosi ,finchè Papa Innocenzo VIII decise di gettare il corpo della ragazza nel Tevere per paura che il popolo la trasformasse in oggetto di culto idolatrico.
Non ci è dato sapere se il corpo appartenesse veramente a Tullia: il sarcofago pare non riportasse alcun simbolo od iscrizione, mentre non fu possibile recuperare il monumento collocato sopra alla cripta. Oltre alle documentazioni scritte (poche) ed orali, disponiamo soltanto del disegno di un ignoto artista dell’epoca.

In realtà il mistero sta nella perfetta conservazione del corpo… E in quella luce che avrebbe brillato per più di mille anni, che tanto ci ricorda l’enigma delle pile di Bagdhad.

Secondo alcuni il liquido avrebbe potuto essere il Natron, lo stesso che gli antichi egizi utilizzavano durante il processo dell’imbalsamazione. Tuttavia l’ipotesi è stata presto scartata, in quanto il natron assorbiva l’acqua dal corpo, seccandolo e permettendone così la conservazione. Nel caso di Tullia, invece, si parla di un tipo di conservazione opposto.

E che dire della lampada, che avrebbe illuminato la stanza in cui la tomba aveva riposato per ben 1500 anni? Cosa avrebbe potuto alimentarla per tutto quel tempo? Ipotesi affermano che solamente pile nucleari potrebbero raggiungere questo obiettivo: esse durano cinquemila anni e diffondono una particolare luce bianco-azzurra.

E’ molto più probabile che il corpo, immerso in quel liquido misterioso (forse l’absesto -amianto- stando alle ricerche in propsito effettuate da Plinio il vecchio durante il I sec. d.C.), avesse acquistato una particolare luminescenza che a contatto con l’aria (oltretutto completamente diversa da quella dell’epoca di inumazione) si sarebbe “spenta”. Il ritrovamento di una lampada o una torcia al suo fianco avrebbe così contribuito  ad alimentare l’ipotesi che la luce provenisse da una fiammella, mentre in realtà sarebbe appartenuta al corpo stesso.